Giulia Blasi | Servizio a domicilio - Finalmente a casa
Ultima newsletter prima di Natale: dove sono stata gli ultimi venti giorni, il libro di Emily Ratajkowski, il nuovo podcast di Pablo Trincia e la gestione dell'ansia, un paio di canzoni e un monologo che mi ha fatto ridere.
Sono stata ventitré giorni lontana da casa mia in attesa che il mio fidanzato risultasse negativo al Covid (preso da vaccinato, fatto in forma lieve: prima o poi toccherà anche a me, ma con ogni vaccinazione aumentano le probabilità che sia davvero un raffreddore e non una roba che mi spedisce in ospedale). Ventitré cazzo di giorni, non succedeva dal 2013, anzi, neanche nel 2013 ero mai stata via così a lungo, ma finalmente sono tornata. Ho delle ricrescite che sembro Pepé Le Pew e le arterie intasate dal fritto, perché a casa dei miei tutto è fritto o bollito e si mangiano sempre le stesse tre cose a rotazione, ma quando ho esultato perché finalmente potevo tornare nessuno ha capito perché fossi felice: non ero forse già a casa?
Il podcast dell'angoscia
La sosta forzata dai miei genitori mi ha fatto fare il salto da "Non ascolto i podcast perché non ho tempo" a "Non ci sono abbastanza podcast belli per soddisfare la mia fame di podcast" (che poi non è vero, devo solo trovarli). A un certo punto me ne sono andata da Decathlon, ho comprato delle scarpacce da corsa da 25 euro e un paio di pantaloni della tuta pesanti, ho rimediato un giubbotto e ho cominciato a camminare. Negli anni in cui vivevo a San Giovanni di Casarsa (paese che per ora ha prodotto, che io sappia, numero due personalità note a livello nazionale: Pier Paolo Pasolini e Bryan Cristante) non andavo in giro a piedi, mi spostavo sempre e solo in bici o in macchina, cosa surreale perché la distanza fra casa dei miei e Casarsa è circa la stessa che c'è fra via di Acqua Bullicante e piazza del Pigneto, ed è una distanza che a Roma non giustifica lo spostamento in auto o con il motorino (e non solo perché 'ndo cazzo parcheggi).
Tutto questo pippone per dire che camminando ascoltavo i podcast, e dopo Romanzo Quirinale ho cominciato Il dito di Dio, che quelli di Chora pubblicano due episodi alla volta, cosa da un lato frustrante in questi tempi di binge watching e gratificazione istantanea, dall'altro saggia e prudente per motivi che ora vado a spiegarvi. Il dito di Dio è un podcast di Pablo Trincia che parla del naufragio della Costa Concordia, costruito intorno alle voci dei sopravvissuti. E come ogni narrativa del disastro che si rispetti, anche questa funziona a flashforward: si parte dai sommozzatori che si muovono dentro la nave inclinata e piena d'acqua, dove i corridoi sono pozzi profondi e le porte trabocchetti. Poi si procede a presentare alcune delle voci narranti, famiglie, persone comuni che raccontano i primi giorni a bordo della nave, la sorpresa, la gioia, il divertimento, i flirt. "Mancano sei giorni al naufragio" annuncia la voce di Trincia. "Mancano tre giorni". E l'angoscia sale.
Le persone come me, che soffrono di ansia in maniera a volte debilitante, per una sorta di paradosso emotivo finiscono per ricercare le storie di disastro costruite intorno all'ansia. È come se queste emozione che nella vita non sappiamo gestire fosse sperimentabile in maniera sicura in contesti controllati come film, serie TV e appunto, podcast. Il dito di Dio è angoscia pura, non solo perché sai come finisce, ma perché finisce al buio dentro l'acqua, vale a dire le due cose che combinate mi incutono più terrore in assoluto. Uno dei miei sogni ricorrenti quando non sto bene emotivamente è proprio l'annegamento: venerdì tornavo a piedi sulla strada che porta a Località Versutta (quella dove viveva la famiglia di Pasolini, per inciso) e ascoltavo la storia di una nave che si avvia a naufragare a poche centinaia di metri dalla costa italiana, e insomma sabato sera quando poi ci sono ripassata in macchina con mio cognato su un van pieno di adolescenti che avevamo portato a festeggiare il compleanno di mio nipote sulla pista dei kart dentro un centro commerciale che sembrava un girone dantesco costruito apposta per punirmi di non so quale peccato (adulti senza mascherina o con la chirurgica sulla bocca, ragazzini urlanti, musica brutta a cannone), tutta l'angoscia del giorno prima è tornata su. Ora non so se riuscirò mai a passare per Versutta senza avvertire una stretta allo stomaco. Il podcast è bello così, ma è pure giusto che esca due episodi alla volta, perché se me lo sentissi tutto in un colpo probabilmente non dormirei per una settimana.
La vita delle belle
In Brutta c'è un capitolo intitolato "Le donne belle fanno una vita diversa" che è basato su un'ipotesi: che vita avrei fatto, se fossi stata bellissima? Non carina, non attraente, non normale: stupenda. Di quelle che fermano il traffico. Come Emily Ratajkowski, insomma, autrice di My Body, che in Italia è uscito con il titolo Sul mio corpo e che sto leggendo proprio in questi giorni.
Sapevo che Ratajkowski era una bravissima scrittrice di non-fiction perché avevo già letto altre cose che aveva scritto, a partire da Baby Woman, uscito su Lenny, la newsletter di Lena Dunham e Jenni Conner, che avevo anche commentato su Athena Talks (quanta archeologia del web!) Il libro ha una struttura molto simile a quella di Brutta, sono saggi autobiografici in sequenza più o meno diacronica, e raccontano il rapporto fra Ratajkowski e il suo corpo in un mondo che attribuisce un valore economico e sociale altissimo a quel tipo di bellezza. Una lettura a tratti struggente, che stringe lo stomaco, per come raffigura il conflitto fra la sensazione di potere che deriva dall'essere oggettivamente bellissima e la constatazione che siamo davvero tutte sotto lo stesso cielo, tutte educate alla ricerca dello sguardo maschile su di noi, lo sguardo che decide se abbiamo o meno valore e quanto. Ratajkowski coglie e raffigura queste contraddizioni in maniera esplicita e onesta, senza false modestie. My Body mi sta piacendo moltissimo e penso che costituisca un contributo molto valido, proprio perché del tutto personale, alla discussione intorno al valore sociale della bellezza.
(Il link al libro rimanda allo shop della Libreria Tlon, con cui ho un rapporto di affiliazione: se lo compri da lì te lo inviano a casa senza spese di spedizione e in un bel pacchetto, e io guadagno una piccola percentuale. Altrimenti lo puoi comprare in libreria, o dove vuoi.)
Basta con la musica dei vecchi
Quest'anno il mio Spotify Wrapped mi ha fatto veramente cacare, e mi ha fatto capire che ascolto veramente troppa musica da vecchi ed è sempre quella. Quindi un po' per reazione e un po' perché ho rosicato quando gIANMARIA è arrivato secondo a X Factor, ho mollato le mie care vecchie playlist e mi sono messa a sentire cose nuove. Risultato, sono dieci giorni che ascolto ossessivamente l'album di Blanco, e mi piace un sacco anche Ariete. Questa post-adolescenza da quasi cinquantenne mi fa apprezzare vieppiù l'ultimissima uscita targata 42 Records, che segnalo alla faccia del conflitto d'interessi perché domenica tornando con il treno ho ascoltato ossessivamente due cose: quella e la versione originale di Seasons of Love. Lui si chiama Marco Fracasia, è un torinese di 21 anni che con Blanco e Ariete non c'entra niente, il suo brano di debutto si intitola black midi ed è fichissimo.
black midi — sme.lnk.to Listen to content by Marco Fracasia.
Una cosa che mi ha fatto ridere
Il monologo di Edoardo Leo a Propaganda Live sul Natale con il cugino no vax.
Il Natale e i parenti No vax: il monologo di Edoardo Leo — www.la7.it Il monologo di Edoardo Leo a Propaganda Live
Una canzone di Natale
Sempre fregandomene del conflitto d'interessi: Marco Castello ha fatto uscire una canzone di Natale. Se ancora non sei vittima di Whamageddon e ti piacciono le canzoni malinconiche, eccotela qui.
Luminarie — sme.lnk.to Go to Luminarie.
Ci sentiamo dopo Natale. Ciao!
Giulia