Di libri, libroidi e responsabilità
Questa settimana: benvenutǝ nella mia nuova casa, una lettera aperta, la grande polemica sul libro di Elisa Esposito, un paio di cose che ho visto e #freenotfreezed
Eccomi qua, in questa nuova casa ancora così poco familiare. Non avevo intenzione di spostare la newsletter da quella che era già la sua seconda casa, e anche se Revue funzionava male, il trasloco non era nelle mie priorità. Poi Elon Musk si è comprato Twitter e ha cominciato a sfasciarlo come certi ragazzini viziati sfasciano i giochi di cui non comprendono il valore: è una cosa sua, ci fa quello che vuole. Purtroppo Revue era nato come servizio di Twitter: mai decollato, mai stato pienamente funzionale, presto abbandonato, pieno di bachi. Era ora di venire via. Se mi hai seguita fino qui: grazie.
Qualcosa qui è diverso: si possono mettere i like, per esempio, o lasciare commenti direttamente nella sezione apposita. Ma puoi anche rispondermi come al solito. Io leggo sempre tutto. Con il tempo vorrei provare a usare meglio anche alcune cose che Substack ha e Revue non aveva e non avrebbe avuto mai, ma ogni cosa a suo tempo.
A proposito di Twitter: ho fatto richiesta per accedere alla beta di una nuova piattaforma che è in fase di lancio negli Stati Uniti, e dopo qualche giorno ho scoperto, nell’ordine, di essere arrivata in cima alla fila e di avere ricevuto il permesso di registrarmi.
Per ora è relativamente silenziosa e con funzionalità limitate. I post sono più lunghi che su Twitter e c’è la possibilità di formattarli, come su Medium. Niente edit button, come su Twitter. La timeline è fatta della gente che c’è dentro, a occhio, di cui ho riconosciuto George Conway (il marito di Kellyanne, dai che te la ricordi, nonché fondatore di The Lincoln Project) e Reuters. Non c’è ancora modo di vedere una lista di persone da seguire, per cui è un po’ come arrivare alla festa in un locale quando stanno aprendo il bar. Seguiranno aggiornamenti.
E ora parliamo d’altro.
Lettera aperta a Massimo Giannini
Il 20 novembre, nel pieno del caso del serial killer di Roma (già risolto, pare) è uscito su La Stampa un pezzo a firma “Patrizio Bati” che non ci si credeva. Ne parlo oggi su La Svolta rivolgendo una richiesta al direttore, riassumibile in “Ma perché? Ma cosa vi diceva il cervello?”
La grande polemica sul libro di Elisa Esposito
Nei giorni scorsi ho visto una certa scandalizzata agitazione percorrere il mondo editoriale in seguito alla pubblicazione del libro sul corsivo di Elisa Esposito. Un’agitazione che mi è sembrata subito eccessiva: di instant book - o come dice Michela Murgia, libroidi - firmati dal fenomeno del momento ne sono sempre usciti, almeno dai tempi delle barzellette di Totti (ma probabilmente anche prima, solo che non me li ricordo). Sono prodotti editoriali pensati per fare cassa con un fandom: non me ne voglia Elisa Esposito, ma dubito che il libro in questione sia un capolavoro, o anche solo una roba che leggi e ti dici “Ma sai che invece”.
Quello che non capisco è lo scandalo. Soprattutto perché non credo che il libro sul corsivo (che ho scoperto esistere anche in inglese, si chiama cursive, dovrei capire chi ha copiato chi ma in fondo me ne frega veramente poco) possa davvero influire sulle sorti della narrativa italiana, non essendo narrativa. E se davvero vogliamo cercare un colpevole del brusco calo della qualità di certa narrativa commerciale, penso che in un confronto all’americana sceglierei subito certa sbobba prelevata pari pari da Wattpad, di cui ho parlato anni fa su Medium.
Io però non faccio l’editrice, io scrivo, e oltre a scrivere sono una lettrice che trova nella lettura un conforto e un piacere che non hanno paragoni con altre forme di intrattenimento. Allora parlo di quella che è la nostra responsabilità, come autori e autrici: scrivere libri che la gente abbia voglia di leggere perché il piacere che prova leggendoli non ha paragoni o paralleli con altre esperienze. E parlare di libri, quando possiamo, con lo stesso amore con cui li leggiamo.
Il mondo della scrittura (narrativa e saggistica) è un mondo vario: c’è quella bella e quella brutta, quella commerciale e quella sperimentale, quella che ti lascia qualcosa e quella che ti passa dentro senza lasciare niente, senza spostare un atomo della tua coscienza, senza riconfigurare - anche di pochissimo - il modo in cui guardi il mondo. Ci sono libri - come quello di Elisa Esposito - fatti per fare cassa su una visibilità più o meno momentanea, e libri che cambiano il corso delle cose. Ci sono i libri dei politici, il libro di Bruno Vespa, i libri dei comici; e ci sono romanzi e saggi che arrivano al momento giusto, e sono scritti nel modo giusto, con il linguaggio giusto e i contenuti giusti, e hanno successo per quello. Ogni tanto, ci sono libri che riescono a essere contemporaneamente leggibili, profondi e godibili.
Nessuno di questi libri è minacciato direttamente da quello di Elisa Esposito.
Nelle librerie dei paesi anglofoni c’è una bella abitudine: i librai scrivono recensioni dei libri che hanno letto e amato, per consigliarli alla clientela. Non è mai successo che uscissi da Foyles o Strand o qualsiasi altra libreria di Londra, New York e ora Dublino senza essermi comprata qualcosa scegliendolo fra quelli consigliati con questo metodo. Io non ho una libreria, leggo meno di quanto vorrei, ma qui dentro posso scegliere di raccontare quello che leggo e mi piace. E io stessa devo ringraziare questa cura se le cose che ho scritto hanno raggiunto un pubblico: là fuori c’è stato qualcuno che ne ha parlato con amore, per amore, fuori dai canali tradizionali, dai giornali e dalle televisioni.
Quando parlo di libri nella mia newsletter, e lo faccio con cura e partecipazione e l’innocenza di chi non riesce a immaginarsi una vita senza lettura (e so benissimo che invece là fuori è pieno di gente che non legge, mai, niente), ho la fortuna di poter misurare i risultati di questa cura. Niente di trascendentale, sono solo gli analytics dello shop di Tlon, che mi dicono quanta gente ha comprato i titoli che raccomando, ed è veramente tanta, in rapporto alla gente che mi legge. Allora forse il segreto sta lì: nel fare libri belli, nel saperli proporre, nella curatela dei contenuti.
Ho visto The Crown
Io pensavo fosse l’ultima stagione. Giuro. Pensavo che questa stagione - la quinta, la stagione di Diana, della normalizzazione del divorzio nella famiglia reale britannica, della crisi della monarchia che è stata preludio dell’ultimo ritorno di fiamma prima che Queen Elizabeth ci salutasse per sopraggiunti limiti d’età (e suo figlio diventasse finalmente un re anziano, collerico e molto meno disponibile a farsi mettere in un angolo) fosse quella in cui mi sarei separata da una delle mie serie preferite di questi anni. E quando sono arrivata al finale di The Crown stagione 5 - così aperto, sospeso, insoddisfacente per essere un series finale - ho scoperto che no, di stagione ce ne sarà un’altra, la sesta, l’ultima. Giustamente: due con Claire Foy, due con Olivia Colman (strepitosa sempre) e due con Imelda Staunton, che non ha certo fatto rimpiangere le prime due.
Dico subito quello che mi è piaciuto, e forse la prima cosa - Staunton a parte - è proprio Dominic West as Prince Charles. Le critiche che gli sono state rivolte (troppo bono, troppo poco Carlo!) sono, secondo me, infondate. Anzi: West ha fatto un lavoro straordinario sulla mimica facciale, sul corpo, sui movimenti. Chi ha familiarità con la fisicità di Charles non potrà non rivederlo nel movimento della bocca, nelle mani che si incontrano davanti o dietro al torso, nei toni. Di tutta questa stagione, forse è la cosa che mi è piaciuta di più: anche se non è riuscita a farmi soprassedere sul lavoro fatto a metà da Elizabeth Debicki, che interpreta Diana.
Debicki azzecca in pieno la voce - quel sussurro da gatta un po’ roco, le consonanti pastose - ma non riesce a riprodurre lo sguardo di Diana, quella timidezza malinconica che in lei diventa smorfiosa, uno sguardo da coquette che di sicuro Diana talvolta affettava come arma di difesa, ma che per la maggior parte del tempo le veniva naturale. Emma Corrin, nella stagione 4, aveva azzeccato in pieno quel misto di innocenza e autocompiacimento, senza preoccuparsi troppo di essere calligrafica nella riproduzione. Debicki ha voluto strafare, e il risultato stucca. Siamo ai limiti del Tale e Quale Show.
La storia è ormai troppo recente perché la maggior parte di noi nati fra gli anni ‘70 e gli anni ‘80 non se la ricordi per averla vissuta in tempo reale. Ed è negli episodi meno noti (e quindi più soggetti a ricostruzioni di fantasia) che a volte gli sceneggiatori fanno cilecca. Il dialogo fra Princess Margaret e Peter Townsend, suo primo e forse unico amore, sembra un riassunto delle puntate precedenti più che un vero scambio fra due persone che rievocano il passato senza avere bisogno di raccontarselo da capo. Insomma, quella scena (che dovrebbe essere toccante, la chiusura di un cerchio che non si potrà mai chiudere) è una di quelle che sceneggiatori di Boris chiamerebbero “odìmo”.
Ho visto anche Il prodigio
L’ho trovato in home su Netflix, non ho resistito all’ennesima iterazione di Florence Pugh vestita in abiti di metà ‘800, e l’ho aperto mentre cucinavo la minestra di riso e verze. Mi è piaciuto molto: sarà che sono in trip irlandese, sarà che mi piacciono i procedural (e anche questo, in parte, lo è), sarà che è un film drammatico girato come un horror, ma me lo sono proprio gustato. È la storia di un’infermiera inglese, Elizabeth Wright, convocata in un’Irlanda che ha ancora fresca nella memoria la tragedia della grande carestia del 1845 per svelare il mistero di una bambina che non mangia da quattro mesi, eppure non sfiorisce. Anna sostiene di nutrirsi di “manna dal cielo”: possibile? Impossibile? Che succede? Come finirà? La storia mi era stata mezza spoilerata da un post su Facebook, ma conoscere il nodo centrale, per una volta, non è dirimente rispetto alla risoluzione della vicenda.
#freenotfreezed
Prima di chiudere questa newsletter ipertrofica voglio solo segnalare di nuovo la campagna lanciata da ActionAid Italia per il 25 novembre (Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne). Come dicevo la settimana scorsa, la campagna di quest’anno si intitola #freenotfreezed e ha l’obiettivo di portare l’attenzione sull’indisponibilità della politica a farsi davvero carico delle conseguenze della violenza, oltre che a contrastarla. Ne ho parlato anche su La Svolta la settimana scorsa.
Amo finito? Per questa settimana sì.
Giulia
Ma quant'è piacevole, ogni volta, leggerti!
Trasloco andato perfettamente a buon fine!