Giulia Blasi | Servizio a domicilio - Las crónicas del Primavera /1
Questa settimana parlo solo di musica. Probabilmente anche la prossima.
Quando vado al Primavera Sound vedo sempre la gente che fa foto. Anche belle foto. Il mio fidanzato, per esempio, fa un sacco di foto. Io me ne dimentico, non fotografo quasi niente, guardo le cose ma non le fotografo perché, come dicono i cartelli che girano sui megaschermi del festival fra un concerto e l'altro, "la tua testa dura di più" delle immagini nel telefono. Quindi non ho foto di nessuna, o quasi nessuna, delle cose che ho ascoltato e visto durante il primo fine settimana al festival. La gente che va a vedere i concerti si divide in due categorie: quelli che quando inizia la loro canzone preferita alzano il telefono, e quelli che invece si mettono a ballare. Io appartengo al secondo gruppo.
Quello che segue sono i ricordi, che io fisso molto meglio scrivendo piuttosto che fotografando, perché è così che funziona il mio cervello.
Adesso non vi voglio dire che uscendo dall'aeroporto El Prat ci siamo persi, perché sarebbe esagerato: ma posso dire che almeno due volte abbiamo infilato corridoi ciechi pensando che lì ci fosse l'uscita. Non ci tornavamo da due anni, e già avevamo perso l'orientamento in aeroporto che, ve lo giuro, è uno dei più facili da percorrere in assoluto. Barcellona mi era mancata moltissimo, ma non sapevo quanto finché non ho cominciato a intravedere le prime case del centro storico, i balconi con le ringhiere lavorate, le torrette, le decorazioni, le chiese, la mescolanza di antichissimo e nuovissimo, modernissimo e decrepito che mi ha fatto innamorare nel 2006, e quell'amore è sempre vivo.
Ora, il festival.
Se sei una di quelle persone che seguono un po' la musica (lo sei? Mi rendo conto che questo lato della mia vita è praticamente sconosciuto al grosso delle persone che mi hanno seguito dal Manuale in poi) avrai anche sentito parlare di quanto sia stato disagevole il primo giorno del Primavera Sound 2022. Tutto vero: code infinite lì dove avevano detto che le code non ci sarebbero state, bar presi d'assalto e senza acqua, e una marea di gente, una marea, un delirio, una folla a tratti ingestibile che mi ha fatto ringraziare la lungimiranza con cui ogni anno investo nel biglietto VIP che mi dà accesso a terrazze, aree a capienza limitata e soprattutto, soprattutto bagni veri.
Già il secondo giorno la situazione era migliorata di un bel po', ma resta l'amarezza di aver vissuto tutto il giovedì al festival pensando che l'organizzazione, che per tanti anni aveva messo l'esperienza delle persone al primo posto, avesse deciso di compensare gli anni perduti con l'overbooking. Dopo il primo giorno questa impressione è un po' rientrata, ma forse il problema è anche un altro. Forse il problema è che a quasi cinquant'anni non è che non ti piace più la musica, o che non ti appassioni a cose nuove o non ti diverti a vedere artisti che non conoscevi. È che porco cane ti fa male tutto, i tendini, i muscoli, la schiena. Fai le quattro di mattina ballando al live di Caribou e il giorno dopo sei da buttare.
Certo, se non fossi caduta da un marciapiede il primo giorno del festival me la sarei vissuta leggermente meglio: nella caduta ho picchiato ginocchia, mano e braccio sinistro poco sotto la spalla. Ho scelto di mettere il ghiaccio sulle ginocchia - perché non camminare in un festival distribuito su un'area di più di due chilometri è una iattura - ma il braccio è tuttora decorato da un livido gigante in varie sfumature di viola, giallo e verde.
E andiamo alle recensioni! (Sì, questa settimana è lunga, ma mica ci lamenteremo.) Le cose migliori che ho visto al festival, in ordine crescente e assolutamente arbitrario.
Wet Leg - Viste il mercoledì sera al Poble Espanyol, hanno giusto quaranta minuti di set, ma mi sono divertita molto. Come spiegherò dopo: sono tornate le chitarre, evviva le chitarre. La band è un incrocio fra Breeders ed Elastica, il che spiega perché mi piacciono tanto.
Kim Gordon - Quando è salita sul palco ho mormorato "Hi mum" da dietro la mascherina (che continuo a portare il più possibile quando sono al chiuso), anche se Kim non è la mamma di nessuno che non sia Coco. Ognuna ha le madri spirituali che ha, e io ne ho un po', fra cui lei, che non si è mai preoccupata di fare cose che potessero piacere al grande pubblico, e nemmeno di essere accogliente quando sta sul palco: a parte un paio di "Thank you" e la presentazione della band, non ha proferito verbo e se n'è andata senza salutare. Ti voglio bene Kim, California girl, New Yorker, regina dei ghiacci.
Mavis Staples - Una nostra tradizione del Primavera Sound è andare a vedere almeno una donna leggendaria all'Auditori, un auditorium molto bello collocato all'ingresso del Parc del Fòrum (dove si è esibita anche Kim Gordon). Quest'anno è toccato a Mavis Staples, minuscola e potentissima, una voce come un whiskey torbato, fumosa e profonda, e una presenza scenica che è l'opposto di quella di Kim Gordon, affettuosa e comunicativa.
Caroline Polachek - Il terzo giorno non mi piaceva niente. Mi annoiavo dappertutto. Ogni tanto capita di avere una giornata in cui niente di quello che vedi ti prende: dopo Mavis Staples ero andata a vedere le Dreamcatcher, gruppo Kpop atterrato al Primavera Sound perché in qualche modo bisognerà pur riconoscere che quella cosa lì è la musica di una generazione. Però io davanti a sette tipe che facevano per una, con balletti coreografati del tutto inadatti all'orario dell'esibizione e un repertorio che non mi convinceva per niente, mi sono data. Vabbe', volevo parlare di Caroline Polachek e mi sono persa: è stata la prima cosa che ho visto sabato che mi abbia fatto dire "Ah, che brava". Kate Bush mixata con Dolores O'Riordan, pezzi molto solidi, lei splendida sul palco: peccato che i suoi suoni rarefatti non riuscissero a tenere testa alla caciara proveniente dalla Boiler Room lì vicino.
Dinosaur Jr. - Il primo giorno ho visto solo gente che era grossa quando io avevo vent'anni, e i Dinosaur Jr. sono ancora uno dei gruppi più significativi della mia gioventù. Sono sempre affidabilissimi: salgono, fanno le hit, J Mascis fa gli assoli ed è un incrocio fra Gandalf e il personaggio di Judah Friedlander in 30 Rock, Lou Barlow invecchia al contrario come Benjamin Button, e poi c'è Murph, che sembra sempre uno preso a caso dagli spalti di una partita dei Red Sox.
Low - Mentre li ascoltavo pensavo che è così che mi immagino l'America, ora: un paese percorso da un dolore senza fine. Dentro il suono ricco e solenne dei Low, dentro l'intreccio struggente delle voci, c'è quel dolore lì. L'America ha smesso da tempo di essere un paese ottimista - più o meno dal Vietnam, a occhio - ma ora è un paese ripiegato su sé stesso, in cui nessuno sta bene.
Fontaines DC - Sono convinta che siano gli Oasis della generazione che ha familiarità con il concetto di "esordio psicotico", solo che a differenza degli Oasis che erano uno figo e quattro che sembravano impiegati del catasto, sono cinque fighi. Tesi, arroganti, potenti, e irlandesi in un modo molto più abrasivo degli U2. Sotto il loro palco c'era il panico.
Pavement - Sarebbe troppo lungo riassumere qui la storia che mi lega ai Pavement in maniera molto personale, magari lo facciamo davanti a una birra, se capita. Comunque: giovedì sera hanno fatto il concerto della vita. La sensazione che ho avuto - che abbiamo avuto un po' tutti - è che le tensioni che c'erano nella band e che hanno portato alla sua dissoluzione si siano risolte: questi ultracinquantenni si divertono come ragazzini. Premio Mutande Pazze a Stephen Malkmus, che invecchia restando un figo insensato.
Caribou - I volumi del palco erano un po' da festa all'oratorio, ma per il resto il concerto è stato un'esplosione di gioia. Conta anche il fatto che Can't Do Without You fosse la canzone scelta per il video che annunciava l'annullamento dell'edizione 2020 e che ci ha fatto piangere tutte le nostre lacrime. La pandemia non è proprio finita, ma siamo di nuovo qua ed è stato davvero bello.
Beck - È salito, in formissima, ha fatto un concerto quasi tutto di hit con una pacca clamorosa, ha fatto urlare "I'm a loser baby/so why don't you kill me?" a decine di migliaia di persone, era felice come un bambino perché quello era il primo concerto che faceva dopo il Covid. Ci ha fatto volare e gli abbiamo voluto bene.
Idles - Nella vita (come nell'attivismo, ma ne parliamo un'altra volta) non bisogna mai perdere di vista il long game. Noi anziani indie rocker abbiamo aspettato anni che le chitarre tornassero dalla Terra dell'Uncoolness in cui state esiliate da suonini di synth e piru piru e sbling e frrr, ed eccole di nuovo qua, brutte zozze e politicizzate. Il live degli Idles (in contemporanea con quello dei Gorillaz) è stato bellissimo, mattissimo, sgangheratissimo, da vedere tutto ma tutto sotto il palco. Per me vincono questo primo weekend, se non proprio a mani basse (perché scegliere un vincitore è difficile) comunque con un po' di distacco.
Ci risentiamo martedì prossimo, da Roma ma ancora con un bel po' di roba da raccontare.
Giulia