Chi viaggia e chi no
Questa settimana: se non sei bianco non puoi viaggiare, otto marzo, libri, podcast, e qualche data.
Mia madre andò a lavorare in Svizzera nei primi anni ‘60, 1963 secondo i miei calcoli, ma lei non me l’ha mai detto con precisione e quello non è un periodo della sua vita di cui le piace parlare. Di lei so questo: che aveva sedici anni, veniva dal Friuli profondo e voleva guadagnare un po’ di soldi per pagarsi gli studi. Avrebbe raggiunto sua cugina, la formidabile Giulietta (sulla quale vorrei, e forse dovrei, scrivere: ma molti di quelli che la conoscevano bene ormai sono morti). Ci rimase per un po’, non so bene quanto, forse un anno, forse più.
Mia madre era una migrante economica. Come mio padre, partito con la famiglia dalla Calabria per andare a vivere a Pordenone quando era appena maggiorenne, e che ancora cucina le polpette e le melanzane ripiene come le faceva sua madre e riempie i piatti di peperoncino tritato. Come il mio bisnonno Giovanni e il mio trisavolo Leonardo, ancora rintracciabili nei registri di Ellis Island, gli andirivieni di Giovanni meticolosamente registrati: a ogni viaggio verso l’Italia corrisponde un figlio o una figlia, inclusa quella che sarebbe diventata la mamma di Giulietta. Come gli altri miei bisnonni materni, Emilia e Severino (Severo Giulio, per esteso: se mi chiamo Giulia e non Severina è perché mio padre ci vide lungo), emigrati in Francia fra le due guerre e rientrati allo scoppio della seconda. Come i miei parenti morti nel disastro minerario di Marcinelle. Come milioni di italiani prima di loro, e dopo di loro. Come milioni di italiani che se ne vanno ora, per lavoro, studio, perché impiegabili ma non impiegati, o perché gli va e hanno un passaporto che schiude ogni frontiera. A differenza di chi sale su una barca e prega, sperando di arrivare a riva, ma ha la pelle scura e viene da un paese povero, quindi non può scappare, figuriamoci viaggiare. L’eventuale voglia di viaggiare di un povero dalla pelle scura vale zero rispetto a quella di un bianco che se ne va in vacanza a Formentera, o a fare turismo negli stessi paesi da cui vengono quelli che chiama, con disprezzo, “clandestini”.
Il rischio di morte, per chi si sposta essendo nero, è la tassa minima da pagare per vedersi concesso meno del minimo dell’umanità. “Si sposta”, eh, al limite “migra”, mica “viaggia”, i viaggi sono per i ricchi, i poveri devono poverare. Devono rimanere dove sono, a prescindere, anzi, devono impegnarsi per cambiare il loro paese. Chissà com’è che ci possono riuscire, quando il paese in questione è stato depredato dalle multinazionali occidentali, distrutto dal colonialismo, è in mano a una dittatura sanguinaria che rinchiude le donne in casa e le priva dei più elementari diritti. Chissà come ci potevano riuscire le donne e le ragazze abbandonate alla mercé dei talebani, annegate a pochi metri dalla spiaggia di Steccato di Cutro.
Piantedosi, dimettiti. Non sei solo un Ministro dell’Interno incapace, sei proprio privo dei requisiti essenziali per vivere da umano fra gli umani, e non c’è mai da fidarsi della gente che non riconosce l’umanità altrui.
Domani è l’otto marzo
Quest’anno niente sciopero transfemminista, per me: sono a Bruxelles per un incontro al Parlamento Europeo, luogo che ho molto amato quando ci sono andata nel 2019, e in cui torno più che volentieri in questi giorni di grande subbuglio politico. Non per fare quella che “me lo state chiedendo in tanti”, ma qui c’è un piccolo botta e risposta proprio sul valore dello sciopero su cui mi interessa fare un punto ulteriore.
Partiamo dalle basi: l’8 marzo non è una festa, non è il giorno in cui ci offendiamo se i nostri compagni e colleghi non ci regalano le mimose e tantomeno la giornata nazionale dello spogliarello post-pizzata con le amiche. È una giornata di lotta, commemorazione, riflessione. Lo sciopero è una forma di lotta molto potente: la sottrazione del valore del lavoro è il modo in cui i lavoratori manifestano il loro essere essenziali alla vita economica e sociale del paese. Questo, ovviamente, riguarda in maniera molto chiara le insegnanti e il personale scolastico, a grande maggioranza femminile.
Se chiediamo alle donne di rinunciare al loro diritto di sciopero per venire incontro alle esigenze delle altre donne, di fatto stiamo di nuovo subordinando il lavoro femminile alla cura: della propria prole, o della comunità. Il diritto allo sciopero è parte integrante della vita lavorativa: l’8 marzo si sciopera anche per quelle che non possono farlo, ma idealmente si sciopera tutte, anche dal lavoro di cura. La vaga general feminista che ogni anno viene invocata dai muri di Barcellona è un atto politico a più livelli. È uno sciopero, serve a rivendicare tutele e diritti economici. Ma serve anche a ricordare a come le donne siano presenti nella società, e siano indispensabili, anche e soprattutto come lavoratrici. È importante rispettare questo diritto, e ricordarci di rivolgere le nostre rimostranze ai governi che continuano a negarci tutele essenziali.
Libri?
Cominciamo dal fatto che oggi esce il mio, per esempio!
Scintilla nel buio è disponibile da oggi in libreria, su tutti gli store e anche e soprattutto sullo shop della Libreria Tlon. Parla di lutto, salute mentale, famiglia, amicizia, amore e Roma Est vs Roma Nord, per lettrici (e lettori) dagli undici anni in su. Contiene una spiegazione semplice ma piuttosto chiara del concetto di “classismo”, traffico sulla Prenestina e una serie di luoghi che si trovano facilmente su Google Maps. Oggi pomeriggio vado da Tlon a firmare le copie acquistate in pre-ordine: se leggi questa mail la mattina del 7, c’è ancora tempo per assicurartene una.
La settimana scorsa, nell’ubriacatura post-primarie del PD (che devo essere sincera, non è ancora scesa: accendere il televisore e vedere Elly a ogni TG è tuttora un po’ surreale) dicevo che non avevo lo spazio di parlare di La vita intima di Niccolò Ammaniti, ovvero il libro che pensavo di odiare e invece ho adorato.
C’erano tanti motivi per cui partivo prevenuta. Le prime pagine, che sembravano prefigurare una satira sociale dalla mano pesante contro le signore-bene della Roma terrazzara. Il fatto che un autore si prendesse la libertà di osservare la vita intima di una donna (cosa che in letteratura ha scarsi precedenti di successo, purtroppo, a causa di un problema grave di bias cognitivo degli uomini). Insomma, ci andavo femminista, filtro che non mi impedisce di godermi alcun prodotto dell’ingegno, ma di sicuro mi fa stare bassa sulle lodi.
Com’è finita: che mi è piaciuto da impazzire, mi è piaciuto che mi ci sono avvolta come in un piumone fatto al 50% di calore e al 50% di ansia. Ammaniti fa un’operazione di una semplicità disarmante, che però è semplice solo per lui che è di una bravura fuori scala: scrive un essere umano femmina intero, completo, con limiti, difetti, fragilità, pregi, dolcezze, cicatrici, e lo accompagna con empatia da un punto all’altro di un arco di liberazione che segue una traiettoria tutt’altro che ortodossa. Maria Cristina Palma, signora ricca, magra, rifattissima, moglie di, madre di, funzione familiare e pubblica, amata e odiata, nelle sue mani di narratore onnipotente appare subito tridimensionale, fatta della materia di cui sono fatte le persone che conosciamo. Entro la quinta pagina siamo già dalla sua parte, e il fatto di sapere che nel mondo reale ci starebbe pesantemente sull’anima non fa che acuire il senso di eccezionalità di questa vicinanza. Ammaniti prende la Moglie Stronza, un personaggio che siamo abituati a vedersi muovere alla periferia dell’azione, e la scaraventa al centro della vicenda. Ci costringe a tifare per qualcuno che di norma siamo ben contenti di veder fallire.
Non mi azzarderei a dire, come ha fatto Chiara Tagliaferri su Instagram, che La vita intima sia un libro femminista (anche se di tutto si può dare una lettura femminista: io l’ho appena fatto), ma non credo che l’arte debba essere politica negli intenti. Anzi, l’arte fatta col manualino delle Cose Giuste da Dire finisce per essere piuttosto noiosa. La vita intima è pur sempre la storia di una signora ricca che si contorce fino allo spasimo pur di non perdere la sua posizione: Ammaniti i ricchi li conosce e li sa raccontare, ma sempre ricchi sono. La vicenda di Maria Cristina Palma coniugata Mascagni si svolge in un contesto di sostanziale sicurezza economica e privilegio di classe, e questo allo stesso tempo alza la posta e minimizza le conseguenze di lungo periodo. Ma scusate: chi se ne frega. Io non leggo per essere edificata. Leggo per divertirmi, cagarmi sotto per l’angoscia (e in questo Ammaniti è un professionista, tanto che con La vita intima facevo come faccio con i romanzi gotici: sbirciavo la pagina successiva per vedere se arrivava lo spavento), empatizzare, ridere quando si può, insomma, io dentro i libri ci voglio stare senza pensare se quando arriverò dall’altra parte sarò una persona migliore. E guarda un po’ quante parole mi ha fatto spendere questo libro in particolare. Al punto che ne avevo altri da segnalare, ma me li tengo per la settimana prossima.
Podcast, podcast, podcast
L’uscita di ogni nuova puntata di Indagini mi lascia con una fame tremenda di prodotti audio da ascoltare mentre cammino, vado a fare la spesa o pulisco casa. A volte, confesso, allungo apposta le faccende domestiche per sentire un pezzo di puntata in più. Nelle ultime due settimane ho ascoltato un po’ di cose nuove che mi sembrava giusto segnalare.
Mi è piaciuto molto, nonostante qualche sbavatura (fare un podcast ambientato in provincia di Pordenone e dire “Pòrcia” invece che “Porcìa” non è proprio il massimo), Fantasma, una serie audio sul caso dell’Unabomber friulano che espande la vicenda entrando nei dettagli degli eventi con il contributo di alcune delle vittime e anche di Elvo Zornitta, accusato di essere il bombarolo e in seguito prosciolto.
Molto bello, nella sua semplicità, anche Nella trappola della setta, che a dispetto del titolo drammatico è un’indagine onesta e delicata non sulle sette ma sulla facilità con cui anche persone intelligenti e dotate di spirito critico possono essere manipolate e ridotte in condizioni di dipendenza emotiva ed economica da santoni, guru e praticoni carismatici e privi di qualsiasi qualifica professionale. Giorgia De Carolis parte dalla sua esperienza di persona affetta da grave malattia autoimmune a cui un naturopata raccomanda di smettere di prendere i farmaci diagnosticandole una sofferenza al fegato a partire da un banale (e innocuo) neo oculare, e costruisce la sua indagine intorno al caso di Un Punto Macrobiotico, o UPM, fondata da Mario Pianesi. Pianesi, che non aveva alcuna formazione in campo medico o nutrizionale, pretendeva di “curare” ogni malattia con una “dieta sana” che nei fatti era semplicemente un’alimentazione molto restrittiva e povera di nutrienti.
Ho iniziato a seguire anche Willy, una storia di ragazzi, podcast di Christian Raimo, Claudio Morici, Alessandro Coltrè e Alberto Nerazzini con musiche e sound design di Teho Teardo. Com’è facile intuire, si parla della morte di Willy Monteiro Duarte, il ragazzo ucciso nel 2020 a Colleferro per aver difeso un amico in un alterco. È un’occasione per esplorare la vicenda e la vita di una comunità come ce ne sono tante nel Lazio, paesi che arrivano alle cronache quasi solo per fatti di sangue e che vengono sempre raccontati come luoghi depressi e infestati da una criminalità incontrollabile.
Altre cose che sto ascoltando: Love, Janessa, un’indagine sulla donna il cui volto viene utilizzato per truffe sentimentali in tutto il mondo, altra occasione per esplorare la facilità con cui persone intelligenti possono cadere nel tranello della manipolazione. In questo caso, si tratta di manipolazione amorosa: un business che, come racconta il podcast, è diventato un’industria in alcuni fra i paesi più poveri del mondo.
Date!
Domani, dicevo, sono a Bruxelles:
Venerdì al Circolo Operaio “Il Bruco” (chi ha letto La vita intima sa che sto ridendo) di Magré (VI), per l’incontro che si vede qui in grafica:
Il 25 marzo gioco in casa: vado a Paliano per un incontro alla Sala Teatro Esperia, ore 17.30.
Il 30 marzo sono al Pordenone Docs Fest per una tavola rotonda sull’inclusività di cui segnalerò meglio i dettagli.
Il 22 aprile sono (felicissimamente) all’International Journalism Festival di Perugia, giuro che non vedo l’ora. Il panel a cui partecipo è tutto cazzimma: si parla di aborto.
Un’ultima cosa…
Nelle ultime settimane è successa una cosa strana e che mi ha fatto molto piacere: qualcuno, di sua spontanea volontà, ha deciso di attivare la cosiddetta “pledge” di Substack per la mia newsletter. In pratica funziona così: chi è iscrittǝ alla newsletter può impegnarsi a pagare una certa somma in caso venisse attivata la modalità a pagamento. È una forma di sostegno volontario, che permette a chi vuole di finanziare un progetto a cui si attribuisce valore. Ero a conoscenza di questa possibilità, ma per ora ho deciso di non renderla disponibile, anche se dicevo qualche settimana fa che ci sto pensando, perché la newsletter sta diventando un lavoro. Ecco, per ora non succederà, ma ci tenevo a ringraziare chi l’ha fatto senza che io lo chiedessi: l’ho trovata una cosa bella e un bellissimo attestato di stima.
Manca poco ai 6.000 iscritti, condividi questo numero della newsletter! Dai dai dai!
Baci,
Giulia
Qui a Milano saresti diventata "la Seve".
Direi che ti è andata bene così 😊
Che botta questa uscita!
Letta in pausa al lavoro mi ha dato una carica incredibile.
Keep on!