Cose che sto imparando nei talk show di Mediaset
Magari a qualcuno sono utili. Mica ci vado solo io.
Sono tornata a Rete 4, e ho il torcicollo da domenica sera.
Parto dicendo che questa è una di quelle newsletter che hanno rischiato di non essere mai scritte, perché sono (dovrei essere, mannaggia alla morte, scusa Lydia) in chiusura con il romanzo nuovo, ma ho anche le docenze e anche altre scritture e anche call incontri viaggi (finiti, spero) e insomma eccomi qua che ho passato il lunedì a fare slide e non ho scritto una riga di niente.
Questa sarà, quindi, una newsletter interlocutoria. Spiace per chi si è iscrittǝ nelle ultime due settimane sull’onda dell’entusiasmo per delle uscite molto in tema con il momento, oggi ti becchi i fatti miei e ne riparliamo la settimana prossima.
Dicevo: sono tornata a Rete 4. Zona Bianca, come al solito. Non voglio dire che sia una comfort zone, queste situazioni non lo sono mai, ma ho smesso di pensare che dalla mia performance dipenda molto altro che il successo di un dibattito nel momento in cui il dibattito stesso si svolge. Vado perché so che se resto lucida un paio di punti li metto a segno, e siccome la puntata si registrava nel pomeriggio non rischiavo di essere limitata dall’annebbiamento che mi prende quando vado in diretta alle undici di sera.
Essere lucide, in quei contesti, è fondamentale. Numero uno, perché gli interlocutori in un contesto a maggioranza conservatrice devono interpretare un personaggio, e questo personaggio deve essere provocatorio, deve farti incazzare e costringerti a corrergli appresso, e questo limita di molto la probabilità di dire delle cose sensate e comprensibili. Il dibattito televisivo obbliga ad ascoltare, prendere appunti mentali, cogliere le debolezze delle argomentazioni altrui e andarci dritte dentro. Certo, è mestiere, è pratica, ma sono pure nervi. Io non li ho sempre saldissimi.
Si parlava di femminicidio, tanto per cambiare - nel boschetto della mia fantasia mi chiamano per parlare d’altro, ma quando si sta sull’attualità i miei punti di forza quelli sono, e quindi - e mi sono trovata questo bel parterre in cui spiccavano il solito Simone Pillon, una Rita Dalla Chiesa insolitamente mite e una Concita Borrelli di cui non ricordavo la belligeranza, ma vabbe’. Pillon lo chiamano essenzialmente perché possiede la capacità di dire delle cose completamente senza senso come se fossero delle verità rivelate e indiscutibili: il suo talking point di ieri sera era che gli uomini uccidono perché la figura del padre tradizionale non esiste più, il padre è stato ridicolizzato, è un mollaccione incapace di educare o un Homer Simpson parcheggiato sul divano. Il suggerimento implicito è che se ci fossero i padri di una volta (quali? Quelli che portavano i figli adolescenti nei bordelli? Quelli che fino al 1956 potevano picchiarli, come potevano picchiare la moglie, per correggerli? O andiamo indietro fino ai feudatari? Chissà) allora il femminicidio non esisterebbe. Lasciamo perdere che altre volte ha sostenuto che le donne uccidono come gli uomini, e per provarlo ha dovuto cacciare casi di cronaca di sei mesi prima (si era portato un quadernino: l’ho detto, è uno con un certo talento per la messa in scena). L’importante è darsi il tono di chi la sa lunga, ma pure il tono basta fino a un certo punto. Quando ha finito per accusarmi di infantilismo e di fare la guerra fra maschi e femmine ho capito che bene o male l’avevo portata a casa, gli argomenti (anche quelli farlocchi) erano finiti.
Pillon, devo dire, non è stato molto sorprendente. Concita Borrelli che se ne esce con “il patriarcato è finito nel 1975”, invece, mi ha spiazzata per un attimo, perché uno, COME HA DETTO, SCUSI? e due, non è vero neanche sul piano simbolico, dato che ancora adesso all’atto del matrimonio (eterosessuale ed eteronormato, perché il patriarcato è finito, no?) la moglie aggiunge al suo cognome quello del marito, ma non viceversa. E il simbolico, l’ho già detto, conta. Anche senza voler accettare l’evidenza empirica, e qui mi dovrei addentrare in considerazioni sulla differenza evidente fra l’estetica maschile e quella femminile prendendo a riferimento anche solo gli ospiti presenti: io, per esempio, ero truccata e pettinata come una divorziata di Palm Beach in cerca di un nuovo amore. Quando sono tornata a casa e mi sono guardata allo specchio quasi mi spaventavo. Pillon aveva il farfallino come un bimbo a Natale, nessuno degli uomini si era tinto i capelli. A ricordarci cos’è il patriarcato basta anche solo la disparità cosmetica.
A me sembra che il punto a cui siamo sia questo: la parola “patriarcato” ha bucato, e lo dobbiamo a Elena Cecchettin. Certo, avremmo preferito arrivarci in tutt’altro modo, ma così è. Adesso la cultura mainstream si sta misurando con un concetto relativamente nuovo, che non comprende, di cui ignora (o finge di ignorare) le reali dimensioni e che riporta erroneamente all’esperienza personale. Le foto delle manifestazioni stanno durando nella memoria collettiva più dello sdegno artificiale per la saracinesca di ProVita e Famiglia. C’è elettricità nell’aria, la stessa che sentivo nel 2017, con #quellavoltache e #metoo. Io non sono sicura che queste sortite in territorio ostile abbiano altri risultati che non siano aumentarmi il livello di cortisolo, ma se non ci vado mi rimane il dubbio: e se ci avessimo provato, invece?
Avrei voluto raccontare un po’ anche delle ultime settimane di nomadismo, ma sono stanchissima. Facciamo un’altra volta, dai.
Ci vediamo il 9 dicembre a Più libri più liberi:
11.30 alla Sala Nettuno per il podcast Nemiche geniali di Jennifer Guerra
17.00 alla Sala Marte con Dalila Bagnuli per il suo libro Anti Manuale della bellezza.
A martedì prossimo!
Giulia
La tesi di Pillon è la stessa di Vannacci (intervista sulla Stampa di ieri, a cura della paziente Scandivasci): gli uomini che uccidono sono quelli "mollaccioni" e "smidollati". E meno male, perché chissà che cosa ci facevano se invece erano violenti e maneschi!
Hai detto romanzo?