La parabola della dispensatrice di powerbank
E altre storie dall'Assemblea Costituente del Partito Democratico
In una mattinata gelida allo scadere della terza settimana di gennaio, una donna stava cercando di decomprimere e prendere un po’ d’aria nell’atrio dell’Auditorium Antonianum di Roma. Mentre si sgranchiva le gambe, la donna si imbatté un distinto gentiluomo alla ricerca di un caricabatterie per l’iPhone.
“Io ce l’ho” disse la donna. “Serve anche la powerbank?”
“Che cos’è?” Domandò il gentiluomo.
“Una cosa salvavita, vado a prenderla” rispose la donna, e dopo averlo detto scese nuovamente i gradini della grande sala dell’Auditorium per recuperare il bene prezioso e prestarlo al gentiluomo, il quale fu molto felice della scoperta e anche di non ritrovarsi col telefono morto a metà di una lunga giornata di lavoro.
In verità vi dico: portate sempre con voi una o più powerbank di Tiger da 13 euro. Voi non sapete quando potrete usarle e ottenere così la temporanea gratitudine di un ex ministro del governo Prodi II.
Pronti? Via.
Nei giorni scorsi c’è stata un’altra piccola impennata delle iscrizioni a questa newsletter (sei fra le persone nuove? Ciao!) correlata al piccolo teaser che avevo lanciato su Instagram riguardo l’ultima Assemblea Costituente del PD, quella solenne in cui si votava. Questa newsletter, quindi, è dedicata per lo più a raccontare almeno in parte quest’ultimo giorno e tirare le somme di un’esperienza che non ho capito se sia del tutto conclusa (per i motivi che spiegherò poi).
Tanto per cominciare, io che non sono un’iscritta al partito e non ho idea dei suoi funzionamenti interni (davvero oscuri per chi sta di fuori) sono andata all’Assemblea sulla fiducia, pensando sarebbe stata una versione allargata di quelle che avevamo già fatto. Neanche il cambio di sede - dal Nazareno all’Auditorium Costantinianum - mi ha fatto sospettare che potesse essere qualcosa di più di una plenaria molto robusta. E nemmeno la durata, anzi: otto ore? Eh, è quello che ci vuole per finire, mi sono detta. E dato che a via Manzoni ci si arriva senza rischiare multe, eccomi bella surgelata sul motorello in direzione San Giovanni.
Arrivo, e trovo la stampa. Ma non poca stampa! TANTA stampa! Hanno attrezzato un’intera sala per la stampa! Riconosco Pierfrancesco “Quello di Termoli” di Propaganda Live e più tardi Marco Damilano, ma siccome sono timida non ho il coraggio di dirgli che Il cavallo e la torre si è affiancato a Morning nei consumi quotidiani che placano un poco la mia inquietudine. Sto invecchiando, ho trent’anni di delusioni politiche alle spalle e la televisione è ormai quasi tutta in mano alla destra, Damilano è dieci minuti al giorno di posizioni asciutte e dignitose senza strilli da talk show. I stan.
Vabbe’, c’è un sacco di stampa e io (manco avessi scritto un libro sulla pressione estetica e sul terrore di apparire brutte) penso “Mado’, meno male che me so’ truccata bene”, anche se non c’è alcun motivo per pensare che il mio faccione sia visto da altri che non siano quelli del PD presenti in sala. Dato che anche a scuola ero un’ultimobanchista (mi distraggo facilmente, ho bisogno di distrarmi in pace e senza dare nell’occhio) appoggio casco e shopper del Primavera Sound su uno degli ultimi scranni e vado a salutare Cecilia D’Elia, che invece è in prima fila. Quando faccio per tornarmene su e l’assemblea sta per cominciare, Cecilia mi dice “Vieni qui! C’è un posto!”
Risultato: ero seduta davanti a Roberto Speranza, e sì, a un certo punto il mio faccione l’avrete visto o lo vedrete nei servizi dei reporter presenti. E qui si ripropone il mio annosissimo problema del sentirmi sempre fuori posto e non fare mai niente per evitarlo. Resto lì. L’assemblea inizia.
Tutte le volte in cui sono stata la solita disagiata
Cominciamo con il fatto che sto in prima fila, ci sono le telecamere e io sono in Adidas Superstar sminchiate, cardigan e maglietta con ritratto di Carrie Brownstein fatto da Kim Gordon (regalo di Emiliano: i proventi delle vendite vanno a sostenere la non-profit Peace Sisters), ho il casco in mezzo ai piedi e il giaccone appallottolato sotto la sedia. Parte l’Inno alla gioia, e io ho un problema con gli inni: mi fanno piangere. Li associo alla felicità delle premiazioni, non so perché, mi sgorgano le lacrime anche solo a pensarci. Sguardo in alto, in basso, io me lo ricordavo più breve, ‘sto inno. Ok, ce l’abbiamo fatta, è finita, daje OH NO L’INNO DI MAMELI NOOOO, tieni duro Blasi non piangere, ce la faccio solo perché a un certo punto Cecilia mi fa notare che il testo dice “schiava di Roma” e io mi distraggo pensando alle implicazioni culturali di un inno che parla di schiavitù, ancorché simbolica. Meno male che il mio cervello parte per la tangente, l’Italia chiamò, sì! Finalmente sono fuori pericolo.
Tuttappost’ finché non schiaccio per sbaglio una notifica nel mezzo del discorso di Letta e MI SI APRE UN REEL A UN VOLUME MORTALE. Sto in prima fila. Vorrei ritirarmi come un maglione infeltrito.
Una Costituente ha una sua solennità, un po’ da messa cantata, diciamo. Quindi ogni volta che si nomina un morto del PD o qualche altra cosa importante bisogna alzarsi in piedi e applaudire, alzarsi in piedi e fare il minuto di silenzio con la posa contrita di un calciatore in barriera, le sedute dell’Auditorium sono di legno e quindi SGRAAAAAT alza la sedia e BRUUUUM rimetti giù la sedia, e in tutto questo io ho sempre il casco in mezzo ai piedi. Signore, la prossima volta facciamo che sono aggraziata, leggiadra, sfolgorante e intelligente come una palina dell’autobus.
Come se non bastasse, ci si mette il metabolismo. Alle undici: ho fame. Mancano due ore al momento in cui potrò ragionevolmente cibarmi. E sette ore (previste) alla fine dei lavori. All’una: mi alzo, vado al bar ristorante, mi deprimo davanti ai tramezzini e opto per i tortellini con salsa tartufata e un caffè. Alle due e mezza: me se sta a ripropone tutto, tipo Berrettini con la parmigiana.
Dario Corallo in his Tina Cipollari era
Qualcuno si ricorderà Dario Corallo da quando nel 2018 si candidò (legittimamente) alla segreteria, in polemica con l’andazzo gerontocratico del partito. Sabato all’Assemblea c’era anche lui, ed è intervenuto per dire le stesse cose che diceva quando si candidò alla segreteria. Male per il partito (perché i problemi evidentemente sono sempre gli stessi) e male pure per lui, che nel fare “No Enrico, io esco” ha sicuramente riproposto questioni che anche a me sembrano in gran parte irrisolte, perché i giovani-giovani ieri in Assemblea quanti erano, tre? Quattro? Cinque?, ma non ha approfittato dell’occasione e del clima di apparente apertura per affiancare alle sue recriminazioni una serie di proposte per cambiare percorso (come ha fatto invece, con il solito garbo, Caterina Cerroni dei Giovani Democratici). E se da un lato ne so troppo poco per dire se abbia fatto bene o male, dall’altro fra me e la politica attiva ci sono sempre i problemi elencati da Corallo, che non ha proprio tutti i torti (e non me li ha rivelati lui, quei problemi). Vabbe’, niente, volevo solo dire “in his Tina Cipollari era”, se scriverò altre cose sulla Costituente difficile che riesca a infilarcelo, qua siamo fra amici.
Le questioni essenziali
Andrea Orlando, riferendosi a Meloni: “La presidente… IL presidente…” (Risate.)
Laura Boldrini: “Eh no, eh, non ti ci mettere pure tu!”
Orlando: “Contavo sull’intervento della Boldrini sulle questioni essenziali.”
Uscirne male tutti, incredibile amisci.
Occupare spazio
Una cosa bella dei sottocomitati era questa: Letta era draconiano sui tempi. Hai nove minuti per parlare? Dopo i nove minuti ti diceva ok basta e ti levava la parola pure se eri il Patatern’, cosa utilissima per me che sono sbrodolona e quindi sapevo di dover restare focalizzata e andare al sodo. All’ultima plenaria nessuno si è azzardato a tagliare i discorsi di nessuno, quindi più di qualcuno (a seconda del rango: le gerarchie contano) si è allungato e allungato e allungaaaaaaatoooooo, come se occupare spazio fosse più importante che dire poche cose mirate. Ci voleva la musichetta come agli Oscar, ci voleva, da far partire trenta secondi dopo il momento inevitabile in cui l’oratore dice “E con questo concludo”, che in genere significa che ne ha per altri cinque minuti.
Cose di cui avrei fatto a meno
Tornando alle parabole: capisco benissimo che i cattolici sono tanti ed è insensato pensare che non ce ne siano pure nel PD, però fra Speranza che cita Papa Francesco come pensatore di sinistra mentre firma un manifesto che identifica il suo partito come “femminista”, Letta che prima cita San Paolo (dal quale discende buona parte della misoginia della cristianità, diciamocelo), non mi ricordo chi che cita Jovanotti e quella stramaledetta grandechiesachepartedacheguevaraearrivafinoaamadreteresa, e Letta di nuovo che chiude con un riferimento a un canto parrocchiale che io avevo paura fosse LA NOSTRA FESTA NON DEVE FINIRE NON DEVE FINIRE NON DEVE FINIRE E NON FINIRÀ e invece era una roba oscura che io sono sicura di non aver mai sentito su tre tende e il fermarsi, ecco, io ero SFINITA. Siamo al Catechismo? No. Nessuno pretende di sentirvi citare Carla Lonzi o Gloria Steinem, ma pensatori di riferimento che non siano il Papa o Gramsci ne abbiamo? E tiriamoli fuori, dai. Pure Gramsci andava bene, comunque. Nessuno si sarebbe lamentato.
Tiriamo, ordunque, le somme
Ho già avuto modo più volte di parlare di quello che è stato il mio percorso da non iscritta nella Costituente di un partito, e la cosa fondamentale che mi sento di dire, alla fine di questo percorso, è che ci ho messo pochissimo a sentirmi a mio agio. La cosa che dicevo prima, dell’essere sempre fuori posto, non è durata molto. Ho avuto la possibilità di individuare un tema su cui lavorare e l’ho visto inserito nel manifesto votato ieri dall’Assemblea in termini abbastanza simili a quelli su cui avevo insistito. Mi sono persa per strada un’altra cosa su cui avrei dovuto forse tornare più volte, vale a dire il diritto alla felicità, che è stato citato ieri nel suo discorso da Paola De Micheli (candidata alla segreteria), ma che nelle riunioni non abbiamo mai davvero discusso. Ci sono diversi punti del manifesto su cui tornerei per affinarli, qualche timidezza e qualche vaghezza che puntano a forse a un timore di risultare troppo radicali, ma quello che è uscito dalle 52 ore complessive di riunioni e discussioni fatte dai sottocomitati è già un bel passo in avanti.
Manca, credo - e non so se verrà mai fatto, anche se è stato detto - un lavoro per rendere il manifesto qualcosa di più di un documento congressuale. Viviamo in un paese in cui le abilità di lettura sono in caduta libera, come anche la soglia dell’attenzione. Un pdf di tre pagine lo leggono solo i molto convinti, o i detrattori pignoli. Il resto del potenziale elettorato rischia di non vederlo mai, quel lavoro di aggregazione di valori, obiettivi, punti fermi. E dopo tutta la fatica che abbiamo fatto, l’idea che resti nascosto in qualche budello del sito del PD un po’ mi fa tristezza. Per cui, se servirà lavorarci per renderlo accessibile, io ci sto.
Detto questo, che abbiamo o meno finito mi rimane comunque il percorso fatto in Costituente, che come ho detto più volte è stato bello di per sé. È stato, per citare la cosa che ho detto alla persona che mi ha invitato, “un accollo, ma un accollo bellissimo.” Cosa ne farà il partito con quel lavoro da qui in poi, io non lo so dire.
Ci risentiamo martedì.
Giulia