Ciao, scusa, mi era rimasta una cosa da dire ma la newsletter di ieri era già lunghissima e non avevo comunque avuto tempo di ragionarci. La cosa che volevo dire, però, è rimasta in sospeso e si è messa a fuoco solo mentre mi asciugavo i capelli, a newsletter già inviata.
Quindi la dico oggi.
La mia bolla femminista è stata un po’ disturbata e molto innervosita dalla tirata di Ambra Angiolini durante il Concertone, in cui - in linea con lo stile retorico della manifestazione in corso - la conduttrice ha proposto di sacrificare “le vocali” acquisite dalle donne (vale a dire, i femminili professionali che secondo lei avremmo “vinto” negli ultimi tempi) alla parità salariale e ad altri provvedimenti che intervengano sulla gravissima disparità fra uomini e donne nel mercato del lavoro. “Tenetevi le vocali e dateci il 20% in più” era il succo del discorso.
L’opinione espressa da Ambra è legittima, nel senso che lei ha diritto ad avercela. Ha diritto di pensare che esista una gerarchia delle questioni, e che quella linguistica, che agisce sul piano simbolico, sia meno urgente di quella pratica. È un ragionamento che vedo fare spesso, in generale dalle persone che non si occupano attivamente né dell’una né dell’altra cosa, ma vabbe’. “Legittima” non significa “condivisibile”, però, e infatti io non la condivido né nella sostanza né nella forma in cui è stata proposta.
Per cominciare: il simbolico conta. Se non contasse, non ci sarebbe il Concertone, perché non avremmo il Primo Maggio, festa dei lavoratori. Il Primo Maggio, come tutte le ricorrenze e in particolare quelle laiche, è simbolica: ci ricorda che bisogna lottare, e crea uno spazio per parlare dei problemi contro cui bisogna lottare, delle conquiste ancora da ottenere, delle criticità del sistema che impediscono ai lavoratori di essere tutelati. La presenza dei genitori di Lorenzo Parelli sul palco del Concertone, ieri, era simbolica: il loro non è l’unico figlio morto durante un tirocinio scolastico, ma è simbolico di tutti quelli a cui non viene garantito nemmeno di studiare in sicurezza.
La questione delle “vocali”, come le chiama Ambra, è una questione simbolica, ma non è un regalo che ci è stato fatto e tantomeno qualcosa che le donne hanno “vinto” come si vince alla lotteria o alla pesca di beneficenza. Se adesso ci chiamiamo “sindaca” e “ministra” e “assessora” è perché negli anni le donne hanno conquistato abbastanza spazio nella politica perché la loro presenza venisse riconosciuta anche sul piano simbolico, dei segni, di una grammatica della lingua italiana applicata in maniera corretta anche alle professioni e ai ruoli più prestigiosi. Sul piano pratico non cambia niente, la sindaca e il sindaco fanno le stesse cose e la lingua non è cambiata nella struttura. Se prima però usavamo solo la seconda parola è perché le donne che accedevano a cariche visibili, ben retribuite o di potere (storicamente dominio maschile) dovevano sempre sentirsi come una che aveva scippato la sedia a un uomo. Aggiungiamoci che assumere il maschile, per molte donne degli anni ‘70, era questo: mi prendo il tuo posto, non osare chiamarmi con un nome che non sia lo stesso che usi tu. Una logica ormai desueta, perché è desueta (o dovrebbe esserlo) l’idea che il maschile sia neutro, e il femminile quell’altra cosa lì, la cosa diversa dal neutro.
Il simbolico conta. Nessuna abbandonerà mai un tavolo negoziale perché la controparte non usa le desinenze corrette, ma niente di quello che vediamo esiste, se non gli diamo un nome. Le donne non hanno “vinto” delle vocali, hanno lottato contro tutto e tutti per poter avere accesso alle professioni senza essere discriminate in alcun modo. Si dà troppo per scontato che dietro quelle conquiste ci fosse e ci sia tuttora la fatica, perché si dà per scontato che le donne debbano faticare più degli uomini, che debbano sempre correre in salita, che possano essere agilmente cameriere o infermiere ma non assessore o ministre. Tutto quello che è cura o servitù diventa femminile senza che nessuno sollevi questioni. Chissà perché.
Ma non è nemmeno questo il mio problema, giuro, perché è vero che alle operaie (queste sì, chiamate al femminile) o alle braccianti (sostantivo a genere unico) in media importa davvero poco delle “vocali” delle professioniste. La posizione di Ambra è legittima, lo ribadisco. Si può pensare che esista una gerarchia delle lotte, e che quella per il riconoscimento dei femminili professionali non sia prioritaria.
Quello che non mi va giù è l’approccio rinunciatario, da postulanti che sanno di esserlo e vanno dal padrone con il cappello in mano. Come se avere una cosa così semplice e banale come una vocale, una modifica a costo zero, comportasse per forza la cessione di altri diritti; e che viceversa, la cessione di un riconoscimento simbolico che sembra essere faticoso al punto che c’è gente che lo rifiuta in quanto “cacofonico” (il femminile fa schifo anche alle donne, cerchiamo di ricordarcelo) potesse portare al raggiungimento di un obiettivo pratico. È l’idea che no, non possiamo avere tutto, perché ogni cosa deve essere ottenuta per grazia e concessione e a discrezione di qualcun altro. C’è sempre un guardiano davanti alla porta che decide dove possiamo e non possiamo entrare, un’entità astratta a cui bisogna presentarsi a capo chino, educate e pronte a fare sacrifici, per ottenere i più elementari diritti.
E io dico: no, vaffanculo.
Vogliamo le desinenze giuste e anche la parità salariale. Vogliamo i congedi genitoriali paritari, obbligatori e retribuiti per uomini e donne e anche il superamento del maschile universale nelle comunicazioni ufficiali. Vogliamo le strade sicure, vogliamo gli incarichi dirigenziali, vogliamo gli asili nido gratuiti, vogliamo un’adeguata distribuzione del carico di cura, vogliamo una medicina di genere in cui quello che ha a che vedere con i nostri corpi sia studiato sui nostri corpi, vogliamo un lavoro di prevenzione e non solo di punizione della violenza domestica, vogliamo la fine del patriarcato capitalista E ANCHE ESSERE CHIAMATE DIRETTRICE, INGEGNERA E CAPITANA. Vogliamo tutto. Perché esistere è un diritto, lavorare è un diritto, essere rispettate come esseri umani è un diritto, non dover faticare il doppio per essere riconosciute la metà è un diritto.
I diritti non si ottengono mercanteggiando da una posizione di minorità. Mercanteggiando otteniamo solo di ribadire la relazione gerarchica fra chi comanda e chi fatica anche a farsi riconoscere la più basilare umanità. Io non tratto un bel niente, non rinuncio a niente, voglio tutto e non voglio dover scegliere. Rifiuto di pensarmi subordinata e alla mercé di qualcuno o a qualcosa, di dover trattare o di essere costretta a cedere su alcune cose per poterne avere altre. Quella è la logica del patriarcato, la logica di un sistema che preferisce continuare a pensarmi sottomessa, mai nella posizione di prendermi quello che mi spetta ma sempre e solo in attesa del permesso di qualcun altro. E io non l’accetto. È per questo che sono femminista: perché non l’accetto per me e nemmeno per le altre.
E adesso che l’ho detto, ci risentiamo davvero martedì prossimo.
Giulia
Giulia Blasi riesce sempre a mettere in parola quello che sta nella mia testa da sempre ma che, chissa' perche', non riesco mai a esprimere in maniera cosi' ordinata e pulita. Ogni volta che leggo Giulia mi ritrovo a dire: ecco, era proprio quella che intendevo! Da un nome alle cose che penso!
Salverò questa newletter per farla leggere a mia figlia tra qualche anno, per farla leggere a mia moglie adesso e per rileggerla ad intervalli regolari. Grazie