L'intellettuale disimpegnato
Questa settimana: sedetevi comodǝ, ché è lunga. Parliamo di politica, Salone del Libro e segreteria del PD.
“Quindi sei del PD?”
Questo messaggio mi è arrivato subito dopo l’annuncio del mio ingresso nell’assemblea costituente da una delle persone con cui collaboravo. Non era così - non ero del PD, nel senso che non avevo preso la tessera e non avevo intenzione di prenderla né di entrare nel partito come militante - ma è sempre difficile tracciare un confine visibile fra la partecipazione politica e la carriera politica, specialmente se si lavora nel campo delle idee. L’amica scrittrice affermata mi sgrida sempre quando io fatico ad appropriarmi della qualifica di “intellettuale”, ma che altro deve essere una persona che lavora con l’intelletto? Sulla qualità del mio essere intellettuale si può sicuramente discutere (ne discuto io per prima), ma quello sono. E da tempo, mi pare, gli intellettuali hanno rinunciato a fare politica.
Certo, dicono cose politiche, figurarsi. Ma le dicono tenendosi a debita distanza dai partiti e dai candidati, timorosi di dispiacere a qualcuno che poi possa diventare in qualche modo potente, di sposare esplicitamente una linea politica o peggio, una persona che si riveli poi fallimentare, corrotta o anche solo deludente. Non aiuta di certo la disintegrazione della sinistra, che abbiamo guardato sbriciolarsi al rallentatore nel corso di oltre tre decenni. Ma io non dimentico che c’è stato un tempo in cui Nanni Moretti poteva permettersi di inserire una scena in un suo film in cui urlava a Massimo D’Alema “Di’ qualcosa di sinistra! Di’ anche qualcosa non di sinistra, ma di’ qualcosa!” (cito a memoria, è sicuramente impreciso: quella frase, come molte battute leggendarie, è entrata a far parte del nostro linguaggio quotidiano in una versione decontestualizzata e non aderente all’originale).
Non è che voglia scomodare Pasolini, ma forse dai, sì, scomodiamo Pasolini, che fu un membro del PCI finché il PCI non lo cacciò per “indegnità morale” (e raccomando a questo proposito un approfondimento di Elisabetta Michielin sulla vicenda, che chiama in causa, oltre all’omofobia, anche il maschilismo del partito: plus ça change, ma ci torno dopo). Pasolini è forse l’esempio più memorabile di intellettuale che era allo stesso tempo un attivista politico, ma non è certo l’unico. C’è stato un tempo in cui i partiti, intesi come collettività di soggetti, rappresentanze ed elettori, erano più importanti dei loro dirigenti, e per un intellettuale non era considerato disdicevole farne parte.
Era un tempo diverso, però. La politica degli anni ‘50 era quella nata dalla Resistenza, che era l’appiglio di un intero paese alla ricerca di un riscatto dopo essere stato centrale nella distruzione della pace mondiale. L’appartenenza a una sfera ideologica, qualunque fosse, era sentita come cruciale nella formazione dell’identità pubblica e privata: e dato che l’amnistia Togliatti aveva permesso anche ai fascisti di rimettersi in circolo, a patto di aderire alle regole repubblicane, non era peccato identificarsi a destra. Quell’amnistia fu un grande errore, ora possiamo dirlo, anche se col senno di poi sono buoni tutti.
La politica contemporanea è anemica e inconcludente a sinistra, fanfarona e violenta a destra, e tuttavia mi pare che i musicisti (per nominare una categoria che frequento) si espongano più volentieri rispetto agli scrittori. Ci sono molti motivi per questa riluttanza, e non tutti sono legati all’inconsistenza della scena politica: molti sono visibili nel pasticcio che si sta creando intorno al Salone del Libro, che ho riassunto in un thread su Twitter qualche giorno fa.
Per proseguire quel ragionamento: se Loredana Lipperini, che non ha tessere di partito e non mi pare si sia comportata in maniera diversa da tanti altri, è giudicata “troppo politica” per guidare il Salone, è chiaro che impegnarsi in un modo o nell’altro diventa direttamente dannoso. La Rai è in mano alla politica. Le principali reti private sono di proprietà di un uomo che è stato al governo, a intermittenza, per quasi trent’anni. E anche i festival, i musei, le fiere, le manifestazioni e la maggioranza degli enti culturali subiscono o agiscono qualche forma di ingerenza della politica locale e nazionale. Chi è che vuole rischiare di essere antipatico a un futuro ministro della Cultura, e quindi essere escluso, magari non direttamente dal ministro ma da qualcuno che dipende da qualcuno che dipende da qualcuno che dipende dal ministro, e che vuole che quell’esclusione risalga la catena di comando come un salmone risale la corrente?
L’intersezione fra cultura e politica è (diventata) questo: soldi, titoli, incarichi. Monoliti che si parcheggiano nei posti di potere per decenni, bloccando la circolazione in ogni modo possibile. E che ora, per giunta, si lamentano ad alta voce che avendo vinto le elezioni loro hanno il diritto di “cambiare la narrazione”, come se la storia si potesse riscrivere rimpiazzandola con la propaganda, e il fascismo non fosse un’ideologia di morte direttamente responsabile di un conflitto mondiale e della morte di milioni di innocenti, ma solo una corrente politica ingiustamente marginalizzata dalla prepotenza di una fantomatica “sinistra” che preclude la visibilità ai suoi esponenti. E il piagnisteo ci arriva dalle pagine dei giornali, dai TG e dai comizi che questi poveri ostracizzati hanno tutto l’agio di occupare.
Intanto gli intellettuali, cioè la gente che più di ogni altra dovrebbe impicciarsi di politica perché la politica senza idee è un guscio vuoto, si guardano bene dal farla, la politica. Un po’ è perché non glielo chiede nessuno: nell’era in cui la visibilità conta più dell’autorevolezza, l’endorsement di una personalità della cultura è al massimo, per usare il gergo del business, nice to have. E un po’ perché metti che ti agganci al cavallo perdente: non solo rischi gli sfottò da qui all’eternità, ma quell’endorsement ti verrà rinfacciato anche se il cavallo fosse vincente per un po’ e perdente da lì in poi. Me lo ricordo bene, l’entusiasmo intorno a Matteo Renzi: non lo condividevo (per tanti motivi), ma potevo capirlo. Adesso i renziani entusiasti sono rimasti in tre, e non uno di quelli che lo sostenevano all’epoca è ancora riuscito a dire di essersi sbagliato. O magari mi è sfuggito. Mi sfuggono tante cose.
Allora qua tocca scegliere: essere cittadini (e quindi occuparsi di politica in maniera rigorosa e trasparente) e assumersi i rischi di questa scelta, oppure isolarsi nella bolla delle belle lettere e rinunciare a qualsiasi tipo di intervento diretto. Però poi non ci possiamo lamentare se ci ritroviamo con il ministro della Cultura che va all’assalto degli spazi costruiti con pazienza e fatica da quelli che la sua parte politica percepisce come avversari da distruggere. Perché è così che succede: un po’ alla volta, poi tutto insieme.
Elly Schlein segretaria del PD
Tutto quanto sopra non preannuncia un mutamento rispetto alla possibilità di iscrivermi a un partito e militare nel suddetto, perché no, non ho cambiato idea. Come ci dicevamo domenica al panel del festival Saperlo prima, la politica non è solo una questione di appartenenza, è anche una questione economica. Militare, andare alle riunioni, fare volantinaggio, sono tutte cose che richiedono un’enorme convinzione e un altrettanto enorme spirito di sacrificio, di tempo ma anche di soldi (e per una freelance, tempo e soldi si equivalgono). E comunque io voglio sempre scrivere romanzi su un terrazzo. Però quello che dicevo va a spiegare il motivo per cui ho sostenuto Marta Bonafoni e la lista D’Amato alle regionali, e sabato ero sul palco del comizio di Elly Schlein a Testaccio.
Quello che ho detto in quei pochi minuti improvvisati al microfono non era molto strutturato, ma se non altro era chiaro. Nei mesi scorsi abbiamo assistito a una deplorevole corsa ad accreditarsi alla corte della Prima Donna Presidente, perché il potere logora chi non ce l’ha, come diceva quello. E allora vai di editoriali attendisti, di “vedremo cosa farà” di “è una vittoria per le donne”, come se fra noi e Meloni ci fosse altro in comune che l’apparato riproduttivo e la storia politica non contasse.
Io non voglio Una Donna segretaria di un partito di sinistra, anche perché tecnicamente ce n’è già una, si chiama Beatrice Brignone ed è la segretaria di Possibile. Io voglio quella donna lì a capo del partito che raccoglie l’eredità della sinistra italiana e il grosso del suo elettorato (e che ha fatto parecchio, va detto, per sperperare entrambi). Questo per molti motivi: perché la stimo, perché penso che fra tutte le candidature che sono state espresse la sua sia la più adatta a concretizzare l’indirizzo progressista del nuovo manifesto, perché il Partito Democratico ha un bisogno disperato di essere demaschificato e demaschilistizzato (due cose diverse, entrambe necessarie), perché è ora che i femminismi entrino in maniera organica nel discorso pubblico della sinistra e non siano sfruttati a gettone quando serve, e perché sì, la politica passa anche dalla rappresentazione, e una giovane donna queer a capo di un grosso partito rappresenta una grossa novità. E anche: no, Una Donna leader non ci basta, ne vogliamo dieci, cento, mille, centomila, e ancora non avremo pareggiato i millenni di oppressione che ci portiamo sul groppone.
E invece sembra che da Elly Schlein si pretenda una purezza e una perfezione su cui si è inclini a sorvolare quando si parla del suo avversario o di qualunque altro politico maschio, una purezza e una perfezione che non esistono in natura e che siamo disposti a riconoscere solo a chi è lontano, alle Jacinda Ardern, alle Nicola Sturgeon: e infatti quelle si sono dimesse, perché essere perfette richiede uno sforzo disumano. Stefano Bonaccini non è Belzebù, ma è pure uno che all’ultima Costituente ha detto “io” più volte di tutti gli altri tre messi insieme. Sono stanca, stanchissima dell’io dei maschi bianchi eterocis, perché è l’unico io che conosciamo, l’io che regola il mondo e pretende di regolare non solo il “noi” ma anche il “me”, sostituendosi a ogni altra esperienza e a ogni altra soggettività e pretendendo di esserne metro e misura. L’ho già detto: abbiamo bisogno di meno “io” e di più “noi”, meno gente che si candida a salvatore del mondo e più collettività. E meno maschi bianchi eterocis che decidono tutto, pensandosi la neutralità del genere umano.
Chi rappresenta il passato non può aggregare le forze del presente, tantomeno quelle del futuro. Al massimo può conservare lo status quo. A qualcuno andrà bene, immagino.
Se pensiamo che tutto si risolverà per magia, che il nuovo segretario o la nuova segretaria farà ‘o miracolo e che la sinistra tornerà all’improvviso a incidere sulla vita del paese, ve lo dico: non succederà, o comunque non da un giorno all’altro, né con Bonaccini né con Schlein. L’egemonia culturale della destra è un fatto da tempo, ha le sue radici nell’opera di sistematico rincoglionimento e svuotamento di senso messo in atto da Berlusconi a partire dai primi anni ‘80 e che nessuno è stato in grado di contrastare se non arroccandosi su posizioni elitarie tipo “Io non ho la televisione” (anche qui Nanni Moretti torna sempre utile). E non può che aggravarsi man mano che i rappresentanti del governo procederanno con la loro opera di conquista e distruzione di spazi culturali di cui non comprendono il funzionamento ma di cui bramano occupare lo spazio e incassare la visibilità. Come il Nulla de La Storia Infinita, avanzeranno mangiandosi ogni cosa. E sarà lunga, e faticosa, e potremmo non riprenderci mai più se resteremo alla finestra, o peggio, se staremo zitti e in disparte per il timore di giocarci qualche carica o un colonnino sui giornali, alzando la testa solo quando quella minaccia ci tocca a livello personale.
Si riparte
Marzo si avvicina a grandi passi, quindi è ora di cominciare a comunicare le date già fissate per le prossime settimane. Quindi:
Il 24 febbraio presento il libro di Anna Maria Gehnyei, aka Karima 2G, intitolato Il corpo nero. Wegil, Largo Ascianghi 5, Roma. Info qui.
Il 25 febbraio sono a Casoria (NA) per un progetto di lettura con l’autore (autrice, nel mio caso) organizzato dal liceo statale Gandhi. Il luogo è la biblioteca Comunale, l’incontro si tiene dalle 11 alle 13, se ritardo è colpa del Frecciarossa.
Il 26 febbraio si vota ai gazebo per le primarie PD, che ci andrò e per chi voterò l’ho già detto.
Il 3 marzo presento la fanzine SMACK del Collettivo Moleste alle Industrie Fluviali, a Roma. Orario: 18.30. Info qui.
Il 6 marzo me ne vado a Pavia per parlare di Brutta, dettagli da confermare.
Il 7 marzo esce Scintilla nel buio, che si può già preordinare qui (per averne una copia autografata) o qui (per tutti gli altri store).
L’8 marzo me ne vado al Parlamento Europeo, a Bruxelles, lo dico solo perché sono contentissima. Ci sarà comunque una diretta social che cercherò di condividere da qualche parte.
Il 10 marzo me ne vado a Schio (VI), per un incontro organizzato dal Collettivo Femminista Scledense. L’incontro è alle 20.30, dettagli più avanti.
L’11 mi lamenterò che sono molto stanca.
Ce ne sono altre, ma già così mi pare abbastanza. E avrei un sacco di altra roba, ma l’ho fatta lunga, facciamo la settimana prossima.
Giulia
E mo che sono seduta comoda, col cavolo che mi alzo. Mi piglio il popcorn per le prossime puntate. Ti si vuole bene: gli sberloni in faccia alla realtà, tosti come un perché ben piazzzato di un bambino, li sanno assestare in pochi. Besos, ed evviva i discorsi improvvisati.
Applausi per “Chi rappresenta il passato non può aggregare le forze del presente, tantomeno quelle del futuro. Al massimo può conservare lo status quo. A qualcuno andrà bene, immagino.”