Il silenzio e la cura
Questa settimana: perché non dico niente sull'argomento del giorno, e un piccolo prontuario per la manutenzione e la cura di chi fa attivismo
Ho delle opinioni sulla situazione in Israele, me le tengo per me. Scelgo il silenzio, l’assenza di posizionamento a ogni costo su una questione complessa, stratificata, che preferisco approfondire e seguire piuttosto che piantare bandierine per non farmi rompere le palle dai fanatici che pretendono di trasformare tutto in uno scontro fra ultras. Risparmio retorica, bandiere e bandierine della pace, gif di colombe e video sanguinolenti che hanno il solo scopo di impressionare la gente ma che non aggiungono niente all’informazione o al dibattito. Leggo, ascolto, non invado i social con la mia inutile emotività su un tema che non ha bisogno del mio contributo. Pratico l’ascolto attivo. Ho delle opinioni di cui il mondo, in questo momento, non ha alcun bisogno.
Non è un pensiero nuovo, credo di averlo già espresso in altri momenti in cui mi sembrava che la mia intera bolla si stesse affannando a collocare la propria presenza intorno a un tema non per dare un contributo significativo, ma solo per dire “Eccomi, ci sono, ho detto la mia”. Mi pare un modo molto irrispettoso di trattare questioni delicate, perché equivale a usare la sofferenza altrui - specialmente quella di persone che si percepiscono come lontane - per costruire il proprio brand.
Quello che segue ha molto a che fare con quello che ho appena detto, ed è in parte coperto dal libro di Irene Facheris Noi c’eravamo, che parla proprio di attivismo.
Prenditi cura dellǝ tuǝ attivistǝ
Fare attivismo non è obbligatorio, perché fare attivismo non è facile. Neanche chi fa attivismo è attivista 24 ore su 24, 7 giorni su 7, primo perché non è umanamente possibile, secondo perché le persone non sono mai una cosa sola, e anche chi si occupa di temi sensibili o cause umanitarie con costanza ha bisogno di staccare, di pensare ad altro, di non partecipare. Purtroppo, nell’era dei social e della comunicazione istantanea perenne chi fa attivismo è anche, spesso, oggetto di una forma di attenzione che oscilla in maniera molto brusca fra la venerazione e il disappunto: venerazione quando fai o dici cose in cui le persone si riconoscono, disappunto quando dici cose che sembrano poco condivisibili, sono poco condivise, o non ti esprimi su un tema, un episodio, un argomento su cui la gente che ti segue si aspetta che tu, come un oracolo dell’antichità, abbia qualcosa da dire.
Quella che segue è un breve elenco di cose da ricordare quando ci si rapporta con le persone che fanno attivismo, e che servono a minimizzare il rischio di mandarle in burnout, con conseguente sbrocco e fine dell’attivismo.
L’attivista non è un juke-box1
“Perché non parli di questo?” “Perché non ti esprimi su questo?” “Abbiamo bisogno della tua opinione su questo” “Non hai detto niente su questo, quindi la tua opinione su quest’altro non è valida”. Once more, with feeling: la gente, soprattutto quella che non ricopre incarichi istituzionali e non è obbligata a rendere chiara la sua posizione su tutto quello che può influire sulle sue decisioni, parla di quello che vuole quando vuole. A volte parla di un tema perché lo trova interessante e pensa di avere qualcosa da dire. Altre volte ha qualcosa da dire ma non lo dice perché sente di non saperne abbastanza da esprimersi. Altre volte ancora ha la testa altrove e zero voglia o tempo di tenere concioni. Oppure, banalmente, sa che esprimendosi su un tema (specialmente sui social) le rotture di cazzo supererebbero ampiamente i benefici dell’essersi espressa.
I messaggi privati o pubblici come quelli qui sopra generano ansia e richiedono una performance. Lascia in pace la gente: se vuoi occuparti di un tema, fallo in prima persona, se ne vuoi leggere cerca altre voci. Non sai nulla di quello che sta passando o pensando chi in un dato momento tace, potrebbe essere che stia lavorando a un progetto oppure semplicemente sta a letto con la voglia di morire, e per giunta ci sei tu nei suoi DM che pretendi che salti a comando per acchiappare i pesciolini al volo come una foca ammaestrata.
L’attivista non è un megafono
Uno dei tanti malcostumi che colpiscono le persone che fanno attivismo è il tag coatto, vale a dire gente che ti tagga costantemente nei suoi contenuti per attirare la tua attenzione, sperando in una diffusione. Risultato, soprattutto su Twitter: ti ritrovi le mention intasate di gente che risponde “È una vergogna!” o altre inutili banalità pronunciate solo per, appunto, mettere in scena l’indignazione. Se tutta la gente che commenta “È una vergogna!” poi facesse davvero qualcosa (andasse a votare, si occupasse di politica, di ambiente, di disuguaglianze, di violazioni dei diritti umani) sono abbastanza convinta che avremmo intorno un mondo migliore.
Al malcostume di cui sopra si aggiunge quello della gente che ogni giorno che Dio manda in Terra ti chiede di occuparti della sua campagna, della sua causa, della sua iniziativa. Non voglio tirare in ballo la metafora dei cucchiai2 che viene utilizzata dalle persone che soffrono di malattie croniche o invalidanti, non avendo io una diagnosi di quel tipo3, ma dopo un po’ sopraggiunge un senso di affollamento, misto a una sgradevole percezione di essere consideratǝ, appunto, non una persona ma un impianto di amplificazione in virtù di un seguito che chiunque vuole sfruttare, senza però avere mai fatto lo sforzo di coinvolgerti in altri modi in precedenza, e senza darti il tempo di approfondire l’argomento o il posizionamento dei promotori di una campagna. Ancora una volta si torna sull’attivismo come performance, più che come azione continuata che è frutto di un lungo ragionamento sulla realtà.
L’attivista non è uno sfogatoio
Problemi personali, guai con la famiglia, questioni delicate o momenti di rabbia che non si sa a chi raccontare, ma c’è l’attivista e ci sono i DM e quindi TAAAAC! ecco trovato il punto di scarico per tutti i tuoi guai. C’è una differenza abissale fra chiedere un parere a una persona che si conosce e di cui ci si fida, o con la quale abbiamo un rapporto diretto perché magari è nella nostra orbita per motivi diversi dall’amicizia (che ne so: un’insegnante o un’altra figura adulta di riferimento) e accollare faccende sensibili a persone sconosciute che potrebbero anche dirti delle cazzate, o trovarsi in una condizione non adatta a reggere il peso della sofferenza altrui. L’attivista non ha le soluzioni a tutti i problemi del mondo, e anche quelle che ha spesso vengono ignorate nonostante le riproponga con costanza per anni (e magari a un certo punto vengono pure adottate, ma che fatica). Soprattutto, l’attivista non è uno sportello di assistenza o il referente HR dell’universo. Chi fa attivismo è un essere umano che dedica già una certa quantità di energia a gestire la frustrazione legata alle ingiustizie che vede e al fatto che il suo lavoro viene accolto, quando va bene, con indifferenza, e quando va male con aperta ostilità. Doversi caricare anche quelli di persone che non conosce aggiunge un carico di responsabilità e di ansia che possono nuocere alla sua salute mentale.
L’attivista non è la tua mamma
La mamma è una figura, prima che concreta, simbolica. I bambini molto piccoli dicono “mamma” per dire “aiuto”, e il lavoro del genitore è anche e soprattutto un lavoro di cura che si esprime nell’aiutare i figli e le figlie a crescere. “Mamma”, qui, è usato per indicare il genitore accudente, che spiega, sorregge, sostiene, incoraggia, è sempre a disposizione perché quello è il suo compito, essere lì per aiutarti a diventare grande.
L’attivismo prevede naturalmente una parte pedagogica, o almeno, dovrebbe: la mancanza di pedagogia femminista nel passaggio fra la seconda e la terza ondata (dovuta principalmente alla riluttanza delle donne della seconda ondata a cedere terreno alle nuove attiviste) ha creato un buco generazionale di cui vediamo gli effetti nell’arretratezza del nostro paese rispetto a certi temi. È ovvio che chi fa attivismo cerchi anche di spiegarsi, ma di solito lo fa attraverso i canali che ha scelto per veicolare il suo messaggio, che siano video, articoli, libri, interventi pubblici o la sua arte.
Il problema è che questa funzione pedagogica viene spesso equivocata, soprattutto quando l’attivista è una donna. Alle donne si richiede, appunto, di essere pacate, di spiegarsi e rispiegarsi, di dare tempo e spazio della propria vita agli altri. Soprattutto a gente che ti chiede “un confronto” quando non vuole affatto confrontarsi, solo romperti le palle, come si farebbe con un genitore negli anni in cui litigare con il genitore è essenziale per formare la propria personalità. L’attivista non è la tua mamma, vai a ricreare i tuoi conflitti adolescenziali da un’altra parte.
L’attivista ce ne ha sempre una, perché ce n’è sempre una
Mentre scrivevo questo pentalogo, mi è arrivata la segnalazione che per l’ennesima volta un’istituzione (questa volta: la Regione Lazio) è andata all’attacco di Lucha y Siesta, la casa delle donne di Roma che è anche uno dei più grandi centri antiviolenza della città. Lucha è un posto che mi è caro, ci sono stata più volte e ho sempre sostenuto le sue fondatrici nel loro lavoro: vederla di nuovo sotto attacco, questa volta da parte di una giunta regionale che da programma elettorale pensa che le donne debbano stare a casa a fare figli4, mi fa una grande rabbia. Rocca e compagni VOGLIONO che io sia incazzata, ovviamente, perché adorano generare frustrazione e impotenza nelle donne che si impegnano contro tutto quello che loro rappresentano, a partire dall’autonomia di pensiero, e anche perché lo sfratto di Lucha è ormai una sorta di dichiarazione di intenti mista a vendetta contro gli avversari politici. E indovina un po’: l’esponente di FdI che ha deciso per lo sfratto è una donna, l’assessora Simona Baldassarre. Ho già detto quello che dovevo dire, in merito alla pia illusione che Una Donna possa fare la differenza in positivo per tutte le altre.
Ogni tanto vorrei stare tranquilla. Avere una bella notizia, una vittoria, una gioia non mia personale, ma collettiva. Vorrei sapere che le cause per cui mi sono spesa sono cause vinte, realtà consolidate, non situazioni precarie che possono essere buttate all’aria per vendetta o disegno politico. Invece ogni giorno così, e in cima a tutto c’è pure la gente che pensa di poterti bombardare di richieste, sfoghi, link, libri, segnalazioni, eventi, inviti, che ti usa per girarti video, immagini, roba che dovresti vedere, e ognuna di queste segnalazioni viene da una persona che pensa di essere l’unica.
Per oggi basta, avevo altre cose ma me le tengo per un altro momento.
Giulia
Giovani, cliccate qua.
Se non si contano i malanni osteoarticolari, che mi trascino da quando ero bambina, ma anche quelli fanno.
Cercatevelo, il programma di Rocca. E se non avete votato alle regionali, cercate uno spigolo e dategli una botta forte con la capoccia. Ve la mando io.
In fondo basta mettersi dalla parte delle vittime, quelle di oggi e quelle di ieri. Altra buona cosa è aspettare un po’ a parlare. Non sono consigli rivolti a te, che già li applichi sempre.
Mi auguro tu possa prenderti cura di te. Ti auguro una delle vittorie che tanto vorresti. Leggo con interesse e ringrazio per l'impegno. Non metto cuoricini per la mia personale battaglia contro le metriche, ma ti stimo, spero basti.