La newsletter venuta dal freddo
Questa settimana: il MeToo delle madri, poveri uomini poverini loro, nessuno sa più l'italiano, libri e serie TV che ho visto.
In altri tempi, quello di questi giorni non l’avrei chiamato “freddo”. Era la temperatura normale delle mie mattine da adolescente, quando andavo a piedi dalla stazione di Pordenone a scuola, in quello che sarebbe stato battezzato (da noi) Liceo Ginnasio G. Leopardi, e successivamente (da quelli dopo di noi) Leopardi-Majorana, a seguito della fusione con lo scientifico. Il freddo di Roma di questi giorni è un freddo tutto sommato affrontabile, soprattutto ora che dal fondo del mio armadio è riemerso un piumino Adidas in perfette condizioni che avevo smesso di indossare almeno quindici anni fa, e che con un giro di lavatrice è tornato agli antichi splendori. Ci posso perfino andare a correre. Se anche Marie Kondo dice che si è rassegnata e ha smesso di buttare la roba, un po’ mi sento vendicata per la mia riluttanza a separarmi dai vestiti che non metto più.
Però mentre scrivo fanno quattro gradi, è domenica mattina, forse a correre ci vado fra un po’.
Un MeToo delle madri?
Se n’è parlato molto, in questi giorni, e a ragione. La questione della violenza ostetrica non può e non deve spegnersi, perché tanto per cambiare passa per i nostri corpi e la loro funzionalità percepita. Decorare, figliare, servire: questi sono i ruoli, questi i doveri della donna nella nostra società. Decorare: essere belle a oltranza, con ogni mezzo, piantandosi aghi nella faccia per riempire rughe, gonfiare labbra, mascherare borse e occhiaie, per restare aggrappate alla giovinezza il più a lungo possibile. Figliare: mettere al mondo figli per la Patria, essere madri, anzi, Madri, esseri mistici ai limiti del sovrannaturale che non conoscono fatica, stanchezza e incertezza, e se le conoscono stanno fallendo nel loro obiettivo di femminilità. Servire: le donne devono essere utili, in ogni momento e in ogni circostanza. Servire a qualcosa o a qualcuno. Mai soltanto a loro stesse. Le donne devono sopportare, soffrire, stringere i denti, sempre, per il bene di qualcun altro e a scapito della loro salute fisica e mentale. Poi le facciamo sante con calma, niente paura. Della donna morta non si butta niente.
Tutto passa per il corpo, che è sempre utilizzato, sempre oggetto, mezzo per l’assolvimento della funzione specifica. Va da sé che quando la funzione viene prima della persona, una assolta la funzione la persona non conta più niente: la madre, una volta messo al mondo il neonato, è una cosa che serve ma non importa. Deve assumere la funzione materna e servile in automatico, senza accusare stanchezza o sofferenza. Altrimenti viene colpevolizzata. Che donna sei? Che madre sei?
Lo stanno chiamando “il MeToo delle madri”, perché in effetti lo è: con o senza hashtag, le modalità sono le medesime. C’è un racconto di abuso che si aggiunge ad altri racconti di abuso, e non c’è bisogno di essere in grado di decodificarlo o darne una lettura politica per partecipare: basta avere una storia, come successe con #metoo, con #quellavoltache ancora prima. E non serve avere un racconto di abuso per sostenere le donne che stanno partecipando, perché anche chi non è madre sa benissimo che potrebbe toccare a lei. Anche chi non è diventata madre e non lo sarà mai sa che quella violenza ha a che vedere con il suo essere donna. Quello che sta succedendo succederà ancora, è parte della stessa mareggiata di sollevazione femminile che ha trovato nei social un punto di visibilità collettiva.
Andrew Tate e gli uomini che poverini loro
La vicenda di Andrew Tate sta andando avanti senza grossi colpi di scena: Tate e fratello sono ancora al gabbio, di quando in quando saltano fuori storie che aggiungono dimensione e dettaglio ai loro crimini, e sembra sempre più improbabile che ne escano puliti. Probabile che scontino un po’ di anni dentro un carcere rumeno, non piangeremo per questo. Non io, almeno.
Per un brevissimo momento, tuttavia, sembrava che sui media britannici il caso stesse sollevando un’altra questione, meno centrata su Tate e più generale, vale a dire la mala educazione dei giovani uomini, così esposti alla radicalizzazione da parte di certi cattivi maestri. Tate è fuori gioco perché oltre a essere misogino era pure uno stupratore e un pappone violento (o almeno, queste sono le accuse a suo carico), ma là fuori non sono pochi quelli che monetizzano l’insicurezza dei giovani maschi spingendoli a odiare le donne, in particolare le femministe, che vengono accusate di avere scippato ai maschi il loro ruolo sociale.
Non entro qui nella questione della maschiosfera o manosphere che dir si voglia (ne hanno parlato in tanti, Jennifer Guerra ha scritto tempo fa una guida che mi pare a grandi linee ancora valida), perché non voglio perdere di vista il mio punto principale. Dicevo: i media del Regno Unito hanno parlato della storia di Andrew Tate perché Tate è cittadino britannico, e nel parlarne hanno affrontato la questione della fragilità maschile di fronte alla seduzione di questi pagliacci col sigaro in bocca e la macchina che fa brum brum. E nel parlarne hanno virato tutto sul “poverini”: sono deboli, sono esposti, non hanno punti di riferimento, è normale che finiscano poi con l’essere attratti dalla violenza. Ci si preoccupa degli uomini e del loro benessere anche quando sono le donne a fare le spese del loro malessere: nessuno vede il collegamento fra le due cose, né la responsabilità maschile nella costruzione di questa cultura della sopraffazione.
Allora scusate (io con i pugni sui fianchi come tua nonna quando ti doveva fare un cazziatone), ma mi spiegate come mai le ragazze, che subiscono umiliazioni, molestie, rifiuti e discriminazioni fino dalla più tenera età, che in molte società vengono mutilate, rinchiuse in casa e sorvegliate a vista, non cadono poi nella stessa spirale di violenza? Niente niente che c’è qualcosa di sbagliato, sbagliatissimo, nel modo in cui intendiamo la maschilità, e che nessuno si accorge di dove sta l’errore?
Sembra quasi - la butto lì, eh - che delle donne non freghi niente a nessuno. Non importa se soffriamo, se dobbiamo subire ogni sorta di angheria e limitazione della nostra libertà perché “così va il mondo” (leggi: nessuno pensa a insegnare agli uomini a non aggredirci), se veniamo continuamente paragonate a oggetti che se non adeguatamente protetti possono essere rubati o danneggiati. È normale, no? Perché alla fine dei conti il “cattivo” ci sarà sempre. E anche quando si arriva vicini all’epifania, alla sorgente dei problemi, a quell’idea di maschilità come affermazione di sé tramite il denaro, gli oggetti e lo sfoggio di aggressività sessuale, nessuno arriva mai a dire: forse è anche una nostra responsabilità. Forse l’autocoscienza deve cominciare da noi.
No, quello che succede - molto più spesso - è che tanto per cambiare il peso viene scaricato sulle donne. Dobbiamo essere più pedagogiche, spiegarci meglio, essere accoglienti. Dobbiamo educare gli uomini a capire dove sbagliano. Con calma, senza arrabbiarci, senza irritarci per il fatto che sono decenni che ripetiamo le stesse cose a gente a cui parte il salvaschermo ogni volta che apriamo bocca. Gratis, per giunta, perché dobbiamo servire. E se i nostri figli maschi si comportano male, è colpa nostra, mai dei padri e degli altri uomini. Che siamo piene rase lo possiamo dire? No? E lo diciamo lo stesso.
Nessuno sa più l’italiano
Ok, non c’entra niente ma forse c’entra, in qualche modo. Parto da lontano, e dal fatto che la settimana scorsa ho recuperato l’ascolto di un podcast che avevo interrotto tempo fa, sul caso del mostro di Firenze. Di prodotti audio buoni su quella storia ce ne sono quasi zero, o forse io non li ho trovati: ho ripreso quello, non ricordandomi perché l’avessi mollato.
Nel riprenderlo, ho notato di nuovo i difetti che forse mi avevano fatto smettere la prima volta. A parte l’enfasi recitativa di molti passaggi (che è comprensibile se pensiamo che molti di questi podcast sono realizzati da attori), anche qui ho notato a più riprese una sciatteria linguistica davvero deprimente, a partire dall’uso ripetuto della parola “attenzionato” e del verbo corrispondente, che è già brutto in un verbale di polizia, figurarsi nel contesto di una narrazione che voglia muoversi su tutt’altro registro. “Attenzionata dalle coltellate”, poi, è una roba che le coltellate le fa salire a me. In altri punti: concordanze dei verbi sbagliate (l’ormai classico e orrendo “come se sia”: “come se” regge il congiuntivo imperfetto, “fosse”), verbi privati della preposizione correlata (in particolare “imperversare”, usato come verbo transitivo con un complemento oggetto). Il tutto, in un testo scritto e non improvvisato: scritto, rivisto, curato.
Colpa della scuola, che non insegna più a scrivere? Sì, senza dubbio, almeno a giudicare dallo stato delle abilità di scrittura dei miei amatissimi studenti (ma pure i risultati dei test Invalsi lo confermano). E colpa anche del fatto che nessuno legge più: lettura e scrittura sono due abilità conseguenti, non c’è una senza l’altra. Chi non legge non impara a scrivere, chi non pratica la scrittura la perde, e se a monte non c’è chi ti insegna a farlo e verifica che tu abbia consolidato quelle capacità, ci si ritrova con una lingua povera, usata male da persone che non ne conoscono le funzioni e le potenzialità. E dato che siamo in mano a gente che pensa che gli studenti vadano umiliati e non istruiti, possiamo dirlo: stiamo nella merda fino al collo. Perché non c’è niente di complesso e articolato che possa essere spiegato da un video di 30’’ su TikTok. Nemmeno (anzi, soprattutto non) le questioni di genere di cui sopra.
Quindi dai! Parliamo di libri
Sta uscendo UN SACCO DI ROBA anche di gente bravissima, ma la sottoscritta è ancora incagliata in Il priorato dell’albero delle arance, che è lungo, madonnasanta, lunghissimo, e siccome non riesco a leggere più di un libro per volta sto trascurando tutta una serie di titoli atterrati a casa negli ultimi mesi. Fra cui l’ultimo di Ammaniti, partito benissimo fra gli applausi del pubblico specializzato. Ora però lo sta leggendo la gente che non ha una collaborazione con La Lettura, e sembra stiano uscendo le magagne. Ho un po’ paura (io sono una fangirl di Ammaniti da tanti, troppi anni, tollero male le delusioni), ma lo leggerò lo stesso, anche solo per capire chi aveva ragione.
Sempre a proposito del priorato, ho capito che non ne posso più dei fantasy medievali, in cui c’è la magia ma non la penicillina: questo, in particolare, è costruito come gli schemi di quei giochi di simulazione in cui tutte le epoche esistono contemporaneamente, c’è la corte in stile ‘700 europeo, il mondo ispirato al Giappone imperiale, un sud che potrebbe essere africano, però alla fine torna tutto alla missione tradizionale di salvezza del mondo con manufatti magici e spade incantate. Io: ok, però basta.
Fra le cose che mi sono capitate sottomano e che mi sembra potrebbero darmi gioia c’è il debutto di Olga Campofreda, Ragazze perbene, e vale la pena mostrare in che forma mi è arrivato a casa. Il tema è la ribellione al destino preordinato, l’educazione sentimentale delle ragazze e l’amicizia femminile.
Titolo urgente, mi pare, è Anche io di Jodi Kantor e Megan Twohey, vale a dire la storia dell’inchiesta che ha portato all’arresto e al processo di Harvey Weinstein, e che ha scatenato l’ondata emotiva da cui sono nate le campagne di cui dicevamo prima. Si fa spesso l’errore di sovrapporre le due cose, e in questo modo Kantor e Twohey (che prima di Ronan Farrow si erano mosse per raccogliere le testimonianze) sono state dimenticate. Con questo libro, le due giornaliste riprendono il controllo di quella parte della storia che non si sarebbe mai realizzata senza di loro.
Per finire, un graphic novel edito da Tunué, La storia del topo cattivo. Si parla di abusi, ancora una volta, questa volta in famiglia e su una ragazzina, tema inesauribile e per questo, purtroppo, inesaurito.
Due cose che ho visto
Ho finito Wednesday, o Mercoledì, o come lo volete chiamare, e posso dire? È simpatico, ma non mantiene le promesse. Dal trailer mi aspettavo qualcosa di molto più weird e inquietante di quello che ho visto, che è un giallo-commedia adolescenziale con una protagonista che è quasi identica a Daria Morgendorffer (scopro adesso che Eva Cabras mi cita in apertura del suo articolo su N3rdcore che parla di Daria, e me ne compiaccio, perché Daria è anche il mio spirito guida) in versione gotica e vagamente kinky. Per il resto, si capisce abbastanza in fretta chi sono i cattivi, niente è davvero una sorpresa e c’è uno spiegone ogni dieci minuti. Divertente, ma non creperò nell’attesa di una seconda stagione.
Per colpa di Matteo Bordone, che ne ha parlato nel suo podcast quotidiano per gli abbonati a Il Post, mi sono messa a vedere Slow Horses su Apple TV+. Non solo ci ho passato tre giorni (perché ci sono già due stagioni), ma all’inizio della seconda ero già traumatizzata e piangevo sul divano come una bambina. Riassumendo: Slow Horses è una spy story incentrata sul più classico dei cliché, quello degli underdog che fanno squadra e risolvono i crimini anche se sono cialtroni, imbranati e hanno un pessimo carattere. Litigano, si insultano, hanno un capo impresentabile (un Gary Oldman titanico e sfatto come non mai, si sente la puzza di calzini, ascella e scorregge anche dallo schermo) e si sentono mortificati: tutti, o quasi, sono agenti allontanati dal servizio nella grande e luminosa sede centrale dell’MI5 (i servizi segreti del Regno Unito) e sbattuti in un edificio a poca distanza ribattezzato “Slough House”, perché in Inghilterra “Slough” è come dire “Abbiategrasso”, un posto di provincia dove non succede mai un cazzo. Se sei di Abbiategrasso fai conto che abbia detto “Codroipo”, se sei di Codroipo immagina che abbia detto “Casarsa”, se sei di Casarsa sai che ho ragione.
Slow Horses incrocia il thriller spionistico con l’office drama e relativo umorismo. Però è anche una serie che si fa zero scrupoli ad ammazzare i suoi personaggi principali. Zero. Spietata, alla Game of Thrones, e in questo molto realistica: fare gli agenti segreti è un mestiere pericoloso, nessuno è al sicuro. Intorno c’è Londra, tanta Londra, e io la guardo e mi struggo per un amore che sarà sempre eterno, come tutti gli amori idealizzati e mai vissuti.
Pensavi che fosse finita? E invece.
Oggi la newsletter parte presto perché alle 11.30 sul mio profilo Instagram torna #votafemminista, la serie di dirette con persone che fanno politica attiva (e che spesso sono anche femministe). L’ospite dovrebbe essere già nota a chi mi segue: è Marta Bonafoni, consigliera della Regione Lazio e ora capolista a Roma con D’Amato per le regionali imminenti. Prima che qualcuno lo chieda, la diretta si salva e si ricondivide e si potrà rivedere con calma anche dopo, ma per fare domande conviene seguirla live.
Sono in arrivo altre date (e altri annunci), ma ne parleremo nelle prossime newsletter.
Ciao!
Giulia
Peccato che nella seconda stagione di Slow Horses abbiano ingaggiato Duccio Patané come direttore della fotografia (luci arancioni sempre e comunque, e smarmellatissime).