L'importanza di farsi capire
Questa settimana: tre punti di vista diversi sulla qualità delle parole che usiamo.
A Pisa, lo scorso fine settimana, ho rivisto
dopo un sacco di tempo che non succedeva di incontrarsi di persona. Abbiamo pranzato insieme in un posto molto buono e ci siamo raccontate un po’ di vita, poi - come facciamo sempre - siamo finite a parlare di cose più astratte, teoriche, confrontandoci su temi che avremmo dovuto portare nei nostri incontri pubblici. Alla fine sono andata a sentirla parlare di intelligenze artificiali, e ancora una volta ho capito perché è così brava: perché non smette mai di osservare gli esseri umani e di provare a capirli, e a raccontarli con una chiarezza e una levità che sono davvero rare.La sua ultima newsletter, fra le altre cose, contiene il link a un… articolo? Post? Come si chiamano le singole unità di una newsletter? di Enrica Cariello che parla dell’utilità della nullafacenza. In qualità di Sacerdotessa Suprema della Pigrizia, pensavo di potermi crogiolare nella consapevolezza che quando non faccio un cazzo non faccio veramente un cazzo, ma mi sbagliavo. Leggendola, ho dovuto ammettere che io faccio cose anche quando non faccio niente. Guardo serie, ascolto podcast, riempio ogni spazio di attività non mentale con altre attività mentali. Non so se sono più capace di annoiarmi come si deve, e ho una grandissima paura di provare a farlo.
Non trasformiamo il femminismo in un culto
Quello che segue non ha un’origine specifica. Non nasce da episodi di attualità o da polemiche social. Nasce piuttosto dalla mia nota passione per i culti distruttivi, e la costanza con cui mi documento sul loro funzionamento. I culti e le sette funzionano tutti esattamente allo stesso modo, nel senso che ci sono delle componenti specifiche che uniscono Heaven’s Gate al Peoples Temple a Damanhur a The Family fino a Un Punto Macrobiotico, caratteristiche che si ripetono e che rendono l’adesione a queste organizzazioni pericolosa per gli adepti e a volte anche per la popolazione generale. Fra chi spilla soldi alla gente facendosi passare per la reincarnazione di Gesù e chi butta gas nervino nella metropolitana di Tokyo, come i membri di Aum Shinrikyō, passa una bella differenza.
Una delle caratteristiche che accomunano questi culti distruttivi è la presenza di un linguaggio settario molto specifico, condiviso e adottato dagli adepti e utilizzato per normalizzare e ritualizzare le consuetudini più problematiche. A volte si tratta di termini e definizioni inventate per conferire un senso di legittimità scientifica a pratiche che di scientifico non hanno niente (l’auditing di Scientology, per esempio, o la cosiddetta “liberazione dalla materialità” con cui nella comunità Il Forteto si giustificavano gli abusi sessuali) e a volte sono termini di uso comune che vengono ri-significati nel contesto della setta (rimanendo nel caso Forteto: i “chiarimenti”, veri e propri processi pubblici con cui si mirava a distruggere la psiche del singolo ribelle).
La “precisione di linguaggio”, per citare The Giver di Lois Lowry, è considerata indispensabile all’interno delle comunità chiuse per mantenere l’ortodossia del pensiero, e crea un effetto di assoluta incomprensibilità per chi non le frequenta. Ci penso ogni volta che in un incontro pubblico dico la parola “eterocis”, che nel dizionario non esiste ma è di uso comunissimo negli ambienti femministi, e mi domando: a qualcuno serve che la spieghi? Se la pronuncio davanti a mio padre, che quest’anno compie 78 anni e si informa sui canali di all news, sa di cosa parlo? La risposta è: no. Serve una spiegazione. Non è la parola in sé il problema: è il contesto in cui la utilizzo. Mi ricordo ancora un intervento fatto in una grande azienda, in cui la parola “cisgender” sollevò un mormorio diffuso che presi per scandalo, e invece era solo che la stavano cercando in rete. Non l’avevano mai sentita prima.
Eterocis, TERF, incel, AFAB, transfemminismo, soggettività, gatekeping, tone policing, intersezionalità dell’oppressione, ne dico solo alcune a ruota libera fra quelle che mi vengono in mente e che uso abitualmente in una discussione con altre femministe e anche in questa newsletter (che essendo online è a due clic da una ricerca su Google, volendo). Già quando vado in pubblico mi domando: ma la gente mi capisce? Devo dare due spiegazioni in più? Posso aggirare un termine che potrebbe creare una barra all’ingresso, usando altre parole per rendere il concetto comunque accessibile? Per molto, moltissimo tempo i femminismi sono stati ambienti chiusi, elitari, a cui si poteva accedere solo a patto di parlare la stessa lingua di chi li abitava. A un certo punto era pure diventata una questione di anzianità (non dimenticherò mai la volta in cui una femminista di seconda ondata mi domandò dov’ero io nel 1976 quando loro facevano le marce, e la risposta era “Alla scuola materna ‘Maria Montessori’ di Pordenone, affidata alle cure della mia amatissima Suor Caterina”). Poi per fortuna ci siamo costruite i nostri spazi e una nostra legittimità, ma ora anche quegli spazi rischiano di diventare respingenti, viziati da dinamiche di micropotere e mai veramente aperti a chi, anche in maniera maldestra, prova a unirsi a una lotta che non può lasciare indietro proprio nessuno.
Non sto parlando di chi proprio non vuole capire, di chi fa resistenza, dei cinquanta-sessantenni maschi che quando ti beccano in pubblico protestano perché all’incontro non si potevano fare domande perché loro “avevano una provocazione da lanciare” (magna tranquillo), o di quelli che, potendo intervenire, si affannano a negare tutto quello che hai detto e che è la tua esperienza diretta di vita, solo perché non coincide con la loro o con quello che si sono sentiti dire dalle donne che li circondano. Non parlo di queste ottusità deliberate, ma piuttosto di persone che sarebbero pure d’accordo, ma non hanno capito che cazzo hai detto.
È ovvio: ogni circolo ristretto finisce per diventare una camera chiusa in cui ci si scanna per l’ossigeno, e i femminismi non fanno eccezione. Anche perché esistono pur sempre all’interno della macrostruttura del patriarcato, che premia la conflittualità e la divisione fra soggettività che sono condizionate a pensare che il potere, il poter contare, siano l’unica via per la sopravvivenza individuale. Ci sono le lotte da pollaio sui social, la pretesa della purezza, il mio femminismo è più grosso del tuo, e perché non parli di questo, e tu vuoi guadagnare con il femminismo, cose in grado di esaurire anche la più pacata ed equilibrata delle attiviste. Come se l’obiettivo di una pratica politica che per natura è collettiva fosse di tenere fuori da questa collettività più persone possibile (e il risultato paradossale è che le istanze vengono addossate a poche voci visibili e note, a cui viene affidata la responsabilità di dire le cose giuste anche quando sono lontane da ogni pratica femminista, perché l’organizzazione della protesta vera e propria sembra impossibile). Infine, la raccomandazione di separarsi, allontanarsi, cessare i rapporti con chi non condivide le tue idee o non le comprende, una spinta all’isolamento che io lo dico, è un attimo che diventi Eugenia Roccella, che da quando è ministra ha scoperto che nel mondo esiste anche la dialettica politica, ma lei non la sa affrontare.
Vabbe’, era per dire: apriamo tutto. Spalanchiamo. De-mistifichiamo. Qualcuno dirà cazzate, qualcun altro dirà cose giuste nel modo sbagliato, non fa niente, si va avanti. Lo raccomanda anche il nostro Genitore 1 Judith Butler, unə dellə rarə filosofə ad avere ammesso che le posizioni sul genere come performance che l’hanno resa celebre dovevano essere riviste alla luce della sua identità non binaria. Da un’intervista pubblicata sul New York Times quest’anno, in occasione della pubblicazione del suo saggio Who Is Afraid of Gender? (La traduzione è nelle note a pie’ di pagina.)
My version of feminist, queer, trans-affirmative politics is not about policing. I don’t think we should become the police. I’m afraid of the police. But I think a lot of people feel that the world is out of control, and one place where they can exercise some control is language. And it seems like moral discourse comes in then: Call me this. Use this term. We agree to use this language. What I like most about what young people are doing — and it’s not just the young, but everybody’s young now, according to me — is the experimentation. I love the experimentation. Like, let’s come up with new language. Let’s play. Let’s see what language makes us feel better about our lives. But I think we need to have a little more compassion for the adjustment process1.
Io non penso che Judith Butler sia Dio. Penso che sia una persona trans che ha attraversato molte fasi della sua identità e ha ragionato molto sul valore della comunicazione, delle parole e dell’azione collettiva. Se Judith Butler mi dice di non essere la polizia, io le do retta. Applico l’elasticità, a seconda dei contesti e della rilevanza del messaggio2.
Ricordiamoci che anche quando diciamo cose giustissime dobbiamo renderle comprensibili a chi ci ascolta, perché se no lo perdiamo; e che le persone, soprattutto quelle che non hanno fatto i nostri stessi percorsi, faticano ad adattarsi a una nuova percezione della realtà. Calma e pazienza. E facciamoci capire.
A proposito di farsi capire
Sto leggendo (finalmente) Ricordatemi come vi pare di Michela Murgia, che… non è proprio un libro di Michela Murgia, anche se porta il suo nome, le parole sono le sue e il suo modo a tratti poetico e visionario di descrivere la realtà risplende fra le righe. È lei: ma allo stesso tempo non è lei, nel senso che dietro gran parte di questo libro non c’è l’atto a lei abituale della scrittura, ma quello del racconto orale. Se Michela Murgia è diventata Michela Murgia e resterà per sempre Michela Murgia è proprio in seguito all’atto fisico, materiale e intellettuale, della scrittura, della composizione della sintassi, dell’organizzazione del discorso. Qualunque fosse il mezzo che sceglieva, il suo lavoro non era mai frammentario. Questo libro lo è, inevitabilmente, perché è uscito postumo: il flusso del racconto non è davvero il suo, è quello deciso da Beppe Cottafavi, il suo editor in Mondadori, e per questo ha un sapore diverso. È una ricetta con gli stessi ingredienti di un’altra, ma cucinati in maniera del tutto differente.
Detto questo: è comunque consigliatissimo. Uno, perché l’intelligenza di Michela è la stessa in ogni forma. Due, perché contiene un dettaglio interessante e che ci costringe a rimodulare il dibattito sulle identità queer e sul diritto di utilizzare la qualifica. Nel libro, Michela si identifica come donna bisessuale: un elemento della sua identità che non aveva mai messo al centro del discorso politico che la riguardava, ma che fa perdere un bel po’ di validità alle critiche sul suo utilizzo della parola “queer” per definire la sua specifica formazione familiare. Michela era una persona queer: aveva, in un certo senso, diritto a usare quella qualifica nel suo vissuto e per raccontare una famiglia d’elezione che somiglia davvero moltissimo a quella delle House raccontate da Pose e Paris Is Burning. Michela era a tutti gli effetti una House Mother. La domanda é: chi non si dice queer ma pratica la queerness nella vita, deve davvero passare per l’autodefinizione? È una domanda aperta.
Le date
Lo sciopero generale del 18 ottobre mette a rischio l’incontro organizzato da Gaypost proprio per parlare di Michela Murgia, per cui queste sono, con le cautele del caso:
17 ottobre: Roma, presentazione de L’età verde di Francesca Torre e Sara Malucelli alla Libreria Risma
19 ottobre: Firenze, Le Murate - Festival della transizione ecologica, ore 17.30-18.30
25 ottobre - Bari, Storytelling Festival
26 ottobre: Pordenone, Sala Capitol - Climax
27 ottobre: Portogruaro (VE), Libreria Mondadori, firmacopie in cui per ogni libro acquistato (anche non mio) mi puoi fare una domanda.
Ci vediamo in giro, treni permettendo.
Giulia
“La mia versione di una politica femminista, queer e che riconosca le persone trans non ha a che vedere con una forma di controllo poliziesco. Non penso che dovremmo diventare la polizia. Io ho paura della polizia. Ma penso che molta gente sia convinta che il mondo sia fuori controllo, e che l’unico aspetto su cui può esercitare un controllo sia il linguaggio. E mi sembra che sia qui che arriva alle posizioni morali: Chiamami così. Usa questo termine. Accettiamo l’uso di questo genere di linguaggio. Quello che mi piace di più di come agiscono le persone più giovani - e non sono solo quelle giovani, ma tutti sono giovani, ormai, dal mio punto di vista - è la sperimentazione. Adoro la sperimentazione. Cioè: inventiamoci parole nuove. Giochiamo. Cerchiamo di capire se questo modo di parlare ci fa vivere meglio. Ma penso che dobbiamo essere più accoglienti nella gestione dei processi di adattamento.”
Per questo tendo a essere più rigida sulle formulazioni dei titoli e dei contenuti presenti sui media nazionali, che facendo cultura devono prestare più attenzione all’accuratezza del linguaggio. Non mi faccio certo partire un embolo per ogni affermazione un po’ sbilenca.
Questa cosa del farsi capire (nel mio caso soprattutto da maschi bianchi di mezza età) è precisamente il motivo per cui do un largo spazio al glossario nella newsletter. Alla fine ho visto che è anche una delle cose più apprezzate. È sicuramente importante far passare certi termini nel discorso comune, perché indicano con precisione quelle cose lì, quelle di cui vogliamo parlare e su cui vogliamo puntare il dito. Alla fine molte persone (un po' come mio figlio che però ha 11 anni e già da questo punto di vista lo prenderei a ceffoni) ritengono che se una parola non l'hanno mai sentita, allora non esiste. E di conseguenza anche la cosa che quella parola indica.
Grazie di aver incluso Chissenenfrega! 📩❤️