Inizio subito dicendo CIAO! alla manata di gente che è è iscritta fra ieri e oggi dopo l’uscita sulla prima serata, voi siete matti ma ok, è bello essere matti insieme. Procediamo, quindi, con il VAR della seconda serata del Festival di Sanremo 2023.
Faccio una premessa: le cose fatte bene sono meno divertenti da raccontare di quelle fatte male, degli incidenti e degli inciampi. La seconda serata è andata notevolmente bene, almeno fino al monologo comico (ne riparliamo) e nessuno ha spaccato niente, per cui non mi aspetto che questa newsletter esploda come invece ha fatto l’altra. Sanremo + Ferragni x Blanco = nitroglicerina, c’è un chimico in sala?
Le canzoni
Mi sento di confermare - e non sono sola - che la media dei pezzi quest’anno non toglie esattamente il respiro. La canzone di Rosa Chemical (look a metà fra Edward Manidiforbice e il Dracula di Gary Oldman) è divertente e potrebbe essere la Dove si balla di quest’anno, Lazza ha portato uno dei pochi pezzi con un campione (gli altri sono gli Articolo 31) e un suono contemporaneo, bello anche quello di Madame anche se ero distratta dal suo avere adottato tutti i trend moda di Sanremo 2023 contemporaneamente. Su Colapesce Dimartino ho un gigantesco conflitto d’interessi, ma Splash è piaciuta molto anche alle sala stampa, a quanto pare. Crescerà tantissimo.
Speriamo che la crescita si applichi anche a qualche altra canzone in gara, perché fino qua è tutto un po’ meh. Per esempio: il pezzo di Ariete, che vorrei che mi piacesse di più visto che mi piace lei e mi piace chi ha scritto con lei, ma non mi è ancora arrivato. Molto meglio al secondo ascolto Elodie, perché “Le cose per me sono due/lacrime mie o lacrime tue” è un soundbyte pazzesco, una meraviglia di sintesi.
Giorgia invece la gradisco più di quanto dovrei, sarà il sound rétro da hit anni ‘80 che con me purtroppo funziona sempre, perché nonostante tutto sono una vecchiazza. Nella versione studio non fa quell’acuto spaccabicchieri che ha fatto ieri all’Ariston, e questo in retrospettiva ci ricorda cos’è Giorgia: un’olimpionica dell’ugola che ogni tanto incontra una bella canzone.
Qui ho raccolto quelle che per ora mi piacciono di più, o alle quali voglio dare una seconda possibilità. Ho lasciato fuori Paola e Chiara perché tanto so benissimo che le ballerò al Pride di Roma e a qualunque altro Pride del 2023 fino a farmi venire le vesciche ai piedi.
I tempi che (per fortuna) cambiano
A proposito di canzoni, mi ricordo benissimo il clamore per Renzo Rubino che al Festival 2013 cantava Amami uomo/con le mani da uomo. Quest’anno, Rosa Chemical a parte, ci sono ben due canzoni in gara di donne che parlano d’amore per altre donne: Ariete e Shari. E nessuno fa, giustamente, una piega.
I look
Dicevo, ogni Sanremo ha i suoi trend. Quello di quest’anno contiene i seguenti elementi:
Glitter
Total white
Total black
Corsetti
Guardaroba di Hulk nell’ultimo episodio degli Avengers.
I glitter sono in naturale continuità con le edizioni precedenti: le luci dell’Ariston li valorizzano, quindi non è strano che molti artisti li scelgano. Se la performance non brilla, almeno loro sì. Il total black c’è chi lo fa bene (Elodie) e chi lo fa malissimo (Ultimo, che pare sempre che a venire a cantare ci stia facendo un favore), ma è la tendenza “tre bambini dentro un completo” che mi sta mandando ai pazzi. E capisco che sia comoda, meglio largo che stretto, ma appunto: sembra che tutti abbiano bevuto dalla bottiglietta con su scritto “Drink me”.
È arrivata quella brava
Il talento non si improvvisa. Ha bisogno di lavoro, certo, di pratica, di fatica: ma non si improvvisa e non cresce sugli alberi. La tecnica non può supplire del tutto alla mancanza di inclinazione, alla capacità di leggere i contesti con rapidità e rispondere a tono. Francesca Fagnani aveva già fatto intuire di possedere quelle capacità dalla direttezza con cui intervista gli ospiti di Belve, ma si sa che il palco dell’Ariston ammazza anche le più valorose.
Apro un inciso: chi è stato all’Ariston dice che il teatro in sé è minuscolo, non certo un palco vasto e terrificante. Se si riesce a dissociarsi dal fatto che milioni di persone in tutto il mondo ti stanno guardando (e per farlo è sufficiente focalizzarsi su quelle che hai davanti, che sono relativamente poche) non dovrebbe rappresentare un enorme problema per chi ha scelto il mestiere dell’intrattenimento.
Invece no, Sanremo uccide, terrorizza, fa impazzire e si finisce a dare calci ai fiori o a causare la fuga del proprio partner artistico dopo averlo fatto oggetto di una raffica di insulti nella prima strofa della canzone in gara. Sarà davvero il pubblico a casa? Sarà il terrore delle demoscopiche chiuse in una stanzetta? Sarà una profezia che si auto-avvera, i mesi e gli anni passati a sentirsi ripetere che Sanremo è un palco che distrugge i nervi e alla fine quando ci arrivi hai, in effetti, i nervi distrutti? O sarà che nelle prime file di Sanremo ci sono tutti i direttori, i capistruttura, le consorti e i figli dei conduttori titolari, tutti i notabili del sistema Rai che ti guardano e silenziosamente decidono del tuo futuro lavorativo, tipo colloquio di lavoro che dura cinque ore?
Vabbe’, insomma, Francesca Fagnani è venuta giù dalla scala, ha parlato (come tutte) della suddetta scala, da sempre grande metafora mai riconosciuta del divario di genere e delle maggiori difficoltà che le donne devono affrontare a parità di qualifiche e aspirazioni, e ha proceduto a divorare ogni minuto in cui è stata in scena. Anche l’obbligatorio monologo edificante della donna-ospite di cui dicevo ieri è stato un momento utile e bello, non aspirazionale ma educativo nel senso migliore del termine. Fagnani ha costruito una narrazione toccante e priva di melensaggini sui ragazzini detenuti nelle carceri minorili, usando le loro stesse parole. Scritto bene, letto per lo più benissimo (a parte un attacco un po’ debole), e soprattutto interessante per il pubblico.
L’altro monologo
A proposito di donne che si mangiano il palco, l’ingresso di Drusilla Foer durante il monologo dell’attivista italo-iraniana Pegah Moshir Pour è stato una bella sorpresa, perché Drusilla ha lasciato un’impronta indelebile sul festival 2022: la più brava era indubbiamente lei. È riuscita, tuttavia, a non usurpare il posto dell’ospite principale: la sua presenza ha dato profondità, stabilità e movimento drammaturgico a un momento difficile, che andava maneggiato con delicatezza. Le mani che si stringevano, gli abiti in palette, l’abbraccio finale: una messa in scena che per una volta è stata davvero commovente e comunicativa. Da sola sul palco, Pegah Moshir Pour rischiava di essere simbolica della donna oppressa di cui avere compassione senza esserne davvero coinvolti. Con Drusilla accanto è diventata una sorella, una figlia, un’amica. Insomma: due monologhi su due centrati significa che quando gli autori vogliono fare le cose per bene le sanno fare eccome, pur mantenendosi entro i parametri della liturgia sanremese.
Il monologo che invece non abbiamo capito
L’ingresso di Angelo Duro sul palco ha diviso il pubblico in due, fra quelli che lo conoscevano prima e si divertono ai suoi spettacoli e quelli che invece lo fissavano pensando “Non capisco”. Presentato da Amadeus come il comico scomodo, disturbante, che può scandalizzare chi si indigna facilmente, Duro sembrava uno di quelli che ogni tanto ti capita di incontrare a una festa, l’amico di amici che ti attacca i missili sugli uomini che devono fare gli uomini e le femministe che esagerano, e tu lo guardi ma per educazione non lo puoi mandare affanculo, e allora sorridi nervosa e cerchi di sfilarti prima possibile.
Era un problema di contesto? Chi segue Angelo Duro da tempo continuava a ripetere “Siete voi che non capite”, ed è sicuramente così. Non abbiamo capito. Se quello era il personaggio del brutalone da bar (un po’ come il Pojana di Andrea Pennacchi è il veneto grezzo e razzista, o il conduttore di Lundini gioca sull’imbarazzo e le frasi fatte), le battute mancavano della doppia lettura necessaria a renderle divertenti. Quando Checco Zalone canta Gli uomini sessuali, è chiaro che il bersaglio non sono le persone omosessuali ma la retorica pietistica che le circonda e che per molto tempo è stato l’unico punto di accettazione possibile (uomini soli perché “sono dei diversi”, come cantavano i Pooh). Il personaggio di Zalone diventa quindi quello dell’ignorante di buona volontà, che non si rende conto di come il suo approccio compassionevole sia di per sé manifestazione di omofobia.
Io ammetto che dopo un po’ ad Angelo Duro ho levato l’audio, perché se volevo un monologo di quel tipo mi bastava scendere al bar il martedì pomeriggio. Non faceva ridere, ma proprio che mancavano i tempi, i toni e le battute. Se l’obiettivo era divertire, e il bersaglio il brutalone da bar, non si è capito: che fosse un problema di contesto, di scrittura o di recitazione io non lo so, e forse non è nemmeno importante. Le cose devono funzionare nel contesto in cui si trovano.
In generale, oltre ai monologhi edificanti io forse abolirei anche i comici. Ma proprio tutti, non solo quelli che non si capisce cosa ci facciano lì. Piuttosto richiamate Blanco e Mahmood e fategli rifare Brividi o Il cielo in una stanza, mille volte meglio piangere che fissare lo schermo pensando “Maccosa?”
Una modesta proposta (in cui nessuno mangia nessun altro)
I have a dream: l’anno prossimo Andrea Delogu conduttrice principale, con Drusilla Foer, Paola Di Benedetto e Michela Giraud come cast aggiuntivo. Maschi anziani solo come ospiti, o a fare i pedagoghi. Non ditemi che non lo vedete. Io lo vedo. Oppure no? Se doveste ipotizzare una line-up di conduttrici, quale sarebbe la vostra scelta? Ditemelo nei commenti.
A domani, forse.
Giulia
Daniela Collu conduttrice principale con Michela Murgia e Drusilla Foer. Ospiti fisse Chiara Valerio e Maura Gancitano.
Io ci vedrei Carolina Di Domenico a presentare Sanremo!