È l’ultimo giorno, e come ogni anno l’ultimo giorno di Sanremo è quello in cui pensiamo “Ma chi me l’ha fatto fare”. Una settimana in cui noi forzati della visione dormiamo poco e mangiamo male, i nostri fitness tracker ci segnalano cali vertiginosi dell’attività, e negli anni buoni abbiamo tutta l’ormonella scomposta da questo o quel concorrente.
Il 2023 non è un anno buono: questo Sanremo n. 73 sarà ricordato come praticamente privo di ormonelle collettive. Certo, c’è Tananai con la cartola di un divo anni ‘40 ed Elodie che con mezzo movimento dell’anca inverte le polarità sessuali di mezzo paese, ma la tensione è bassa. La scuffia nazionale per il duo Mahmood e Blanco, che ci aveva fatti diventare tuttǝ un po’ Berlusconi, quest’anno non c’è. È il Sanremo della gente che si lascia, che contempla di lasciarsi, che rimpiange gli ex, che ritorna con gli ex dopo una crisi, e che lavora per non stare con te. C’è materiale per un saggio sull’onda lunga della depressione pandemica, forse, o forse è solo che quest’anno è andata così, e in top five c’è quello dei bambini con le ali. Intravedo della correlazione.
Le canzoni
La serata SIAE serata cover è stata… normale. Pochi guizzi, quasi tutti tecnici (Mengoni che AIEIIAIEEEEIAIAIEEEEEEEE col coro gospel, Giorgia con Elisa che facevano a gara a chi teneva le note più a lungo), una spruzzata di camp non troppo riuscito (Paola e Chiara, un po’ legnose nel loro medley di grandi successi), qualche versione onesta di pezzi storici come Via del campo e Vivere, una Quello che non c’è che sembrava un addestramento Jedi con il giovane Padawan gIANMARIA proteso ad assorbire la potenza del guerriero Manuel Agnelli, il Roma Capoccia Pride di Ultimo con Eros Ramazzotti, Colapesce Dimartino che si arrampicavano sulle poltrone della platea cantando Azzurro sotto lo sguardo divertito di Carla Bruni, e (me ne rendo conto, solo per me) i Colla Zio che facevano il balletto di Salirò con Ditonellapiaga, ultimi e consapevoli di esibirsi di fronte a un pubblico ormai stremato che non ha avuto nemmeno il tempo di votarli, ma evidentemente decisi a divertirsi.
Alla fine, come al solito, i momenti memorabili sono sempre gli incidenti stradali, Gianluca Grignani e Arisa che rotolano scomposti lungo Destinazione paradiso, lui che biascica lei che urla, scendono in platea, Arisa che tenta di far cantare il direttore di Rai 1 Stefano Coletta che la guarda fisso scuotendo la testa, e il tutto finisce con “Abbiamo fatto un casino, Gianlu’”, detto mentre la musica sta ancora andando.
E per finire, Carolina Crescentini mandata in cima alla scala al momento sbagliato, che rimane lì impalata in attesa che Amadeus abbia finito di parlare dei suoi follower come un’aspirante influencer quindicenne e si accorga di lei, se ne va e poi rientra come se niente fosse.
Questa sticazzi energy è quella di cui ho bisogno nel 2023.
L’inesorabile monologo
Erano quasi le due di notte, e da scaletta il monologo di Chiara Francini era stato programmato per l’una meno venti. Tardi comunque, ma ancora nei parametri di veglia. Per cui forse avevo sonno o forse non l’ho capito, ma ancora una volta sul palco di Sanremo è andato in scena un segmento che a seconda delle percezioni era la solita roba o una roba condivisibile e universale. Francini è brava: nulla da dire sulla confezione e la recitazione, si vede che quello è il suo mestiere e lo fa bene, e ho trovato stucchevole (tanto per cambiare) l’introduzione di Amadeus che pretendeva di riportare tutto a una forma di confessione, di racconto di sé. Quel monologo aveva la qualità dei testi teatrali, che possono essere recitati da chiunque senza essere per forza autobiografia, e Francini in quel momento non portava sé stessa, ma una forma di esperienza femminile condivisa.
Partiva bene, e per un attimo ho sperato nel miracolo, un momento in cui il tema della non-maternità (perché le donne, in questo paese di patriarchi, sono sempre madri oppure non-madri: la maternità è l’imprescindibile femminile) venisse affrontato con autentica ironia, non stando sulla difensiva o con dolore, ma andando all’attacco dell’idea che essere madri sia un’esperienza che si fa o di cui ci si priva, e che non può non essere contemplata senza sofferenza. “La gente incinta è violenta”, dice Francini, e io penso a quanto è vero, a come le gravidanze vengano usate come arma contundente contro le donne, soprattutto nelle famiglie. “E tu, un figlio, quando lo fai?” è la domanda che ci viene fatta più spesso, e “Mai” è considerata una risposta tranchant, violenta, estremista. Si può sapere con certezza di non voler scalare il K2, ma non di non volere figli: e il K2 è meno faticoso.
Invece no, alla fine il monologo finiva lì, sul sentirsi “una donna di merda” perché non hai figli, non sei sposata e non sai cucinare (e lì, confesso, ho pensato: vabbe’, dai, una su tre ce l’ho, l’esame di donnità forse lo passo). Ed è vero, succede. Solo che ci sono, come al solito, contesti e contesti: e se quel monologo fosse stato inserito nel contesto più ampio di uno spettacolo teatrale o di uno speciale di cui Francini fosse protagonista, sarebbe stata l’arte da lei prodotta a parlare. L’interrogativo sulla maternità sarebbe stato incluso in un meta-discorso più ampio di affermazione di sé oltre la maternità. Invece quel momento di senso di colpa e desiderio irrisolto è stato sbattuto alle due di notte di un programma gestito e condotto da una squadra di maschi anziani che chiamano le donne “compagne di viaggio” e “co-conduttrici” per ricordarne il ruolo ancillare, la presenza come ospiti e non come pari, e che le obbligano a questi momenti di auto-analisi edificante, con o senza pianto incorporato. Il momento di Francini sola sul palco è arrivato dopo un’ora e mezza in cui era sparita, e lo spettacolo era andato avanti senza di lei. Più che una presa di coscienza, sembrava un’ammissione di colpevolezza, una richiesta di resa: fate figli, donne, se no ve ne pentite. Fate figli, tanto non c’è scampo. Non ci sarà mai spazio nel mondo per voi che non sia quello della maternità. Arrendetevi.
Ci risentiamo domani per un bilancio complessivo, perché Sanremo è Sanremo.
Giulia
“Questa sticazzi energy è quella di cui ho bisogno nel 2023.” Questa frase è propria da mettersela sulla pelle
Belle queste tue analisi: ti sacrifichi per tutti noi. Grazie.