Il mio attivismo è più grosso del tuo
Riflessioni a valle del Roma Pride, e una cosa che sto vedendo.
Ieri mattina ho mandato la prima bozza del libro nuovo alla mia editor, poi mi sono seduta, ho fatto la lista delle cose che avevo lasciato in sospeso per lavorare al libro, e mi è preso un momento di sconforto. Il libro era diventato un po’ come il rimorchiatore di traverso nel canale di Suez: non c’era modo di aggirarlo, toccava aspettare che venisse via. Adesso che il grosso è fatto, mi ritrovo con un carico di lavoro e scadenze immediate paragonabile alle chiatte bloccate in attesa: niente è rimandabile.
Il sabato pomeriggio è stato dedicato al Pride, che per me è praticamente una festa comandata. Non ho fatto molte foto (sono stata per lo più occupata a ballare, parlare con gli amici, e tenermi idratata date le temperature). Borraccia, cappello, protezione solare, applicazione di Acea che ti dice dove sono le fontanelle, sandali comodi: questo il mio equipaggiamento per affrontare un percorso molto lungo, da piazza Repubblica fino a Caracalla, almeno un paio di chilometri più in là del solito approdo ai Fori Imperiali.
Ci sono andata nonostante le polemiche e le divisioni fra Roma Pride e Priot, perché sono d’accordo con chi dice che i Pride sono fatti delle persone e dei corpi che li attraversano, non degli sponsor. Da quando - da sempre, da quando ero giovanissima - so che fra me e le persone che compongono la sigla LGBTQIA+ non c’è alcuna differenza antropologica e che in una folla è impossibile capire a occhio chi è queer e chi no, scendo in strada a sostegno di una tribù che mi ha aperto una porta e permesso di condividere un pezzo di cammino che si sovrappone in più di un punto con quello dei femminismi. Con buona pace delle TERF, che insistono a qualificarsi come “femministe” anche se il loro odio verticale sulle persone trans è l’unica posizione che le qualifica dal punto di vista politico e umano, e sono capaci di unirsi e agire solo in base a quello.
Dicevo: a dispetto delle polemiche, soprattutto interne alla comunità, che se da un lato sono legittime (e lo sono!), dall’altro finiscono spesso per scadere nel peggior attivismo performativo, quello che possiamo riassumere in “Il mio attivismo è più grosso del tuo”. È vero, almeno in parte, che i Pride sono depotenziati dalla loro stessa ritualità, oltre che dall’eccessiva presenza di sponsor: Roma Pride, in particolare, ha una tradizione stradaiola e di disturbo del perbenismo che mi pare stia venendo meno, anche in funzione della presenza di attori che a forza di polemiche finiscono per spostare il focus del problema. E il problema per cui i Pride esistono e continuano a essere necessari è che viviamo in un paese in cui le persone queer sono cittadinə di serie B, privatə di molti dei diritti essenziali delle persone eterosessuali e cisgender (matrimonio paritario, diritto al riconoscimento della genitorialità e all’adozione dei figli del o della partner, limiti sempre più assurdi e ingiustificati alle cure per l’affermazione di genere, oltre che discriminazioni, botte e aggressioni che rimangono per lo più impunite).
Mi sembra giusto, anzi, giustissimo portare il tema di quello che sta succedendo a Gaza nel corteo, anche perché il popolo palestinese è affetto da una sorta di queerness della nazionalità: esiste, ma non ha un territorio o un governo riconosciuti e tutelati dalla comunità internazionale. Mi sembra, tuttavia, criticabile trasformare il discorso su Gaza in un concorso per Miglior Attivista Protagonista, e su questo problema (che si ripropone spesso in ogni branca dell’attivismo, e non è esclusiva di quello in sostegno della Palestina) dovremmo forse fare una riflessione. Mentre noi ci scanniamo per chi è più bravo, coerente e puro, per chi ha più coscienza e boicotta meglio le grandi manifestazioni politiche trainate dalla comunità LGBTQIA+, Meloni fa comunella con Orbán e sfotte Schlein perché intende partecipare (a proprio rischio e pericolo) al Pride vietato in Ungheria.
Facciamo che ci ricordiamo chi è davvero il nostro nemico, che ne dite?
Sto guardando
Nel 2012, nell’interregno fra la fine del contratto per Una mamma per amica e il successo strepitoso di The Marvelous Mrs Maisel, Amy Sherman-Palladino e suo marito Daniel Palladino producono Bunheads, una serie ambientata ancora una volta in una piccola città (in California invece che in Connecticut), che vede protagonista la star di Broadway Sutton Foster nei panni di una showgirl di Las Vegas che a seguito di un matrimonio impulsivo si ritrova, vedova, a gestire una minuscola scuola di danza insieme alla suocera, che non la conosce affatto. Bunheads era (uso l’imperfetto, perché in Italia non è disponibile) deliziosa, divertente, e faceva un uso della danza molto interessante, con dei momenti strepitosi, tipo questo.
È sulla scorta dell’amore per Bunheads (e per The Marvelous Mrs Maisel) che ho cominciato a vedere Étoile, arrivata da poco su Prime Video, ed è… ok. Da un lato c’è sempre l’amore sconfinato degli Sherman-Palladino per la danza, il teatro e la performance, nonché per i dialoghi a mitraglietta, una battuta dietro l’altra, con i personaggi che non sembrano mai, mai, mai soffrire di esprit de l’escalier, quella peculiare frustrazione che ti prende quando una buona risposta ti viene in mente ben dopo che una conversazione si è conclusa. Dall’altro, però, l’intera operazione manca di sale.
Gli ingredienti ci sono: Luke Kirby (che in The Marvelous Mrs Maisel era un bonissimo Lenny Bruce), Charlotte Gainsbourg molto francese ma anche molto figlia di Jane Birkin, tutti i tipi umani preferiti dagli sceneggiatori (coreografo geniale e probabilmente neuropiccantino1, prima ballerina stronza imperiosa a cui si perdona tutto perché bravissima, vecchia signora burbera ma di cuore, giovane ingenua perfezionista alla ricerca del suo posto nel mondo, personaggi pittoreschi di varia natura e Kelly Bishop), i pesci fuor d’acqua (danzatori e coreografi scambiati come calciatori di serie A fra due compagnie in difficoltà ai due lati dell’Atlantico) ma manca qualcosa, non so bene cosa. Lo scontro fra culture, che in Bunheads si giocava sul piano generazionale oltre che su quello personale, è annacquato: lo scambio fra New York e Parigi è un gioco ad alto livello e fra istituzioni e persone che possono sopravvivere a un fallimento, i giovani sono per lo più in secondo piano, le storie d’amore sono meno brucianti. Lou de Laâge è pazzesca nel ruolo di Cheyenne Toussaint (pensavo fosse una ballerina vera, invece ha imparato l’inglese e a danzare apposta per il ruolo), Luke Kirby è sempre bonissimo, Gideon Glick si ruba qualsiasi scena preveda la sua presenza, e la danza è sempre la danza, ma… boh? Forse sono io.
Ci risentiamo martedì.
Giulia
Neurospicy è il modo adorabile con cui molte persone neurodivergenti si autodefiniscono in inglese, ne faccio una modesta proposta di traduzione.
Voto no per neurospicy, con tutto il rispetto per chi se lo sente bene addosso.
Condivido tutto sull'attivismo. 'Na tristezza da qualunque lato la guardi. Ma si può fare attivismo anche in silenzio, e queste persone esistono. Diciamo che ecco io preferisco quel genere li.
Etoile invece è di una poesia unica: coreografie che mi sono gustata con occhi sognanti, ho amato guardarla, ho chiaramente amato Cheyenne, ma anche questo palleggio di ruoli. Fra le serie sulla danza questa è quella che ho amato di più. Però non ho visto Bunheads. Ti dirò.