Giulia Blasi | Servizio a domicilio - Newsletter #3
Questa settimana: il #metoo che c'era, non c'era, ce n'era troppo, ce n'era troppo poco, e un paio di libri (belli) che ho letto. CW: violenza sessuale, di nuovo.
La cosa di Beppe Grillo ha fatto ricicciare i discorsi su #metoo. Non la campagna in sé (anche se ne è uscita un'altra sullo stesso tema: #ilgiornodopo, che meriterebbe tutt'altro genere di spazio), ma i discorsi che ci hanno fatto intorno dal minuto uno quelli che non volevano averci niente a che fare e che tuttora preferiscono dimenticarsi che prima di #metoo c'era #quellavoltache.
#quellavoltache: e adesso? | Giulia Blasi — www.giuliablasi.it Tirare le somme, serrare le fila, sapere che non è né l'inizio né la fine.
Questa era la cosa che ho scritto una settimana dopo l'avvio della campagna, e forse serve a rinfrescare la memoria, perché io di quello che è successo ho tenuto traccia. Quindi lo faccio anche ora, voglio tenere traccia dello stato dell'arte delle campagne antimolestie, o meglio, del modo in cui, quasi quattro anni dopo, ancora se ne parla.
Chi parla di #metoo (e non di #quellavoltache, ripeto, che fa piuttosto comodo dimenticarsi: è roba che è successa qui da noi, sono le voci delle donne italiane, non di attrici che vivono dall'altra parte del mondo) si divide in tre grandi categorie che a tratti si sovrappongono: quelli che #metoo in Italia non c'è stato, quelli che #metoo è morto e quelli che #metoo ha esagerato. Sono sottoinsiemi quasi perfettamente sovrapponibili, perché la gente che deplora la supposta assenza di un movimento nativo è poi la stessa che vorrebbe che le donne si incazzassero di più e dice "Ecco, da noi niente #metoo", ma anche "Basta con la caccia alle streghe!" È la stessa gente, giuro. O comunque sono tutti amici fra loro.
Il punto: quello che diciamo o facciamo per loro non conta un cazzo, mai, quindi quello che abbiamo detto, le storie che abbiamo raccontato, le mille volte in cui ci siamo spiegate e abbiamo spiegato che l'intento non è mai stato giustizialista ma culturale (e si dovrebbe vedere anche dal numero di uomini che hanno pagato un prezzo qualsiasi per la loro condotta molesta, che è esattamente zero; come è zero il numero di donne che hanno tratto profitto da quelle denunce) non contano niente. Il lavoro che si fa sul tema degli abusi sessuali è sempre troppo poco o sbagliato o allarmista o vittimista, insomma, mute dobbiamo stare. E lasciare che siano gli altri - le persone che non sono parte in causa, o quelle che hanno interesse a delegittimarci - a raccontare e spiegare al posto nostro quello che ci è successo, quello che abbiamo fatto e perché l'abbiamo fatto, ad addossarci colpe inesistenti e ad attribuirci motivazioni fantasiose, proiezioni della loro coda di paglia.
Un paio di libri che ho letto
Questa settimana, oltre a finire Educated di Tara Westover, ho letto Pelle d'uomo di Hubert e Zanzim, un graphic novel (sto cercando di levarmi il riflesso "una", perché "romanzo", ma che fatica) delizioso, divertente, molto femminista e molto queer. È la storia di una ragazza del Rinascimento - quello originale, non quello di Renzi - che alla vigilia del matrimonio scopre che le donne della famiglia si tramandano di generazione in generazione una pelle d'uomo magica, che permette loro di trasformarsi in ragazzi e muoversi indisturbate nel mondo come se fossero maschi. Bianca, la protagonista, ne approfitta subito per conoscere meglio il futuro marito: ne deriva una commedia degli equivoci frizzante e tenera, che parla di sesso, identità, attrazione e passione, ma anche di privilegio e dei danni del fanatismo religioso.
L'altro titolo che ho divorato è X di Valentina Mira, uscito per Fandango Libri, che esce in un momento in cui l'autrice dovrebbe essere in ogni TG, ogni trasmissione, ogni pagina della cultura: invece no. X è un memoir in forma epistolare, in cui l'autrice scrive al fratello, con cui non parla da anni, per raccontargli lo stupro che ha subito da parte di un amico comune, un giovane neofascista, e quello che le è accaduto dopo. X risponde in maniera chiarissima e brutale a due domande che le donne si vedono sempre fare quando parlano di abusi sessuali: "Perché non hai denunciato?" e "Perché non te ne sei andata?" Come se denunciare fosse sempre possibile, quantomeno entro i tempi stabiliti dalla legge (che lo ricordo, sono dodici mesi: a volte per capire ed elaborare ci vogliono anni). Come se denunciare non fosse pericoloso, non mettesse a rischio rapporti familiari e sociali, non esponesse a violenza e ritorsioni. E come se davanti a una molestia sul lavoro, quella che perde la dignità fosse la molestata, e non il molestatore. Se a parlare di stupro fosse solo chi l'ha subito, e non chi non sa cosa sia, i parenti degli stupratori o presunti tali, i direttori dei giornali e i grandi protagonisti del dibattito stronzo, forse andremmo da qualche parte. Non è un caso che non sia così.
Una cosa va detta, a poca distanza dal 25 aprile: che non esiste un "tipo" di uomo che stupra e uno che invece no. Stuprano i professori e i muratori, gli ingegneri e i becchini, i plurilaureati e gli studenti universitari, i compagni e i fascisti. Solo per i fascisti, però, lo stupro è un'arma di affermazione dell'identità politica. Il fascista usa il corpo della donna per definire il suo essere fascista: difende la sorella e la madre perché di sua proprietà, stupra la donna che non gli appartiene perché un vero maschio prende quello che vuole quando lo vuole. Il fascismo è mascolinità tossica che si fa idea politica, è fragilità dell'io che diventa morte e distruzione per tutto quello che tocca. Anche per questo va combattuto fino alla fine, non solo il 25 aprile, ma ogni giorno.
Bisognerebbe tornarci, ma la butto lì ora come appunto per il futuro. Denunciare uno stupro è traumatizzante, perché per denunciarlo devi ricordarlo e riviverlo con il maggior grado possibile di precisione, e la denuncia non è revocabile. Sarebbe traumatizzante anche se non si desse per scontato che stai mentendo, se chi raccoglie la tua denuncia fosse formato a farlo e non ti rimandasse a casa dicendoti che forse hai capito male, se non fosse complesso provare di essere stata violentata. Rendere il procedimento di denuncia di uno stupro meno traumatico in sé non farebbe aumentare le denunce false, come forse teme qualcuno che pensa che nel cuore siamo tutte delle bugiarde manipolatrici che vogliono rovinare bravi ragazzi. Togliere uno strato di trauma farebbe sì che in giro ci fossero meno stupratori a piede libero.
E su questa bella nota leggerina, ci risentiamo la settimana prossima.
Giulia