Giulia Blasi | Servizio a domicilio - Quella voglia di mollare tutto
Questa settimana: ce la facciamo? Io forse no; e un paio di serie che ho visto.
Sì, ci ho pensato. Questa settimana ho pensato più volte: mollo tutto. Faccio il minimo indispensabile, il lavoro per cui sono pagata, le cose che mi danno piacere e gioia. Nient'altro. E non si tratta, come si potrebbe pensare, di delusione perché prima era facile e ora non lo è: prima era difficile, ora è come correre al 30% di pendenza su un pavimento cosparso di vaselina.
Non credo di essere sola, per questo ho deciso di condividerlo. Anche se ci siamo dettǝ che la lotta non finisce mai, che domani si ricomincia e poi domani e domani ancora, il messaggio arrivato dalla composizione della squadra di governo è chiara: sono orecchie e occhi chiusi, posizioni radicate nel conservatorismo più retrivo e nel fanatismo più assoluto. C'è chi è tentato dal metterle sullo stesso piano con quelle di chi, a fronte di una discriminazione, ne chiede la rimozione: come se fosse la stessa cosa, pretendere di imporre una propria visione alle altre persone e di controllarne corpi e decisioni anche quando queste ultime non hanno un impatto immediato sulla salute pubblica, o chiedere di poter controllare i propri corpi e le proprie decisioni sempre nel rispetto della salute pubblica, ciao antivaccinisti che mettete aborto e vaccino sullo stesso piano. La gravidanza non è contagiosa, dobbiamo fare un disegnino per spiegarlo?
Molto si gioca sul fatto che i corpi delle donne, in particolare, sono percepiti come oggetti, macchine da concepimento, esseri senzienti la cui volontà deve essere plasmata perché diano figli alla patria. La sottrazione della fertilità è vista come un'offesa e deve essere riconfigurata: i tempi sono cambiati, però, e la minaccia basata su un ipotetico futuro pentimento o rimpianto non funziona più. Abbiamo visto troppe donne diventare adulte e invecchiare senza figli ma con vite piene e realizzate, spesso proprio perché avevano rifiutato la maternità. Marina Abramovic ha detto apertamente di avere abortito tre volte perché la sua arte veniva prima di tutto. Un atto di supremo, sublime egoismo. Lei ora è Marina Abramovic, chissà quante ne abbiamo perse, di artiste, letterate, inventrici, politiche. Perse perché essere madri era inconciliabile con la carriera. Perse perché hanno ceduto a un ricatto. Perse perché una scelta di responsabilità personale come l'aborto non era disponibile, o era fortemente stigmatizzata.
Insomma, dato che quella cosa lì non funziona più si spinge sulla mistica della maternità come suprema realizzazione del femminile. Sì, di nuovo, amiche, manco nel diciannovesimo secolo. La soddisfazione più amara mi viene dal fatto che ci avevo preso in pieno, lo conferma anche la neoministra Roccella in un'intervista uscita ieri: una parte del femminismo della differenza si sta spostando su posizioni antiabortiste. Eccoci qua: Roccella lo conferma apertamente. Lo fa mentendo, come spiega Giulia Siviero su Il Post, ma lo fa.
Sì, l'ho pensato, mollo tutto. Se non altro per questioni di salute mentale. L'aggressività delle persone è molto aumentata: è come se si sentissero legittimati ad attaccare dal fatto che la loro parte politica ha vinto le elezioni. Non è un fenomeno nuovo, succede in ogni società con l'avvento o la crescita delle destre, e il meglio che posso fare a questo stadio è proteggermi. Per fortuna non sono sola, né mi ergo eroica di fronte al nemico in nome di un intero popolo. Le lotte collettive non si fermano certamente perché io sono un po' stanchina o perché scelgo di concentrarmi su azioni diverse: e anche se questa stanchezza fosse condivisa, sappiamo benissimo che non dura. Nessuno che abbia mai sentito davvero la necessità di lottare per una causa si è mai fermato perché era un po' stanchino.
Una serie che è piaciuta a tanta gente
Tutto chiede salvezza stava raccogliendo tante di quelle lodi che alla fine l'ho vista pure io. E fino a un certo punto l'ho pure trovata gradevole: semplice, tenera, forse a tratti un po' retorica, con un cast in stato di grazia e quel tanto di feelgood che tutto sommato mi ci voleva. L'ho detto, è un periodo in cui preferisco pensare poco: i contenuti di evasione mi servono come l'ossigeno. Qui il tema è la salute mentale, e tutto inizia quando il poco più che ventenne Daniele si sveglia legato al letto in un reparto di psichiatria dopo una notte fuori con gli amici, a bere e a tirare di coca. Gli hanno fatto un TSO, un ricovero coatto: lui però non ricorda perché.
(Seguono spoiler)
Il motivo viene rivelato di lì a poco, e il viaggio di Daniele non è tanto un viaggio di riconciliazione con le persone che ha ferito quanto una presa di coscienza del suo disturbo e del suo bisogno di trattamento e un'accettazione dell'amore che riceve dalla famiglia. La sua crescita - e l'accettazione di quell'amore - si concretizza attraverso il rapporto con i compagni di stanza, tutti a vario titolo affetti da disturbi mentali e tutti, in qualche modo, suoi fratelli. Ma soprattutto (e qua arriva il problema) nella storia è cruciale il rapporto con Nina, giovanissima influencer "costretta" a lavorare da una madre tiranna e priva di scrupoli. (Le virgolette ci stanno: nella serie è più chiaro perché ce le ho messe.)
È il modo in cui Nina è costruita e raccontata a risultarmi insoddisfacente. Prima: stronzetta con la puzza sotto il naso di cui l'eroe è innamorato dai tempi delle superiori. Poi: vittima delle circostanze e di sua madre. A seguire: presenza salvifica che però pensa solo a sé stessa. Infine: a sua volta salvata dal nostro eroe, il puro di cuore, che la riscatta dalla sua vita di menzogne urlandole addosso in un bagno. Fino a pochi giorni prima, il puro di cuore era ricoverato in seguito a un episodio psicotico grave in cui ha aggredito la famiglia, e lei ha tentato il suicidio, ma quella lite in bagno si risolve in una maniera che avrei trovato discutibile anche in una rom-com. In una serie che voglia prendere sul serio il tema della salute mentale, quella svolta - Nina improvvisamente "illuminata" dalla violenza verbale di Daniele, tanto da rivelare il suo segreto ai suoi follower - mi è parsa gratuita e pure un po' pericolosa.
Insomma, bella, ok, commovente, pure, ma quando gli uomini scrivono le donne, purtroppo, si vede. La serie prova pure a costruire Nina come personaggio, ma cade spesso nel moralismo (ah, questo mondo superficiale delle influencer!) e approfondisce pochissimo i suoi lati più oscuri. Nina è potenzialmente molto più interessante di Daniele: è chiaro che la madre (Carolina Crescentini in camicia animalier e gioielli vistosi) vive attraverso di lei, è un po' Kris Jenner un po' Anna Magnani in Bellissima, e la spinge verso percorsi e scelte che lei non sente suoi e che le causano umiliazione e sofferenza, ma che allo stesso tempo - si intuisce - le forniscono un'identità e una forma di gratificazione personale. Di tutto questo, però, vediamo pochissimo; in compenso la vediamo nuda per nessun motivo che non sia il fatto che le donne nude vanno sempre bene. Vabbe'.
Un'altra serie che ho visto solo io
Sins of Our Mother, sempre su Netflix, è il tipo di contenuto che risponde a due mie passioni: quella per il true crime e quella per i culti distruttivi. È la storia di Lori Wallow raccontata da figli e famiglia, o meglio, quello che ne rimane dopo che Lori comincia a credersi profeta di una religione non bene identificata, e quel delirio lascia una scia di morti.
La storia è orribile, anche se non insolita, e mi ha portata ancora una volta a interrogarmi sul funzionamento della fede. Nel caso di Lori Wallow, ho avuto a più riprese la sensazione che la fede possa essere anche figlia del desiderio di comunità e di appartenenza: se per fare parte di un gruppo (o sopravvivere in un gruppo - il confine è sottile, a volte) ti serve credere in qualcosa di assurdo, il tuo cervello la fede te la dà. Di sicuro scatta qualcosa che va al di là della tradizione condivisa.
È tutto. Forse farò un'edizione speciale per parlare di libri, ma per ora salutiamoci! È già lunghissima così.
Giulia