Una questione di opportunità
Questa settimana: cibo e politica, politica e politica, film e politica, e le solite date
Che hai fatto, nel fine settimana scorso? Hai mangiato? Cos’hai mangiato? Se da un lato siamo tutti d’accordo e non è una cosa proprio nuovissima che gli italiani si ritrovino intorno al cibo, ultimo bastione identitario e ora, purtroppo, pure ideologizzato da una destra incapace di fare altro che irrigidire i confini della sua evoluzione, è anche vero che la domanda “Cos’hai mangiato?” alle feste penso la facciamo solo noi. O quasi. Gli americani magari si trovano per Pasqua per la egg roll o quello che è, ma “Cosa avete mangiato?” è una domanda proprio italiana, perché quello che mangiamo noi qui nel Lazio non ha niente a che vedere con quello che mangiano i miei in Friuli o in altri posti, e in media ci interessa moltissimo sapere cosa c’era sulle tavole degli altri. Ogni regione ha le sue tradizioni, e confrontare i menu è una cosa normalissima, fonte di ispirazione e sperimentazione. È davvero una tragedia che il governo stia cercando di far fuggire il divertimento anche da questo, trasformando il cibo da godimento collettivo a serissima battaglia in cui non c’è niente da ridere. Poi si lamentano che i “loro” artisti non hanno spazio nelle manifestazioni: te credo. Sono mortaccini pure quando parlano de magna’.
Un momento di sconforto più o meno condivisibile
Cerco di rifuggire il qualunquismo in politica. La frase “sono tutti uguali” mi desta un moto di irritazione, perché non solo non è vera - non sono tutti uguali: gli esseri umani non lo sono, i politici nemmeno - ma è anche autoassolutoria. È un modo per dirsi che non vale la pena seguire la politica, farsi un’opinione, andare a votare in maniera consapevole, tutte azioni che richiedono sforzo, pensiero, ragionamento, attenzione. Ci sono politici buoni, medi, cattivi, pessimi, come in ogni cosa. Ci sono politici onesti, altri meno. Politici che ci provano, e scaldasedia che non hanno un solo pensiero originale ma sono fedeli al capo e obbediscono agli ordini di scuderia senza fare questioni. La scelta dovrebbe dipendere da noi, e invece non è così, o comunque non lo è quasi mai.
È difficile, quindi, che io mi senta del tutto avvilita dalla politica, anche quando butta male e chi vince dimostra di non avere la più pallida idea di come si faccia a governare. Perché penso sempre che la democrazia sia anche questo, anche gente che vince senza sapere che fare, soprattutto da quando l’antipolitica è diventata a sua volta politica, con il Movimento 5 Stelle che arriva in Parlamento dopo essere stato a lungo un movimento, appunto, contro la politica e contro il sistema dell’informazione. Poi c’è stata la pandemia, erano al governo, hanno dovuto gestire una situazione molto più grande di loro e hanno imparato a fare i conti con la realtà. I danni che hanno fatto, però - e i danni che ha fatto Silvio Berlusconi prima di loro, e ancora prima la politica perversa e oscura dei grandi partiti post-bellici - rimangono.
Mercoledì scorso è stato uno di quei giorni in cui mi sono davvero sentita depressa e demotivata. Uno di quei giorni in cui ho pensato: ha ragione chi non vota più, questo paese non sa cosa sia l’etica. È stata una doppietta micidiale: prima Augusta Montaruli, condannata in via definitiva per peculato, nominata vicepresidente della Commissione Vigilanza della Rai dopo le dimissioni da sottosegretaria. In pratica, l’hanno premiata per aver rubato alla Regione Piemonte. Non grandi cose, eh, una lista della spesa mestissima: ninnoli, borsette, un depilatore, un CD di Michael Bublé. Oggetti da mediona, come sembra proprio essere lei, che non brilla in alcun modo che non sia la sfacciataggine con cui veleggia di incarico in incarico senza esibire competenze di rilievo. Ed eccola lì, a vigilare sul bilancio delle reti nazionali in una commissione guidata da Barbara Floridia, quella dei 5 Stelle, a loro volta quelli che si sono fatti largo al grido di “Onestà! Onestà!” Come si cambia per non morire, cantava Fiorella.
E mentre stavamo ancora parlando di Montaruli - che non è una questione di forma, è una questione di sostanza: se Montaruli non è al gabbio è perché gli incensurati condannati a pene sotto i tre anni non ci vanno, e vivaddio, perché il carcere è una merda, ma manco a fa’ così - ecco che arriva la notizia che Matteo Renzi è il nuovo direttore de Il Riformista, e io penso: è uno scherzo. Un leader di partito e senatore della Repubblica non dovrebbe diventare direttore di un giornale che non sia esplicitamente un organo di partito. Non è illegale, ma fa trasparire un conflitto d’interessi evidente: è una questione di opportunità, di credibilità sua e della stampa, soprattutto a valle del fatto che il senatore in questione ha ricevuto compensi (pubblici e documentati) da un monarca assoluto accusato di fare a pezzi i giornalisti dissidenti. Ma a Renzi non importa, è evidente, come non importa ai suoi fedeli, che E ALLORA TRAVAGLIO! (che non è in Parlamento) E ALLORA BERLUSCONI! E ALLORA FELTRI! (se questi sono i tuoi benchmark dell’etica, be’, che ti devo dire) E ALLORA VELTRONI E MATTARELLA! (che dirigevano organi di partito dichiarati e ufficiali: una distinzione che sembra sfuggire a molti).
Ma soprattutto non importa al suo alleato principale, Carlo Calenda.
Come direbbero gli americani: so much to unpack, here. La definizione operativa di “cooptazione”, per esempio, con cui un uomo di potere si assicura che alla guida di un partito ci sia un fedelissimo, o in questo caso, una fedelissima (non che Renzi abbia moltissima scelta, il partito non è grande o mobile abbastanza da avere delle correnti interne, ma si tratta comunque di una nomina dall’alto). L’uomo di potere che fa mostra di farsi da parte per spostare la sua influenza altrove. E il suo sodale che lo appoggia, dimostrando di condividere la stessa spregiudicatezza (anche se non proprio la stessa abilità politica, come abbiamo avuto più volte modo di sospettare).
Sono avvilita, sì, perché la barra è sempre più bassa, ed è sempre più difficile dimostrare che la società è migliore della gente che arriva a dirigerla. Sarebbe abbastanza facile liquidarla con un “Che ti aspetti da [inserisci persona o partito]”. Io non mi aspetto niente dai singoli, ma dalla collettività sì. Mi aspetto che esista una cosa che si chiama “senso dell’opportunità”, mi aspetto che esistano l’etica e l’onestà intellettuale. Mi pare il minimo. Invece forse devo arrendermi davanti all’evidenza. Renzi e Montaruli sono espressione di una mentalità opportunistica, in cui ognuno pensa per sé, senza curarsi di come le sue scelte ricadono poi sull’immagine delle istituzioni e sulla percezione di correttezza del dibattito pubblico. Come si risolva questa cosa non lo so, forse sono solo stanca, o forse non si può proprio risolvere.
Lo scoramento e la sfiducia non arrivano da un giorno all’altro, per un episodio solo o per due o per tre: crescono e si costruiscono nell’arco di decenni, colpo dopo colpo, furbata dopo furbata. Una piccola violazione dietro l’altra, a gravità crescente, perché tanto cosa vuoi farci? L’opinione pubblica non conta niente. Quelli che protestano sono gufi, rancorosi, aggressivi, capaci solo di insultare. La delegittimazione delle critiche, anche quando sono argomentate, è gioco facile per chi ha il potere. Non si deve nemmeno sporcare le mani, ormai può semplicemente scioglierti i cani.
Di una cosa sono sicura, però: la distruzione della fiducia nella politica e nell’affidabilità delle istituzioni non ha un solo responsabile, ne ha molti, e ognuno di quei responsabili ha un nome e un cognome. Ogni volta che quella lista si allunga, si accorcia il numero di persone disponibili a credere nel futuro.
E questo va bene. Non per noi, ma per chi ha interesse a farci perdere la speranza nel cambiamento. Chi ha deciso che la tattica da usare è farci sentire impotenti e stanchi, demoralizzati, a terra. Il governo Meloni sta andando in quella direzione, con arroganza, in maniera deliberata. Ogni provvedimento preso fino qua, ogni nomina, ogni decisione è un segnale in quel senso: reprimeremo ogni forma di dissenso, lo renderemo vano, quando non proprio illegale. Niente feste, arresto immediato per chi protesta con l’accusa di danneggiamento di beni pubblici, e per il resto facciamo come ci pare. Ci stanno riuscendo, io sono davvero stanca, davvero demotivata: ma anche l’impotenza, se compressa a lungo, diventa un’energia. Forse non sarà la mia generazione a fare lo scatto della rivolta: siamo ancora e per sempre traumatizzati dal sangue della Diaz. I più giovani non sanno quasi nulla di quell’orrore, e forse non si fermeranno: ma non lamentiamoci quando ci lasceranno indietro.
A proposito di gente lasciata indietro
Non ho molto da dire sulla composizione della segreteria del Partito Democratico, dato che conosco personalmente una bella fetta di ministri ombra e qualunque mio commento sarebbe colorato da questo fatto (si chiama “pregiudizio di conferma”, non sono così ottusa da pensare di non esserne affetta o così disonesta da fingere che non esista). Però non posso fare a meno di commentare le rimostranze dei componenti storici del partito verso una composizione che, a loro dire, non riconoscerebbe la pluralità di posizioni. Fra tutti, menzione d’onore ad Andrea Marcucci, che da almeno una decina di giorni dice che se ne vuole andare e invece sta sempre davanti alla porta. Nel Regno Unito, per un periodo, lo chiamavano “Brexiting”.
Amici e amiche che vi sentite non riconosciuti da questa tornata di nuove nomine, perdonatemi ma: per dirla brutta, finora avete fallito. Niente di personale, è un dato oggettivo, osservabile. Farsi da parte non è solo giusto, è necessario, per il motivo che citavo qua sopra. Il ricambio è necessario, e comunque le persone scelte sono quasi tutte sopra i quarant’anni (se non proprio tutte, non ho controllato). Quanto ancora dovrebbe aspettare, la mia generazione, per diventare grande? E i Millennial, che ormai hanno quarant’anni pure loro? Quanto tempo, ancora? E quanto tempo ci vorrà per la Generazione Z, ormai da un pezzo maggiorenne?
Lo sguardo degli uomini
In questo weekend di Pasqua abbiamo recuperato L’incredibile storia dell’Isola delle Rose su Netflix. Io avevo voglia di commedia, e cosa c’è di meglio di un film basato su fatti storici avvenuti nell’Italia degli anni ‘60 in cui nessuno muore male?
Io un po’ odio Sidney Sibilia, e un po’ lo amo, e qui di seguito spiegherò perché. È abbastanza semplice: ho visto quasi tutti i suoi film (mi manca Mixed by Erry) e mi sono sempre divertita moltissimo. I tempi comici, la regia, i colori, funziona tutto. La serie di Smetto quando voglio mi ha fatto crepare dalle risate.
Eppure. Eppure.
[Gente che si prepara alla tirata femminista come all’atterraggio su un aereo privo di carrello anteriore, brace for impact, mani sulla testa e posizione a uovo]
Quanto può essere irritante che nel mondo di Sibilia (inteso come regista e portatore di una visione coerente di opera in opera) i simpatici scavezzacollo che infrangono le regole senza infrangerle, diciamo più che le aggirano (Emiliano dice che Sibilia fa solo film “su cavilli legali”) e per questo fanno scapocciare le autorità, che non possono legalmente arrestarli ma allo stesso tempo non possono tollerare l’infrazione, siano tutti, ma dico tutti tutti tutti sempre e solo maschi?
Nel Sibilia Cinematic Universe, le donne hanno sempre e solo due funzioni: affettiva (sono le mogli, le amanti, le familiari) o normativa (rappresentano l’ordine costituito, la norma, il realismo, la società com’è e non come potrebbe essere). Molto spesso, queste due funzioni confluiscono una nell’altra: le mogli e le fidanzate sono serie, responsabili, hanno la testa sulle spalle e vivono le scelte dei loro compagni con rassegnata esasperazione. Se sono coinvolte, disapprovano. Se non lo sono, vanno su tutte le furie ma si rassegnano, perché l’amore per quei mattacchioni va oltre le giuste preoccupazioni per il futuro. Insomma, le donne nell’SCU (ess-cee-you) sono una noia mortale.
La storia dell’Isola delle Rose contiene esattamente tre donne, di cui una sola con più di dieci battute (Gabriella, la seria avvocata e docente di cui Giorgio Rosa, il costruttore e presidente dell'improvvisata isola al largo della costa romagnola, è innamorato). Nel film, giuro, Gabriella potrebbe non esserci. Non influisce sulla trama, fornisce informazioni che Giorgio e i suoi soci avrebbero potuto reperire in una biblioteca, non partecipa alla costruzione dell’isola o alla sua costituzione in Stato. È lì in rappresentanza dell’amore romantico: un ruolo per cui non serviva scomodare Matilda De Angelis, che è davvero troppo brava per essere soltanto quella che si arrende di fronte al potere della fantasia. L’altra è Franca (interpretata da Violetta Zironi: quella che ci era piaciuta tanto ai casting di X Factor con le sue cover di pezzi bluegrass ed era stata poi uccisa, dal punto di vista artistico, da una scelta di pezzi che avrebbe voluto normalizzarla, ma è un’altra storia). Franca è una ribelle, incinta di non si sa chi e neanche le interessa saperlo, e sull’isola trova un rifugio, ma anche lei potrebbe non esserci. Un personaggio di contorno, soprattutto se rapportato a Rudy Neumann, il tedesco reso apolide dalla diserzione e interpretato con grande vivacità e straordinari baffi da Tom Wlaschiha (meglio noto ai fan di Game of Thrones come Jaqen H’gar). Rudy giganteggia, Franca - dopo una prima scena introduttiva in cui compare da sola - è sempre e solo marginale.
Se prima non ci fossero stati gli Smetto quando voglio uno due e tre, si potrebbe pensare a un caso. Invece no, è proprio un modo di vedere il mondo e le donne: l’inventiva è maschile, le donne sono il controllo a cui ci si ribella. Non è con loro che siamo portati a simpatizzare, o sarebbe tutto un altro film, né si concepisce che possano essere le donne il motore di una ribellione fuori dalle righe. Per quanto questi film possano divertirmi, non posso fare a meno di pensare che siano stati scritti, diretti e girati per qualcuno che non sono io.
(E sì, lo so che avevo detto “film e politica”, ma anche il modo in cui guardiamo le donne - e le donne guardano sé stesse - è politica.)
Allora, ci vediamo?
Le date sono le stesse della settimana scorsa. Ce ne sono altre, ma sono più in là e ho anche meno dettagli di queste, quindi ci aggiorniamo.
Il 20 aprile, all’ora dell’aperitivo, sono da Mademoiselle Vintage sempre a chiacchierare, di libri ma anche di altro. Intorno a noi ci saranno le selezioni di Chiara, vi sfido a uscire a mani vuote (io non ci riesco mai).
Il 21 aprile sono a parlare di Scintilla nel buio alla Casa delle Donne di Terni (dettagli da confermare).
Il 22 aprile sono all’International Journalism Festival di Perugia, per un panel che in origine avrebbe parlato di aborto, ma che abbiamo aggiornato per ampliare il tema. Toccherà parlare anche della storia della Mangiagalli, sulla quale forse tornerò a breve, perché ho delle cose da dire che hanno bisogno di spazio.
Buona settimana corta!
Giulia
In merito alle reazioni su Renzi: temo che Berlusconi, sul conflitto di interessi, abbia alzato l'asticella fino all'inverosimile. Dopo Berlusconi, purtroppo, facciamo seriamente più fatica a scandalizzarci e se ci scandalizziamo, dobbiamo pure sentirci fortunate, perché significa che il nostro giudizio non è stato offuscato.
In merito al pezzo su Sibilia, lo scopo finale del testo qual è? Mi sfugge