L'unica prospettiva possibile
Questa settimana: i maschi scoprono l'armocromia, la nostra stanchezza cronica, due serie che sto guardando e un po' di date.
La settimana scorsa i maschi hanno scoperto l’armocromia. Che poi è un modo fighetto per dire “i colori che ti stanno bene o che ti sbattono”, niente di più e niente di meno, ma averlo sistematizzato e avergli dato un nome ne ha pure fatto un’industria. Anche io che sono sempre vestita più comoda che bella (e lo rivendico pure in Brutta, a chiare lettere, nel capitolo intitolato “La malvestita”) e che non saprei dire quale stagione sono, so benissimo che i colori pastello mi spengono e i toni gioiello invece no, che sto bene col verde smeraldo e il rosso corallo ma non con il blu cobalto o il rosa cipria.
L’ho scoperto non perché io ami moltissimo la moda, che seguo più per questioni culturali che per desiderio di imitazione, ma perché come tutte le creature che sono state socializzate da femmine ho imparato molto presto che come mi vesto determina come sarò percepita e può anche decidere la mia sopravvivenza, o le mie probabilità di convincere un giudice di avere subito un’aggressione sessuale. Le donne che raccontano una molestia sessuale avvenuta in uno spazio pubblico spesso tendono a precisare che indossavano abiti che le coprivano interamente, perché gli abiti succinti vengono interpretati come segnale di disponibilità, e per estensione di consenso a un rapporto (sì, abbiamo un grosso, grosso problema con il concetto di consenso). Ci occupiamo di come siamo vestite perché i nostri corpi vanno a turno “valorizzati”, camuffati, abbigliati in modo acconcio a contenere le forme o a rivelarle, a farci sembrare delle donne senza sembrare troppo femmine, a suscitare o evitare il desiderio maschile. La quantità di energia che la maggior parte di noi riversa nel decidere cosa mettersi addosso è soverchiante, ma non inutile. Figuriamoci una donna che vive costantemente sotto l’occhio delle telecamere, e che come tutte le figure politiche è costretta a operare delle scelte di stile, perché anche le scelte che non fai sono scelte, e l’abbigliamento “neutro” non esiste. Nel caso di Elly Schlein, si tratta di bilanciare il suo stile personale, che è sempre stato informale e pratico, con la necessità di apparire più istituzionale, “adulta”, in un contesto che tende a delegittimarla per la sua età e il suo genere. Due sono le cose: o ti sai vestire, oppure chiedi aiuto a qualcuno che lo sappia fare.
L’esperienza degli uomini in materia è molto diversa e molto più limitata, come spiega chiaramente Stefano Feltri in questo passaggio della sua newsletter sull’argomento:
Comunque, di armocromia io non posso e non voglio discutere: la mia idea di scelta di colori è che quando mi servono giacche o pantaloni trovo il negozio giusto e compro quattro o cinque versioni dello stesso modello in colori diversi. Fine.
Il resto dell’argomentazione di Feltri è solida, anche se manca - giustamente - della prospettiva femminile. Premesso che Schlein ha già liquidato la questione in maniera definitiva per quanto la riguarda, e non vale la pena tornare sull’argomento dal lato suo, mi interessa di più ribadire che quanto è successo ha a che vedere principalmente con l’idea che quello che che ha a che vedere con le donne non possa che essere minore, frivolo o direttamente stupido. Leggiamo, per esempio, l’intervento di Massimo Gramellini sull’argomento.
Come ormai sappiamo, l’intervista a Schlein era lunga almeno 10.000 battute, e della questione dell’armocromia si parlava in esattamente una riga, alla fine di una risposta sull’importanza dell’immagine nella politica (che su un periodico di moda non è esattamente fuori posto). Gramellini non l’ha letta? Commenta i tweet, i titoli di Repubblica, o che altro? Non importa: la conversazione sui temi che cita era il grosso dell’intervista, ma a lui non interessa. Si fissa su quello che considera essere frivolo e ininfluente perché lui non lo capisce. Probabilmente anche lui compra stock di giacche di colori diversi, o forse - com’è più probabile - se le fa comprare da un’assistente, o gli vengono fornite da una stylist, dato che va in televisione e di norma chi va in televisione viene vestito da qualcun altro. Le giacche di colori diversi, in realtà, non sono davvero di colori diversi. Non sono un’esperta di giacche di Gramellini, ma non mi pare di averlo mai visto in altro che variazioni di beige, blu e marrone. Giacche fucsia alla Malgioglio o completi pastello alla Don Johnson in Miami Vice: non pervenuti.
L’intervista di Schlein con Vogue non era la sua “prima uscita” da segretaria, è forse solo la prima di cui Gramellini si è accorto. Eppure lui ci tiene a farci sapere che si sarebbe aspettato altro, e ci dice anche cosa, perché le donne devono essere sempre riportate alle aspettative degli uomini. Devono fare le cose come si aspettano gli uomini, parlare di quello che decidono gli uomini, secondo la prospettiva degli uomini, l’unica che abbia un valore, quella che dà forma a tutto e validità al resto. E anche quando lo fanno, gli uomini non ascoltano. Forse sono troppo impegnati a scegliersi le giacche.
Un problema che non ho solo io
Ogni volta che dico alla gente che sono pigra, c’è qualcuno che mi risponde una variazione di “Lo dicono tutte le persone che lavorano tanto”. Un po’ come quando parlo di problemi di autostima, e c’è sempre qualcuno che mi dice “Ma finiscila”. Circa un mese fa ho preso il Covid per la seconda volta: non me ne sarei mai accorta se non avessi fatto il test per scrupolo, perché ero in piedi e avevo appena un po’ di tosse e spossatezza, come quando prendi un raffreddore un po’ violento che ti intontisce. Adesso però la stanchezza cronica che mi affligge da tempo sembra essersi aggravata, faccio più fatica a fare tutto e quando stacco dall’insegnamento vado in crash. Mi schianto letteralmente sul divano, sfinita, e non riesco a fare niente per il resto della giornata. Long Covid? O sono solo esaurita di mio?
La stanchezza è un segnale che va ascoltato, è il corpo che ti dice che hai finito le risorse e devi riposare: non è la malattia, è un metodo di protezione dalla malattia, se lo ignori ti fai del male davvero. Il problema è che negli ultimi cinque o sei anni mi sento sempre travolta da qualcosa: dagli eventi, dagli impegni, o da una pandemia. La stanchezza fisica, quella da sbadigli e da rannicchiarsi sulla chaise longue del divano a guardare Succession (poi ci torno) in pieno giorno, si è sovrapposta a quella mentale, che era lì da prima.
Qui entra la reputazione: pigra, tu? Ma se sei piena di energia! Ma se fai mille cose! Anzi, vieni qua, collegati con questa lezione, vieni a questo evento, parla con noi, dicci cose, dacci un’opinione, leggi questo libro, e anche quest’altro, eccoti questa rottura di cazzo questo episodio deplorevole che ti segnaliamo via mail, via messaggio, via DM, taggandoti in un tweet, in una storia su Instagram, in un post su Facebook. E al di là della questione del compenso per il lavoro intellettuale, di cui si parla sempre ma che poi finisce in un nulla di fatto perché sembra scontato che chi basa il suo lavoro sull’elaborazione e la comunicazione delle idee lo faccia gratis, c’è anche il fatto che sono esausta. L’energia che la gente vede quando sono in pubblico è performance, coadiuvata dalla presenza di un pubblico a cui succhio batteria con l’avidità di un iPhone all’1%, per poi crollare appena ho finito.
No, gli integratori non servono a niente, mangiare mangio, dormire dormo, attività fisica ne faccio, e l’ultima cosa che mi serve - lo dico per le persone bene intenzionate - sono consigli per altri rimedi, altre cose che dovrei fare. La cosa semplice da sapere è questa: a fine anno dovrei consegnare un libro di cui al momento ho scritto (aspe che guardo) ventisei pagine e mezzo, potrebbero essere ventotto o trenta quando questa newsletter prenderà il volo, ma cambia poco. E sto anche lavorando a uno spettacolo teatrale, esattamente con la stessa grinta. Avrei anche un libro da promuovere (che non sto promuovendo) e insegno tre giorni su sette fino a giugno. Non mi rimane batteria per il lavoro intellettuale volontario. Non mi rimane batteria neanche per gestirlo.
Non è una lamentela, è lo stato delle cose, e forse è uno stato delle cose che dobbiamo interrogare per capire in quantǝ siamo a stare in piedi per miracolo, a faticare a ritagliarci spazi di godimento, a vivere le giornate cercando di non diventare il fanatico che si alza alle cinque e mezza per fatturare due ore più degli altri, finché pure Succession lo guardi con più ansia di quanta non te ne generi già di suo.
Anche i ricchi piangono
Confesso che ho cominciato a guardare questa serie per un motivo scemo: non capivo (se non in maniera molto vaga) le battute di Seth Meyers durante A Closer Look, il segmento del suo programma in cui commenta le notizie di politica interna. Succession è una serie talmente connessa con la realtà dei media americani da essere irrinunciabile per chi nei media ci vive e ci lavora, ma è anche molte altre cose. Tanto per cominciare, è forse la cosa più triste che abbia mai visto in vita mia, triste anche quando cerca di strapparti un sorriso, quando i personaggi diventano ridicoli: un ridicolo che però è sempre appoggiato sulla sopraffazione, sull’idea di base che quelli che stiamo guardando siano dei ricchi che si possono permettere di essere incapaci, inetti, goffi e inconsapevoli dei propri limiti, perché il loro potere li avvolge come gli abiti immaginari dell’imperatore.
Per chi non l’avesse vista: Succession è King Lear di Shakespeare se Lear fosse Rupert Murdoch. Logan Roy - roy, appunto - anziano magnate dell’intrattenimento (anche i suoi canali di informazione, esattamente come Fox News, lo sono) sta per lasciare il suo impero in mano a uno dei figli, e la scelta pare sia caduta su Kendall, il suo secondogenito, un uomo insicuro e depresso che come tutti gli altri fratelli e la sorella vive nell’ombra di un genitore violento e manipolatore. Invece, come è chiaro da subito, l’incoronazione di Kendall viene sostituita da una lotta fratricida per il comando dell’azienda.
Il problema è che non c’è un Roy che non abbia problemi emotivi, mentali o non sia uno stronzo: Connor (il primogenito) è una sindrome di Dunning-Kruger ambulante, troppo scemo per rendersi conto di essere scemo e troppo ricco per preoccuparsi delle conseguenze della sua scemenza. Kendall, appunto, è depresso e incapace di provare gioia (Jeremy Strong, che lo interpreta, è perfetto per la parte: tutto nella sua faccia tende verso il basso, ha gli occhi tristi anche le rare volte in cui sorride) e anche fare lo stronzo non è che gli riesca sempre benissimo. Roman (Kieran Culkin, fratello di Macaulay) è una monumentale testa di cazzo che potrebbe o meno essere affetto da qualche disturbo mentale, ma essendo ricco viene lasciato libero di essere una testa di cazzo e di compensare le sue insicurezze (e forse anche gli abusi subiti da bambino) con comportamenti antisociali e aggressioni ai danni degli altri fratelli e della sorella. Poi c’è Siobhan, “Shiv”, che di tutti è la più intelligente e forse l’unica con la lucidità necessaria a comandare un’azienda gigantesca, ma è pure una donna: la misoginia di Logan Roy è per lo più inespressa, strisciante. Risiede nelle richieste che fa alla figlia di provare di essere all’altezza e nella facilità con cui cambia idea rispetto alla sua adeguatezza, ma si manifesta anche nel machismo che esige di vedere esibito dai figli. Completano il set il fidanzato di Shiv, Tom (a turno leccaculo, opportunista, insicuro e completamente autoriferito: sono solo alla seconda stagione, ma mi sembra chiaro che Shiv non lo ama, l’ha scelto perché lo trova rassicurante e con lui può essere power couple senza rinunciare alla sua libertà) e Greg, cugino di quarto o quinto grado che arriva spaesato in azienda e ci mette mezzo secondo a capire che cane mangia cane, e che non gli conviene restare in fondo alla catena dei cani da mangiare.
In pratica, Succession è una lunghissima seduta di terapia familiare conto terzi che è impossibile guardare a più di due episodi per volta, perché la corrente di disperazione e disumanità che la percorre non conosce soste o sospensione. Si soffre moltissimo, a volte anche a dispetto dei propri valori di riferimento, perché la prospettiva è sempre e solo quella degli oppressori. Kendall, in particolare, è il punto di ingresso dello spettatore nella serie: se i protagonisti fossero i poveri, lui sarebbe un villain, un tirapiedi privo di scrupoli che esegue ogni ordine del padre e gode di un privilegio pressoché infinito. Guardare la serie dal suo punto di vista ci porta a empatizzare con lui: impossibile non sentirsi sporchi, dopo, ma è anche interessante ricordarci che la nostra percezione dell’esistenza e di quello che è giusto o sbagliato è davvero solo una questione di angolazione.
Midge, mi mancherai tanto
The Marvelous Mrs Maisel sta arrivando a una conclusione, un episodio alla volta, ed essendo un commiato sono quasi grata di poterlo estendere per qualche settimana. Miriam “Midge” Maisel è uno di quei personaggi a cui è impossibile non affezionarsi, un po’ come Fleabag (e infatti sul finale di Fleabag ho pianto, pensando: non ti rivedrò più). Piangerò anche con l’ultimo episodio della storia di Midge, pessima madre, moglie incompresa, donna che scopre la gioia del lavoro e dell’arte e la mette sopra ogni cosa, circondata dall’amore incrollabile di una famiglia di matti: ma sono felice di averla conosciuta.
Per finire: le date
Sono settimane che mi trascino arretrati di libri da segnalare, e il motivo sta tutto nel secondo paragrafo di questa newsletter. Metto però qui le date in arrivo.
Il 23 maggio nel tardo pomeriggio sono in diretta Instagram con Cristina Obber per chiacchierare dei rispettivi libri usciti per Il Battello a Vapore: il suo si intitola Era solo un selfie.
Il 15 giugno sono a Parma per la manifestazione Scintille d’estate (il programma non è ancora uscito, diciamo che questo è un anticipo) per parlare di - ta-dan - Scintilla nel buio.
Il 16 da Parma vado a Mare di libri: l’incontro a cui partecipo si terrà alle 18.00, e condivido il palco con Vera Gheno (quindi preparatevi, perché quando siamo nello stesso spazio tendiamo a fare del cabaret di qualità). Il tema è “1 parola 2 generazioni”, e la nostra parola è “Parità”.
Vado a fare gli auguri di compleanno alla mia mamma, ciao!
Giulia
Capisco bene il problema stanchezza e quello del lavoro volontario. E quello del continuo lavoro sulla propria reputation (in campo pubblicitario equivale ad un costante update di cosa fai, documentation, portfolio, social media, etc...). Potrei dirti che di solito "mi fingo morta" ma non è applicabile a tutto.
Per fortuna non vuoi consigli... perché non ne avrei :-D
p.s. Ti vorrei in Filanda per il libro, ma ancora non sono riuscita a farci un salto. Dopo giugno la tento
Grazie per le tue parole, che condivido in pieno.