La legge sul femminicidio non serve a niente
Il governo Meloni vara l'ennesimo provvedimento simbolico che non risolve il problema che dovrebbe affrontare.
La replica di Brutta ad Arsoli è stata rimandata a data da destinarsi, e potrebbe essere anche una delle ultime in cui salgo sul palco per quel momento di cazzeggio e terapia di gruppo che è il Q&A post-esibizione, almeno per un po’. Alle prossime due già confermate (L’Aquila e Gozzano - vedi sotto) io non ci sarò, e comincio a sentire che lo spettacolo, dopo un anno di tour, ha davvero ingranato. Le quattro repliche sold out a Roma hanno avuto un seguito, un’altra replica sold out giovedì 13, un’altra serata caldissima in cui ho avuto la solita esperienza extracorporea di sentire la gente che rideva per cose che avevo scritto io e che si commuoveva con il racconto di uno dei miei traumi originari. Ma soprattutto, ho visto Cristiana strappare applausi a scena aperta a ciclo continuo, tanto che non riusciva a chiudere le battute. Brutta è tanto una creatura sua quanto mia. Lo è sempre stato.
Mancano ancora poche repliche, poi forse ci si ferma per un po’1. Non ve le perdete:
30 marzo - L’Aquila, Teatro dei 99
11 aprile - Gozzano (NO), Sala Somsi
Nel frattempo, il mio MacBook è ancora prigioniero dell’assistenza Apple, e lo sarà ancora non si sa fino a quando, dato che ha manifestato problemi che non avevo previsto e i componenti che servono per rimetterlo insieme non sono ancora arrivati: sto quindi scrivendo questa newsletter non dall’iPad (che mi stava tirando scema) ma dal vecchissimo iMac che troneggia in camera da letto, inutilizzato da anni e del tutto obsoleto, tanto che non si può manco aggiornare il sistema operativo, quindi nemmeno il browser, e a catena non funziona niente. Le riflessioni sull’obsolescenza programmata si scrivono da sole. Venerdì sera alle 19.30 devo essere a San Vito al Tagliamento per la presentazione di Cose mai successe all’ARCI Cral: accetto preghiere, scongiuri, riti propiziatori perché il mio povero computer mi venga restituito per tempo, rinnovato nella forma come la nave di Teseo ma immutato nella sostanza dei dati che contiene.
Ma veniamo a noi.
Una lettura fine di mondo
Se proprio bisogna leggere un pezzo di commento sul clima in cui viviamo, che sia questo di Matteo Pascoletti per Valigia Blu, che fa eco a una cosa che dicevo in maniera molto più rudimentale qualche settimana fa sulle guerre culturali.
Una legge per le morte
Stare appresso alla cronaca è impossibile e forse pure vano: ne succede una al giorno. Però di tutti gli appunti mentali che mi ero fatta nella settimana appena trascorsa, ce n’è uno che dopo le iniziali perplessità mi pare sia scorso via, senza dare vita a un vero e proprio dibattito, e mi è rimasto in testa. Merito anche della frase che lo sintetizza: il disegno di legge che mira a introdurre il reato di femminicidio nel nostro ordinamento conferendogli una forma di autonomia giuridica è una legge per le morte, non per le vive. Punisce in maniera più grave il femminicidio, ma non fa nulla, niente, per contrastare o prevenire la cultura della violenza da cui scaturisce.
Partiamo da un presupposto che è da tempo assodato: il governo Meloni disconosce l’esistenza del patriarcato e la matrice culturale delle violenze. Ogni femminicidio, nella visione conservatrice, fa storia a sé: ogni uomo ucciderebbe, quindi, per motivi diversi, senza che alla base di quell’atto di violenza ci sia una diffusa acquiescenza della società nei confronti della violenza maschile2. Questo rende i femminicidi inevitabili: disconoscendone i tratti comuni (l’intolleranza per la libertà di una donna che si considera una proprietà privata, la rabbia per l’offesa arrecata alla propria maschilità da una rottura, la misoginia, ecc.), si disconosce anche la possibilità di agire sull’educazione delle persone, e in particolare dei maschi di ogni età, che rappresentano la stragrande maggioranza delle persone denunciate per reati violenti e che sono incoraggiati fino dalla più tenera età a mostrare aggressività in ogni lato dell’esistenza come prova della propria dignità di appartenenza al genere.
La prevenzione dei femminicidi è costosa, perché obbliga i governi e le amministrazioni locali ad agire su più fronti: quello educativo (con l’introduzione dell’educazione sessuale, affettiva e relazionale nelle scuole di ogni ordine e grado, ovviamente con un linguaggio e dei temi appropriati a ogni fascia d’età), quello della formazione delle forze dell’ordine, che troppo spesso sono impreparate o indisponibili a fornire assistenza a chi denuncia, e quello delle strutture e delle case-rifugio. I tribunali vedono addirittura tirare in ballo la fantomatica PAS, Parental Alienation Syndrome, come scusa per costringere una donna a continuare a vedere il proprio ex violento, che fa leva su una sindrome inesistente per mantenere il controllo su di lei e sui figli. Oltre a non riconoscere la matrice culturale degli abusi, il governo pensa di risparmiare lasciandoci morire: perché comunque ricordiamolo, la violenza è un mezzo di controllo sociale, e le donne che la temono sono più facili da tenere in riga.
La legge del 19 luglio 2019 introduce l’obbligo di formazione delle forze dell’ordine sul tema, ma non specifica nulla su come debba essere svolto e da chi, e rimanda ad altra sede la decisione. Alla luce dei fatti, possiamo dirlo: è rimasta lettera morta, più morta della donna che è stata rimandata a casa perché “Signora, noi non ci possiamo fare niente”. Se la Polizia e i Carabinieri avessero sentito l’esigenza di formarsi sul tema, avrebbero già trovato il modo di farlo: i femminicidi non sono esattamente un fenomeno recente. La differenza è che fino al 1981 se ammazzavi tua moglie perché ti tradiva, o pensavi ti tradisse, ti davano le attenuanti per onore.
La legge sul femminicidio non farà morire una donna di meno, perché l’effetto deterrente dell’inasprimento delle pene è pari a zero. Chi uccide sa che andrà in carcere, e difficilmente sta lì a calcolare “Ah, ma qui prendo l’ergastolo, magari no”. Molti si uccidono dopo aver commesso il fatto. Altri provano a farla franca occultando il cadavere. Alcuni si autodenunciano e accettano la pena. Nessuno di quelli che intendeva uccidere una donna si fa fermare dall’idea di andare al gabbio: vendicare l’orgoglio ferito è molto più importante. E qui arriva una legge che non solo non li ferma, ma tratta la donna morta come una funzione sottratta alla famiglia, che viene risarcita per la perdita, non come un essere umano che aveva diritto di continuare a vivere.
Non ce ne frega niente, come donne, di sapere che chi ci ammazza poi va dentro (sempre che lo prendano, sempre che non scappi, sempre che non approfitti di un’indagine fatta male e di un processo fatto peggio per farsi scagionare). Quello che vogliamo sono uomini capaci di stare con noi senza doverci controllare, senza pretendere di decidere cosa possiamo fare e cosa no. Uomini che non definiscano sé stessi in base alla propria capacità di mantenere il dominio su di noi. Uomini normali, medioni, mica pretendiamo che siano avanzatissimi e decostruiti. Però sarebbe bello, ecco. Sarebbe bello. E perché succeda serve l’educazione alla relazione, al consenso, all’affettività, alle emozioni, ma soprattutto serve che la politica la smetta di strillare AIUTO IL GENDER e cominci a occuparsi delle cose in un modo sensato.
Il governo Meloni aveva bisogno di una bandierina da sventolare: la sua azione nei confronti delle donne, dei minori e delle persone in stato di necessità è nulla, ha buttato un montagna di soldi per costruire i famosi canili di lusso in Albania che rimangono (per fortuna, direi) vuoti, e le critiche all’operato della ministra Roccella sono sempre più rumorose. Bisognava accampare una forma di superiorità morale a costo zero, ed eccoci qua, la legge che inasprisce le pene quando siamo già morte. Bene, eh. Bravi tutti.
Ci risentiamo martedì prossimo.
Giulia
Chi lo sa? Io no.
Per approfondire questo punto: Era una brava persona, di Emanuele Corn, Leandro Malgesini e Ivan Pezzotta.
Cara Giulia, grazie innanzitutto per la Tua interessante e stimolante newsletter. Condivido in pieno le Tue osservazioni rispetto alla nuova legge sul femminicidio, ho avuto lo stesso pensiero: le sanzioni NON salvano la vita delle donne. Senza contare che questa ottica di "caccia al mostro" ha anche il demerito di non fare sentire ingaggiati gli uomini che ancor più si sentono giustificati dicendo "non io, non tutti gli uomini", in uno "scarico" di responsabilità, anziché schierarsi e prendere posizione. Da avvocata volontaria di un centro antiviolenza mi sento di dire che fino a quando la preziosa esperienza dei centri antiviolenza (che ogni giorno accolgono le donne in percorsi di uscita da situazioni di violenza) non sarà acquisita come sapere da consultare negli iter normativi, al fine di rispondere ai REALI bisogni delle donne, non credo che in questo paese si faranno grandi passi avanti.
Aumentare le pene non serve a niente, se non a soddisfare gli istinti animali di chi "butta via la chiave". Io l'ergastolo lo abolirei, frega un cazzo di avere pene più severe, voglio prevenzione, educazione alle relazioni, misure di supporto per le vittime di violenza, rieducazione di ruolo a chi è violento. Ma cosa ti vuoi aspettare dai fascisti?