Giulia Blasi | Servizio a domicilio - Goodbye Sandy
Questa settimana: Olivia Newton-John, un racconto sul raccontare, un aggiornamento a tema #votafemminista, e le conseguenze dell'omofobia (e della transfobia)
È morta Olivia Newton-John. Come al solito, ho visto passare la notizia su Twitter, e ho gridato: "No!"
Grease è uno di quei film in cui ognuna di noi trova un corrispettivo. Quando ero ragazzina mi sembrava naturale identificarmi in Sandy, anche se Sandy era carina e popolare e io invece ero più un incrocio fra Frenchy la simpatica pasticciona e Mrs Murdock, l'insegnante di tecnica di Danny Zuko. Sandy era innocente, pulita, un po' perculata da quella che è il vero spirito guida di noi ragazze contemporanee, vale a dire Rizzo. Ma alla fine, quando Rizzo pensa di essere incinta e tutti gli altri spettegolano alle sue spalle, è Sandy a offrirle solidarietà. Sandy era una vera sorella, e anche se alla fine sembra che la sua emancipazione passi per una permanente e un paio di leggings di pelle, era difficile non volerle bene. Al di là di questo, Olivia Newton-John è stata gli anni '80, era un'icona, era la nostra infanzia. E ogni volta che un pezzo di infanzia se ne va, non ci rimane altro che piangere e contemplare il nostro invecchiamento.
Un racconto
Gli scrittori (e le scrittrici, non è una questione di genere) amano molto sentire parlare del processo creativo degli altri scrittori e delle altre scrittrici. La settimana scorsa, Rosella Postorino ha pubblicato su Facebook un racconto che ha scritto durante l'edizione 2013 di Gita al faro, il festival che si svolge ogni anno a Ventotene. Inizia così:
A vent’anni io scrivevo di nascosto. Di nascosto da mia madre o dai miei amici o dai ragazzi che mi piacevano. Scrivere aveva senso proprio perché nessuno lo sapeva, e farlo, in segreto, tenendo gli altri all’oscuro, era il mio modo di tradirli.
Oggi ho trentacinque anni e il fatto che scrivo ha smesso da tempo di essere un segreto, eppure mi è rimasto lo stesso pudore. Ho bisogno di una stanza chiusa, dove nessuno può vedermi seduta al computer, come se facessi una cosa che non si può condividere, non subito almeno, una cosa di cui ci si potrebbe vergognare. È ancora un gesto osceno, scrivere, per me, ed è quell’oscenità che devo maneggiare, perché possa a un certo punto essere vista, o soltanto perché io trovi abbastanza coraggio da mostrarla. E poi devo ingannarmi, dirmi che potrei sempre rinunciare, fare marcia indietro, convincermi che nessuno al mondo si aspetta di leggere una pagina scritta da me, che gli altri posso ancora tradirli.
Per scrivere, io devo isolarmi.
Non so cosa sia che ci affascina in questi resoconti, al di là della scrittura: credo sia il fatto che scrivere - come molte forme di creazione - è un processo molto solitario. L'isolamento non deve essere necessariamente fisico, è più una questione di spazio mentale, e la creazione di questo spazio varia molto da persona a persona. Per fare un esempio personale, io non ho bisogno di essere fisicamente sola: scrivo molto sui treni, e in generale sono abituata ad avere altre persone nella stanza mentre lavoro, ma nessuno mi deve rivolgere la parola mentre sto lavorando, perché soffio come i gatti quando vengono disturbati mentre mangiano. L'intrusione di parole altrui mentre sto tenendo il filo di una frase è mortale per la concentrazione.
Lo spazio mentale è un problema anche di super-io, per citare Freud. Mi è capitato di avere tempo per scrivere, ma non lo spazio mentale, che per me si riassume in: adesso puoi. Quel "puoi" deriva dall'incrocio di tempo, appunto, assenza di altre incombenze e autorizzazione che mi do a mettermi al lavoro. Per questo scrivere a casa è più difficile, per me, rispetto a quando lo faccio fuori: a casa c'è sempre qualcosa da fare, da pulire, da sistemare, una lavatrice da stendere, un giro al mercato, il pranzo o la cena da preparare, qualcosa che richiede la mia attenzione e mi distrae. Questo per la scrittura redditizia, cioè per quella che mi fa entrare dei soldi in banca. Figuriamoci per quella che so benissimo essere solo sperimentazione, qualcosa che è indispensabile a conservare il piacere del processo creativo, a non farlo diventare solo dovere lavorativo.
Nelle ultime sedute prima della pausa estiva, ho parlato con la mia terapeuta della difficoltà che stavo avendo a chiudere un progetto che normalmente avrebbe richiesto non più di due o tre mesi, progetto che si è poi sbloccato alla fine della sessione di esami, perché pensa un po', insegnare fino a otto ore al giorno, correggere compiti d'esame e dare valutazioni dopo aver avuto il Covid non aiuta a trovare il famoso spazio mentale. Vabbe', comunque, la cosa su cui eravamo d'accordo è questa: che l'innocenza con cui mi buttavo nella scrittura vent'anni fa, ma pure fino al 2009 (quando ho scritto Il mondo prima che arrivassi tu) non esiste più. Quando scrivere diventa il tuo lavoro, è inevitabile perderla: scrivi, ti diverti, ma ci pensi di più, hai mestiere, non è più solo il piacere di perdersi in una storia. E ogni volta che pensi "Adesso scrivo una cosa solo per me, solo per il gusto di starci dentro" devi litigare con il senso di colpa, perché quelle ore lì potrebbero essere destinate al lavoro. E non lo fai.
#votafemminista della settimana
Ho conosciuto Beatrice Brignone nel 2017, quando andò in Parlamento portando con sé i tweet arrivati durante la campagna #quellavoltache (qui ce n'è una parte, quella iniziale: poi dovetti smettere di raccoglierli, perché erano troppi). Mi fu subito simpatica: siamo quasi coetanee, e condividiamo il 99% delle idee, a parte i gusti musicali (io sono una vecchia indie rocker e lei vira brutalmente sul mainstream). Quindi non è stranissimo che mi sia sempre sentita vicina a Possibile, perché negli anni si sono sempre occupati delle cose che mi stavano a cuore: salario minimo, diritti, cannabis legale, detassazione dei prodotti mestruali (Brignone è stata la prima a portare la proposta in Parlamento).
Al di là delle affinità politiche e personali, credo che qui lei centri un punto fondamentale. E cioè che le coalizioni si fanno perché la legge elettorale fa cacare. E le ultime proiezioni sulle intenzioni di voto evidenziano come l'unico modo per ritrovarci i fascisti (di nuovo) al governo sia un campo largo, in cui però ogni partito porta le sue proposte e le sue idee. Non c'è un programmone comune, ci sono i programmi. Si votano quelli (ne ho parlato in questo pezzo che ho scritto per La Svolta).
Brignone è anche l'unica segretaria di un partito di sinistra, nel senso che è una donna e non un uomo. Specifico "segretaria" perché anche Europa Verde e Potere al Popolo! hanno una leadership al 50% femminile, ma si tratta di portavoce e non di segretarie.
(Sì, mi tengo alla larga da Calenda che fa e disfa il patto con il PD, perché mi sono scocciata di occuparmi di cosa fanno e dicono i galli di questo tristissimo pollaio.)
A proposito di donne
La settimana scorsa ero in giro e ho fatto uscire il pezzo per La Svolta un po' più tardi del solito, però penso di aver fatto un bel lavoro.
Carla Lonzi vive — www.lasvolta.it Quarant’anni fa moriva una delle madri del femminismo italiano di seconda ondata, Carla Lonzi. Ma i suoi testi sono quasi irreperibili
Le conseguenze dell'omofobia
Tra le nuove abitudini che sto cercando di consolidare c'è quella di andare a dormire presto, alzarmi presto e andare a camminare prima che la temperatura diventi insostenibile. Sto anche cercando di aumentare un po' le distanze, insomma, per farla breve: sto ascoltando a botte di due puntate per volta Not Guilty, un podcast di quelli prodotti da Parcast che sembrano un po' la fabbrica degli omogeneizzati per quanto sono tutti uguali, ma ogni tanto nascondono sorprese. Tipo, che attraverso questo podcast ho scoperto perché i diritti che vengono recitati a tutte le persone arrestate negli Stati Uniti si chiamano "Miranda rights" (Ernesto Arturo Miranda era uno stupratore la cui condanna fu temporaneamente annullata perché non gli era stato assicurato un avvocato al momento del suo arresto, né gli era stato detto che aveva il diritto di non parlare per non auto-incriminarsi). Oggi, invece, ho ascoltato la storia agghiacciante di Bernard "Bernie" Baran, il giovane educatore dell'infanzia condannato per abusi su minori. Per farla breve: Baran non aveva fatto niente, e le accuse contro di lui erano state inventate da una coppia di tossici per vendicarsi del fatto che la scuola dell'infanzia in cui avevano iscritto il loro bambino (molto problematico) si era rifiutata di licenziare Bernie solo perché gay. Bernie era adolescente e un mago con i bambini: la sua unica colpa era quella di essere apertamente omosessuale nei primi anni '80.
Se questa storia ti ricorda quella dei bambini di Mirandola raccontata da Pablo Trincia in Veleno, è perché ci somiglia molto: bambini manipolati, addirittura convinti dalle famiglie a mentire a scopo di estorsione; psicologhe incompetenti; ginecologhe che diagnosticano abusi dove non ce n'è traccia. Bernie Baran rimase in carcere oltre due decenni, prima che la sua innocenza potesse essere provata, e l'unico movente delle accuse era l'omofobia.
Quanto tempo passerà, prima che il panico creato dalle femministe radicali trans-escludenti intorno alle donne trans si concretizzi in accuse false contro una o più persone accusate di aggressioni sessuali unicamente a causa della loro identità di genere? Potrebbe succedere. Forse sta già succedendo. E le TERF non si assumeranno nessuna responsabilità per le loro azioni.
Saluti e baci
Questa potrebbe essere l'ultima newsletter per un po'. Ho bisogno di staccare e di fare il minimo indispensabile almeno per un po', ma vediamo. Se non ci sentiamo: riposati il più possibile. A presto.
Giulia