Quando inizio con le comunicazioni di servizio si capisce già che sarà lunga. Oggi ci vediamo qui.
Le altre date sono le stesse già annunciate:
21 novembre - Cose mai successe ad Asti, Centro Culturale Fuoriluogo
23 novembre - “Prevenire, proteggere, educare” a San Benedetto dei Marsi (AQ), Ristorante Ragno, ore 10.30
25 novembre - Rubiera (RE), L’Ospitale, ore 21.00
5 dicembre - Prato, Teatro Politeama Pratese, incontro della rassegna La farmacia delle parole con i detenuti del carcere di Prato.
13 dicembre - Replica di Brutta, Arese (MI), Teatro Comunale, ingresso gratuito.
La risacca della sconfitta di Harris mi ha lasciato con una tristezza perdurante, seguita da attacchi di rabbia furibonda in cui avrei voglia di spaccare ogni oggetto intorno a me e pure la faccia a qualcuno. Ogni tanto mi distraggo, giovedì ho guardato X Factor, i Punkcake mi danno un attimo di sollievo facendo i cretini che però suonano, e anche se so che mi dimenticherò di loro due minuti dopo la fine della stagione, per ora mi fanno ridere e per questo li ringrazio. Poi mi fermo e penso: cazzo ridi. Non ti ricordi che da oggi e per chissà quanto tempo non potrai accendere un notiziario qualsiasi senza trovarti davanti le stesse facce di merda che speravi di non vedere mai più?
So benissimo che questo è esattamente il risultato a cui l’elettore di destra anela sopra ogni cosa. Farci male, farci piangere, metterci di fronte all’evidenza del suo odio. L’intera visione politica dell’elettorato di destra è il rancore: non sta bene mostrare che ci sono riusciti, che ce l’hanno fatta. Ma io non sono triste perché Harris ha perso, perché un’elezione non è come quando la Roma perde al derby. La politica non è tifoseria, ci saranno conseguenze che non sono certo limitate al rosicamento di una parte, e a farne le spese saranno anche le persone che hanno scelto Trump. Io sono triste e furibonda perché il mondo sta per andare definitivamente in merda, e non ci posso fare niente.
Dal 6 novembre in poi ho visto fiorire una serie infinita di analisi della sconfitta, alcune buone, altre francamente risibili. Lo capisco, eh. Quando si perde, e si perde su questa scala, con le ripercussioni devastanti che ci saranno in tutto il mondo, è più facile guardarsi dentro e provare a capire dove si sbaglia, piuttosto che arrendersi a un’evidenza terrificante, e cioè che i fattori in gioco erano troppi, e molteplici, e non esiste un solo motivo per cui la popolazione degli Stati Uniti ha scelto uno stupratore con una condanna penale per cui non farà un giorno di prigione e un passato di amministrazione del tutto fallimentare. L’autocritica contiene un elemento di speranza: se ho sbagliato, posso correggermi, posso fare meglio. Se ho sbagliato, posso cambiare, riprovarci, vincere alla prossima.
Intanto Elon Musk1 convoglia milioni del suo patrimonio personale nella campagna elettorale dello stupratore in questione, trasforma Twitter in una piattaforma di propaganda della destra, fa comunella con tutti i podcaster e gli influencer e in generale gli stronzi opportunisti che fanno soldi sulla radicalizzazione dei giovani. Hai voglia a fare analisi della sconfitta. Qualcosa di sicuro si poteva fare meglio, ma non basta certo a spiegare tutto.
Le analisi che trovo più patetiche sono quelle che danno la colpa alla sinistra che “non parla alla classe lavoratrice”. Sulla base di questa logica, Harris avrebbe dovuto dire alla classe lavoratrice che gli immigrati mangiano i cani a Springfield? Così l’avrebbero votata? Trump non riesce a finire una frase senza perdersi in deliri senza capo né coda, ha mentito senza pudore su tutto quello che poteva danneggiarlo, ha una storia personale a dir poco deplorevole: vogliamo arrenderci al fatto che l’hanno votato per molte ragioni e nessuna di queste è che “sa parlare alla classe lavoratrice”?
La dura realtà
Dobbiamo accettarlo: hanno vinto i mostri. A questo giro, o per un bel po’. Ormai niente impedisce a Trump di installarsi come presidente a vita2, ed essendo il soggetto sempre a un hamburger di distanza da un coccolone, il prossimo presidente a vita sarà JD Vance, comprato e piazzato dai plutocrati americani per facilitare la trasformazione degli Stati Uniti in un’oligarchia. Yarvinism è il nome della teoria che li guida, e se la leggi sembra una roba ideata da quindicenni con i calzini croccanti, invece è la visione per il futuro di uno degli uomini più ricchi e stupidi del mondo.
E in mezzo a tutta questa distruzione, questo odio, questa ignoranza, c’è un pensiero piccolo, un pensiero solo mio. Il mondo mi odia. O almeno: per una bella fetta di mondo, io sono un’entità da distruggere. Perché sono una donna, perché ho studiato, perché lavoro nel campo della produzione e divulgazione delle idee, perché sono di sinistra, perché sono femminista, perché mi interessano i diritti delle persone, di tutte le persone, anche di quelle che mi odiano. Il mondo mi odia e me lo dice elezione dopo elezione, ti odio, odio quello che sei, quello che rappresenti, il modo in cui guardi il mondo. Ti odio, e voterò sempre qualcuno che mi permetta di realizzare la mia vendetta contro di te, di annullarti, umiliarti, farti sparire. Salvini che gongola è quell’odio che si concretizza in vendetta. Non vedeva l’ora, lui che come politico è fra i più scarsi di sempre, di sentirsi dalla parte dei vincenti. È un uomo di potere, ma non sembra avere altro che questo, nel suo orizzonte: l’annichilimento di chi non gli somiglia. L’eliminazione di chi ha studiato per essere competente nel campo di cui si occupa. Salvini è il trionfo del trumpismo, e infatti alla prima occasione utile si è presentato in Parlamento in versione cosplay, giacca blu, cravatta rossa e camicia bianca, manco fosse al Lucca Comics dei fasci.
È questa, la cosa che mi sta tenendo con la testa sott’acqua. La consapevolezza di quest’odio, la materialità di quei voti contro una parte o contro tutto quello che compone la mia identità sociale, l’impossibilità di dialogare con una fetta vastissima dell’umanità, di spiegare le mie ragioni, strutturare i pensieri in un modo persuasivo. Certo, io sono una privilegiata: avere studiato, essere bianca, eterocis, oltre la fase della fertilità mi consente di vivere più tranquilla. La porzione di mondo che mi odia è inferiore alla porzione di mondo che odia le mie sorelle queer, disabili, grasse, razzializzate. Per la prima volta ho pensato che forse ero contenta che i miei nipoti siano tre maschi bianchi. Le loro probabilità di sfangarla sono un po’ più alte. Ma si potrà ragionare così, solo per sé, per la propria famiglia? È un ragionamento di destra, un ragionamento di prossimità. È la destra a insegnarci che ognuno si arrangia da sé, mentre lavora per mettere le persone le une contro le altre. I miei nipoti vivranno comunque in un mondo più inquinato, in cui le calamità naturali saranno all’ordine del giorno, la siccità distruggerà l’agricoltura, si faranno guerre per l’acqua e per le risorse più elementari. Un solo paese, potentissimo, sta scegliendo il futuro dell’intero pianeta. E lo sta facendo sulla base di un livello di competenza di capacità di leggere il reale che fa venire voglia di piangere. Per fare un esempio: una delle promesse di Trump in campagna elettorale era un protezionismo basato sui dazi. Tutte le importazioni verranno tassate, in modo da - dice lui - proteggere l’economia locale. Gli economisti: no, è una pessima idea, si alzeranno i prezzi e molti prodotti saranno introvabili, guardate la Brexit. La gente: bravo, bravissimo!
Sempre la gente, il giorno dopo le elezioni:
No, non è la vittoria del popolo sulle élite, non è il trionfo della democrazia, non è la forza politica vicino alla povera gente che trionfa sulla sinistra che non conosce più la vita, quella è una cazzata che ci diciamo per non impazzire. È molto di più. È una sconfitta fatta di tante cose, di misoginia, razzismo, rabbia delle classi più povere e meno istruite, suprematismo bianco, strascichi della pandemia da Covid-19. Sì, la pandemia: quando durante i primi lockdown la gente diceva “ne usciremo migliori” io dicevo “no, ne usciremo traumatizzati”. Le persone traumatizzate tendono a punire quelli che associano al loro trauma, i politici in carica quando i loro cari morivano ma anche chi gli imponeva di vaccinarsi o di indossare una mascherina, di preoccuparsi degli altri, di non fare finta che non stesse succedendo niente, e la sproporzione temporale è tutta a carico di Biden, che pure non è il principale responsabile della malagestione dell’emergenza. Il Covid ha radicalizzato un sacco di gente, ha chiuso in casa milioni di ragazzini, ha fatto fiorire le teorie del complotto e i culti distruttivi come QAnon, ha isolato le persone. Non è l’unico fattore, appunto: ma è un fattore fra gli altri, un fattore non irrilevante. Nessuno esce da un trauma esattamente come ci era entrato, specialmente se a quel trauma non è seguita un’elaborazione, una forma di pacificazione, di accettazione degli eventi. Gli antivaccinisti stanno ancora a rugnare, come se i vaccini (che hanno salvato milioni di vite, dati alla mano) fossero un torto che non riescono a superare. Come si ragiona, con gente con cui non si condividono neanche le basi della realtà fattuale? Cosa gli dici?
Per me, però, ha ragione Luca Sofri: ci odiano proprio. Cito:
[…] se posso avventurarmi in una spiegazione – non unica, non assoluta, ma che direi faccia la differenza – è che questo succede perché tante persone votano con altri criteri: non sopportano le alternative (userei un’altra espressione, un po’ volgare, ma a richiesta, privatamente, posso comunicarla). Occhio, non è che non sopportino “le proposte alternative” (delle proposte non frega quasi a nessuno): non sopportano le persone alternative, non sopportano gli altri, i loro candidati, i loro elettori, i loro giornali, i loro propagandisti. O meglio, l’immagine che ne hanno: che è un misto di verità e di balle diffuse strumentalmente con grande efficacia dalle propagande di destra o populiste (che non sono solo di destra). E di verità, ripeto.
E un po’ hanno pure ragione, a odiarci. Perché la spocchia con cui la sinistra tratta le persone dei ceti più bassi è a tratti insopportabile, li chiama “gli ultimi”3, ma chi vorrà mai essere chiamato “ultimo”? Il paternalismo implicito in “sono persone buone, normali, che soffrono e non capiscono, bisogna spiegarsi, stargli vicino” è mille volte peggio che l’ammissione della verità, e cioè che non è gente incazzata per motivi giusti, che cerca soluzioni alla propria sofferenza. È gente che vive male a livello emotivo, prima che economico: è colpa del capitalismo? Sì. È colpa della precarietà esistenziale, dell’impoverimento culturale, delle promesse del Dopoguerra che non potevano essere mantenute senza i soldi del Piano Marshall? Pure. È colpa della radicalizzazione operata sui social da gente senza scrupoli e dalla propaganda russa? Assolutamente. Li abbiamo messi noi, ‘sti chiodi, a Cristo? Non mi pare proprio.
Chi mostrifica chi?
Pier Paolo Pasolini romanticizzava il povero e l’analfabeta, ne parlava come di un puro incontaminato dalla cultura, e quel punto lì del suo discorso politico, decontestualizzato e isolato, ce lo trasciniamo appresso ancora oggi. È uno stereotipo pure peggiore di quello dell’intellettuale di sinistra col golfino di cachemire, perché il povero e l’analfabeta saranno sempre alla mercé del ricco. Sempre. Solo che il ricco trova sempre il modo per scaricare la colpa su qualcun altro.
Ci odiano, non perché siamo persone di merda ma per tutto il contrario: per quello che rappresentiamo ai loro occhi, per il modo che abbiamo trovato (e che per loro è regalato, eh, mica è frutto di un esercizio costante nel tempo) di stare al mondo senza sentirci vuoti. E ancora una volta ci viene chiesto di porgere l’altra guancia, di capire, di conciliare, di metterci a zerbino. Una richiesta che per le donne e le minoranze oppresse è particolarmente umiliante: votano gente il cui obiettivo dichiarato è toglierci diritti, ma dovremmo pure essere carine. Concilianti. Capire, accogliere, soprattutto gli uomini. Pare che non lo facciamo abbastanza, evidentemente tutte quelle ore dedicate al lavoro di cura gratuito censite dall’Istat non sono abbastanza.
Sono iscritta alle Donne Democratiche da qualche mese, e più di una volta - lo dico con assoluta trasparenza, tanto lo sanno tutte - mi è venuta voglia di farmi saltare in aria. Però una cosa la posso dire con altrettanta trasparenza: non è vero, non è per niente vero che a sinistra non si parli della classe lavoratrice, non ci si occupi degli stipendi, dei diritti dei lavoratori, dell’economia, della sanità. Non è vero. È un tema costante. Il dibattito, per quanto spesso un po’ troppo accondiscendente, non si basa sulla mostrificazione dell’altro (come invece avviene a destra) ma sul tentativo di migliorare le condizioni di tutti. Il che non significa che lo snobismo e il classismo o la verticalizzazione sui problemi delle donne bianche non esistano (eh, magari), ma che possono essere individuati e riconosciuti come problematici, e che il tentativo sia sempre di parlare delle persone come esseri umani che hanno dei diritti, a prescindere da chi votano e dalle cose in cui credono.
La perfezione appartiene a un altro mondo, la frustrazione appartiene al mio. Ma bisogna essere onesti: in questi anni gli unici ad aver fatto politica contro le persone sono quelli di destra, gli unici ad aver creato capri espiatori e ad aver mostrificato l’avversario sono quelli di destra. Certo, rispondevano a una necessità psicologica, lo dico da anni, che la politica è psicologia: la destra ha raccolto e nutrito il malcontento della gente, non la sua voglia di costruire il futuro. E ci ha costruito sopra la sua fortuna, guardandosi bene dall’offrire soluzioni. La condizione psicologica di una massa si forma nel corso di decenni, mica la inverti da un giorno all’altro “sapendo parlare alla classe lavoratrice”. Ma non è colpa “della sinistra” se la gente da cui vorrebbe essere votata la odia, perché non è che a sinistra ci stiano (solo) i ricchi istruiti che non hanno problemi. A sinistra ci sto pure io, precaria dell’intelletto senza tutele, minimi salariali, contratti o protezioni sindacali. Siamo in tanti, qua dentro e là fuori, ad aver studiato anni con la promessa di un buon lavoro, e invece siamo rimasti fregati. E come se non bastassero gli anni di sacrificio e rischio e i lavori malpagati perché “tanto a te piace” e la totale assenza di tutele sindacali e i pagamenti che arrivano quando gli pare, dobbiamo fare i conti con il fatto che una fetta consistente di paese ci odia. Ci odia quando perde, perché ha perso e odia perdere contro gente che odia. Ci odia quando vince, perché ha vinto e non vedeva l’ora di dirci ancora una volta quanto ci odia. Hanno il mondo in mano da trent’anni, e ancora piangono che sono marginalizzati e la sinistra non li ascolta.
Non voglio negare i limiti della politica, mi ci sono avvicinata per frustrazione, appunto: perché se le cose non funzionano io ci provo, ad aggiustarle. Fra l’umarell davanti ai cantieri e l’operaio sarò sempre l’operaio, finché mi regge. Ma non sto qua a raccontarmi balle: quelli di cui ci vorremmo occupare e con cui vorremmo parlare, in gran parte, ci detestano. Ci accusano di spocchia, trattandoci con spocchia: eh, voi professoroni che non avete mai lavorato. Eh, voi che pensate di essere meglio di tutti (implicito: siamo meglio noi, gli unici veri, gli unici onesti).
Forse non ci sto capendo niente, anzi, sicuro sto girando in tondo come certi cani che si inseguono la coda e non capiscono perché la coda si allontani. Ci sono cose che non vedo, che non posso ancora accettare, altre ancora che vedo ma che sono troppo più grandi di me. Di sicuro c’è anche che una sconfitta elettorale (o due o tre o dieci) non mi fa buttare le persone migranti, LGBTQ e trans o i detenuti sotto a un treno in nome della supremazia del diritto sociale4. È un pensiero fallimentare pure quello. Nessuna lotta di liberazione si fa guardando a una sola sezione della popolazione, a un solo fattore di marginalità. Quella non è sinistra, quello è suprematismo bianco in una confezione rassicurante, è maschio eterocis che alza il ditino per sgridarti e rimetterti a posto. Se quello che abbiamo fatto finora non ha funzionato, non dobbiamo cambiare il merito, dobbiamo cambiare il metodo. E forse bisogna parlarne, di questo metodo, e di come il digitale stia fallendo, di come le piattaforme (il cui obiettivo è tenerci agganciati, incazzati e col portafoglio aperto) abbiano esaurito il loro potere di aggregazione, e di come l’unico modo sia tornare a toccarci, a vederci, a parlarci, a ballare, a stare insieme nella gioia, oltre che nella lotta. Smettere di mandarci i messaggini sui social e ricominciare a parlarci, a spiegarci, pure a litigare, ma respirando la stessa aria.
A me passerà. Per quanto non sia nata per realizzarmi nella lotta5, non sono nemmeno davvero capace di mollare. Fra due giorni compio 52 anni, sto invecchiando in un mondo fascista. Farò del mio meglio per non morirci, però se pure tu prendi i piedi e vai a votare, vai in un circolo, vai a un’assemblea e cominci a partecipare forse qualche possibilità in più ce l’abbiamo.
Sigla finale!
Giulia
Con l’appoggio di Peter Thiel e in generale dei tech bros miliardari, che dal regno di Trump hanno solo da guadagnare, anche al netto delle loro visioni totalitarie.
Posso argomentare in lungo e in largo, ma la versione breve è: Corte Suprema degli Stati Uniti, maggioranza conservatrice 6-3, trumpiani più o meno dichiarati 5, di cui 3 nominati da Trump in persona.
Darei qualsiasi cosa per tornare al momento in cui ho scritto quella newsletter, e Meloni aveva già vinto le elezioni. Pensa come sto.
Non c’è alcuna separazione fra diritti civili e diritti sociali. Chi si trova in una condizione di marginalità per la sua identità non percepisce certo la differenza fra la fame che prova perché è trans o migrante e la fame che prova un uomo bianco che vive in macchina.
Io sono nata per raccontare storie, quella è la cosa che continuo a voler fare più di ogni altra. Quello è il mio orizzonte. La vita sta andando in un altro modo.