È successo di tutto
Questa settimana: Berlusconi, Retequattro, Pride, Zerocalcare e altro, perché è successo di tutto.
La settimana scorsa non avevo avuto tempo. Questa settimana era già tutto pronto, una newsletter bella grassa succulenta appetitosa piena di roba: lunedì mattina esco per andare a lavorare e
muore
Silvio
Berlusconi.
La notizia mi arriva quando sono appena uscita di casa, la prima notifica mentre imbocco via Vibio Sequestre, la seconda quando sto attraversando la Casilina per scendere a via del Mandrione1, due minuti dopo. Mando un messaggio, sta morendo Silvio Berlusconi, poi subito: è morto. E penso: come sto?
Niente. Non sento niente.
Quando è morto Pat Robertson, la settimana scorsa, lì sì che ho pensato: good riddance. Pat Robertson era una persona orribile e un fanatico religioso che ha contribuito in maniera attiva all’oppressione della comunità LGBTQ+. Ci ha messo del tempo, ma finalmente si è levato da questa terra. Silvio Berlusconi è stato a lungo la personificazione del patriarcato che impedisce a questo paese di progredire, e avevo sempre pensato che la sua morte mi avrebbe causato sollievo. Invece ho provato solo un grande senso di vuoto. Niente. Non c’era niente.
Forse è perché se n’è andato dopo una lunga malattia, quindi non sereno nel suo letto come gli ho sempre augurato (ma ben lontano dalla politica, come auguravo a me stessa). Forse perché il suo declino fisico era visibile, inesorabile, vissuto in piena luce nonostante i tentativi di camuffamento. Non riusciva più a farmi incazzare, nemmeno quando difendeva Putin.
Ora se n’è andato, ma la sua eredità rimane: l’estrema destra al potere, i diritti paralizzati da un paternalismo inscalfibile, due generazioni di donne incapaci di immaginarsi al di fuori di un ruolo funzionale e terrorizzate dall’idea di dire qualcosa di spiacevole per il genere che le ammazza al ritmo di una ogni tre giorni e vuole pure la medaglia se si astiene, tycoon rapaci e capaci di tutto pur di mantenere il potere. Certo, era molto amato: ma il prezzo di quell’amore lo paga la collettività.
Ho scritto un pezzo per Valigia Blu che probabilmente segnerà la fine della cosa che vi racconto nel prossimo paragrafo, ma insomma, le cose mi sembra giusto dirle.
Quindi: quella volta che andai a Rete4
L’antefatto è questo: nel 2017, in piena tempesta #quellavoltache, accettai l’invito degli autori di Matrix (allora condotto da Nicola Porro) per parlare di quello che stava succedendo. Forte dell’alleanza con Miriana Trevisan, pensai che in due avremmo potuto fare squadra: andai quindi fiduciosa agli studi del Palatino, dove si registrava la trasmissione (e per Miriana era un ritorno: erano gli stessi studi di Non è la Rai).
Arrivata al Palatino, mi chiusero in uno stanzino che conteneva solo due monitor: uno con la mia faccia in ALTISSIMA definizione, e l’altro con la trasmissione. Non finì bene, perché quando finalmente mi accesero il microfono io avevo ascoltato un’ora di gigantesche cazzate sulle molestie davanti a uno schermo che mi rimandava la mia stessa costernazione, e sbroccai in diretta-differita. Mi spensero il microfono, e arrivederci. Il video, purtroppo, non lo trovo più: però ho ancora i messaggi degli autori che mi comunicavano che il mio sbrocco aveva fatto il picco di share.
Non sono più andata ad altri talk show di prima o seconda serata. Nessuno. Ci sono stati mezzi inviti che poi sono caduti nel nulla, altri inviti pieni a cui ho detto di no, ma le uniche trasmissioni a cui ho partecipato erano talk del pomeriggio, brevi e molto meno conflittuali (con qualche eccezione che ho patito moltissimo, ma che mi ha dato anche qualche fugace soddisfazione). Lunedì scorso, mentre scendevo dall’aereo di ritorno da Barcellona, mi accorgo che mi vibra il cellulare. Era la redazione di Zona Bianca, il programma di Rete4 condotto da Giuseppe Brindisi.
Decido di andarci, perché fra gli ospiti c’è Simone Pillon, e ogni tanto bisogna pure affrontarli, i mostri. Gli studi sono a Cologno Monzese, io sono a Roma, mi dicono: vai al Palatino, ti colleghi da lì. Siamo in diretta, perché ci potrebbero essere sviluppi sul caso Tramontano e vogliamo stare sul pezzo.
E rieccomi qui, nella stessa stanzetta dell’altra volta, con lo stesso monitor in alta definizione, un auricolare ficcato nell’orecchio destro, un sonno che crepavo e la sensazione che il giorno dopo sarebbe stata durissima fare lezione, ma forse avrei avuto qualcosa da raccontare ai miei studenti di Public Speaking.
Per riassumere: ero andata lì con le migliori intenzioni (stai calma, rimani focalizzata, i talking points ce li hai tutti). Invece: ho toppato la prima risposta, ho sbroccato a un paio di ospiti (di cui uno con cui ho pregressi personali non del tutto irrilevanti rispetto al tema in oggetto: ma non lo posso raccontare, perché l’unico testimone dell’episodio in questione è morto2), mi sono presa la parola di prepotenza facendo dei gestacci visibili dal totem, insomma, tutto il manuale della perfetta ospite litigiosa. Come avrebbe detto il mio compagno d’università Fabio “Bafio” Scarpocchi: “Bella prova, secca.” Solo che Bafio l’avrebbe detto per davvero, mica con il senso di morte che avevo io quando sono uscita dallo studio e mi sono tuffata nella macchina che mi avrebbe riportata a casa.
Morale della favola: mi hanno invitata di nuovo, perché a quanto pare one woman’s performance di merda is somebody else’s performance eccellente.
So benissimo che c’è chi pensa che a questi talk non bisognerebbe andare, perché non spostano nulla nell’opinione pubblica ed è solo teatro. Difficile dargli torto, anche alla luce della difficoltà di interagire con gente come Pillon su un piano basilare di realtà. Pillon parla di cose inesistenti come se fossero fattuali (le donne che sarebbero violente come e quanto gli uomini) e di dati di realtà come se fossero inventati (l’esistenza del patriarcato, documentata e documentabile): è impossibile parlarci, manda tutto in vacca e tocca rincorrerlo sul suo terreno, con i conduttori che ignorano le sue falsità e lo lasciano correre con la palla, perché fa spettacolo. Forse però lui non è nemmeno il peggiore, perché parla a una parte di paese molto piccola e fanatica, che è impossibile smuovere in un senso o nell’altro. Per me la medaglia d’oro3 di quella sera se la prende Annamaria Bernardini De Pace, che nel parlare di violenza scarica tutto sulle vittime (“Non dovete accettare l’ultimo incontro!” Quando Giulia Tramontano, per dirne una, stava letteralmente tornando a casa sua) e poi, quando Karima Moual ha cercato di farle capire che quella è vittimizzazione secondaria, ha esclamato stizzita: “E allora andate a morire!” Quando dico che le donne devono vivere nella paura e che la paura è un metodo di controllo sociale, intendo anche questo: ogni nostra azione, anche la più banale come tornare a casa per discutere con il proprio compagno e chiudere una relazione in cui è venuta meno la fiducia, deve essere vissuta con terrore. Non dobbiamo mai sognarci di poter vivere libere, mai.
Chi potrebbe opinare che da questi inviti si ricavino dei vantaggi si può mettere tranquillo. L’unica cosa che ho guadagnato dal pubblico di Rete4 è stata una manciata di insulti più o meno sanguinosi (lasciati anche a post vecchi su Facebook, quindi da gente che mi ha cercata apposta e si è sfogata nel primo thread disponibile). Però è anche vero che se ci sottraiamo sempre sembra che non esistiamo, noi cinquantenni che ci ostiniamo a non diventare delle vecchie stronze giudicanti e che proviamo a fare il lavoro di contrasto alla cultura che ci vuole mute, silenziose, invisibili. Invece esistiamo anche noi, la terra di mezzo fra le pitonesse della seconda ondata la cui funzione sembra essere solo quella di dire al mondo quanto facciano male le cose le femministe più giovani, e le ventenni incazzate ma lontanissime dalla televisione.
(La puntata è disponibile sul sito di Mediaset: non la linko qui perché non credo nemmeno per un secondo che avresti la freschezza di guardarla, ma che ne so, la gente è matta.)
Sempre sul caso Tramontano
Ho scritto un articolo su fem per spiegare perché il caso di Giulia Tramontano non può essere trattato come un duplice omicidio. È uscito qualche giorno fa, ma penso ne riparleremo.
Poi: tanto Pride
Sabato 10 al Pride di Roma c’era il doppio della gente che c’è di solito. Forse pure il triplo. Una marea umana infinita, una folla gigantesca, ancora più stupefacente se si considera che i Pride sono molti, e quasi ogni regione o città ha il suo. Eppure quest’anno erano tutti e tutte qua. Roma era il posto, e questo era il momento.
Il mio rapporto con il Pride è lungo e documentato: ci vado da alleata, ma ci vado soprattutto perché al Pride mi sento a casa, libera e felice. È una cosa difficile da spiegare: che c’entro io, donna eterocis, con una marcia di rivendicazione dei diritti della comunità LGBTQ+ che nasce da una rivolta contro la violenza della polizia? Niente: alla polizia io mi sono potuta avvicinare, durante il Pride, per chiedere tranquillamente se avessero visto una fontanella nei paraggi. Sono una donna bianca eterocis, ero vestita in modo piuttosto convenzionale, potevo contare su una certa dose di benevolenza da parte delle forze dell’ordine. Lo stesso non vale per buona parte di chi sfilava ieri, soprattutto se all’identità queer si sovrappone la razzializzazione.
Eppure il Pride è, indiscutibilmente, l’unico momento dell’anno in cui il mio sentirmi perennemente inadatta trova pace. La cosa semplice da capire è che nessuno può dire a prima vista quale sia l’identità di genere o l’orientamento affettivo di qualcun altro. Quando io sto lì, potrei essere chiunque e qualunque cosa. Il mio corpo si trova in mezzo a un fiume di altri corpi dalle forme e dalle presentazioni più varie, e tutta l’ansia con cui vivo ogni aspetto della mia fisicità se ne va, evapora in una nuvola di glitter. Ballo per strada, saluto la gente che agita le mani dai balconi, abbraccio amici e amiche, mi godo il turbinio di gente libera e ogni umano intorno a me mi pare bellissimo. Non mi preoccupo di come appaio, solo di come mi sento.
Questa è la cosa che più di tutte spaventa i conservatori: la comunità queer fa saltare i vincoli dell’accettabilità sociale, i ruoli di genere, le regole a cui bisogna attenersi per poter partecipare alla vita pubblica. Le persone LGBTQ+ non vivono fuori dal mondo, vivono in questo mondo: la loro influenza è visibile, per lo più involontaria. Cambiano il mondo perché esistono, vivono, si autorappresentano, producono pensiero; cambiano il mondo perché la loro esistenza obbliga le identità dominanti a interrogarsi su sé stesse, sulla loro identità e i loro desideri.
So benissimo che il Pride non è la mia festa, che non gira intorno a me, e che il mio corpo conforme ha al massimo il problema dell’invecchiamento (che per le donne non è un problema marginale, ma non mi espone al rischio di essere menata per strada). La mia presentazione di genere è nella norma, per quanto tendente allo scaciato, soprattutto d’inverno. Niente della mia identità deve essere nascosto per timore di aggressioni. E per me andare al Pride rimane un atto politico, la presenza a quella manifestazione un gesto di sorellanza verso chi vive di continuo quel rischio, verso le persone che vengono apertamente discriminante per aver voluto formarsi una famiglia, verso i figli di quelle famiglie che si devono scontrare con l’ottusa crudeltà di un paese che li priva dei genitori con circolari, norme e decreti vessatori.
Però è bello. Il Pride è bello. Il Pride è festa ed è rabbia, è energia ed è rivolta, è camp ma è pure sovversivo per la sua stessa esistenza. E io in quella sovversione mi sento bene. E come sempre quando mi sento bene e vivo, non ho fatto foto. Ce n’è solo una, con Adrian Fartade, a piazza dei Cinquecento. La trovi scorrendo il suo post su Instagram.
Ora e sempre, #Queeresistenza.
Ancora: la nuova serie di Zerocalcare
Non fosse morto Berlusconi, non fossi andata a Retequattro, non avessi visto il Pride allagare le strade di Roma, forse di Questo mondo non mi renderà cattivo avrei parlato prima. Invece scivola in fondo a questa newsletter già pantagruelica, e solo per dire che è stato bello vederla in anteprima alla Città dell’Altra Economia (abbiamo tenuto un cuscino per ricordo, grazie Netflix), che fa molto ridere, che è meno struggente di Strappare lungo i bordi anche se ripropone molti degli stessi temi (l’ennui delle periferie romane, la fatica di trovare un posto nel mondo, le scelte esistenziali che ti spingono in una direzione o l’altra, il non sapere mai davvero fino in fondo che cosa pensi la gente, ma soprattutto il senso di colpa di Zerocalcare per aver avuto successo con i fumetti) e ci aggiunge qualche elemento di politica che immagino avrebbe fatto più casino, se Berlusconi non avesse deciso di morire proprio nel momento in cui Salvini si sarebbe potuto incazzare a vanvera per una cosa qualsiasi contenuta nella serie. Due cose: Valerio Mastandrea nel ruolo dell’Armadillo è presente il doppio e fa sempre morire dal ridere, ma c’è un altro cameo di prestigio che non voglio spoilerare e che ha reso tutto ancora più surreale, come uno scontro di mondi.
Infine: dove ci vediamo
Stesse date della settimana scorsa:
Il 15 giugno sono a Parma a parlare di Scintilla nel buio. L’incontro è in piazzale Picelli alle 18.30, modera Caterina Bonetti. Ingresso libero, stiamo all’aperto, al massimo portati l’Autan.
Il 16 da Parma vado a Mare di libri: l’incontro a cui partecipo si terrà alle 18.00 al Teatro degli Atti, e condivido il palco con Vera Gheno. Il tema è “1 parola 2 generazioni”, e la nostra parola è “Parità”.
Il 17 torno e c’è Music in the Gaps, in cui modero un panel sulla rappresentazione e la diversity. 18.30 a Roma, al Monk, dettagli qui.
Il 22 giugno invece sono a Catania per Women in Charge on Tour, che è una manifestazione itinerante dedicata alle donne e al lavoro. È un evento di networking, per cui ci si può registrare nelle varie tappe.
Oh, io vorrei parlare di libri, ma in questo periodo sto leggendo The Atlas Paradox di Olivie Blake a botte di tre pagine, perché poi mi addormento. Quando mi sblocco te lo faccio sapere.
A martedì (se non mi stai odiando per le lungaggini),
Giulia
Lo metto solo per chi ama la toponomastica romana e/o conosce un po’ i dintorni del Pigneto. O ha letto Scintilla nel buio, che contiene una scena di notevole importanza ambientata al Mandrione.
Zero problemi a raccontarlo in confidenza davanti a una birra: i miei amici e le mie amiche ne sono al corrente da sempre.
Non è oro. Ma sono una signora.
"Il video, purtroppo, non lo trovo più"...
Eccolo:
https://mediasetinfinity.mediaset.it/video/matrix/puntata-del-17-ottobre_F308550501001001
Ora voglio una birra e il racconto di cui si parla qualche paragrafo dopo! 🤣
Come sempre, grazie di scrivere, di descrivere, di esprimere brillantemente i nostri pensieri! E W noi cinquantenni incazzate e madri di ventenni super incazzose! W il Pride, sabato 3 ero a quello di Utrecht, dove tutto ha un sapore molto piu' festoso e meno incattivito ma comunque.