La fine dei sogni
Questa settimana: un po' di silenzio, un po' di Oscar, un po' di America, un po' di libri e un po' di date.
Facciamo così: questa settimana non dico niente.
L’8 marzo è arrivato ed è passato, ho pensato tante cose, non ne ho scritta nemmeno una. Ho viaggiato molto, sono andata a Pavia, a Bruxelles, a Schio. Sono tornata a casa giusto per cambiare i vestiti dentro la valigia. Ho preso la pioggia, ho avuto freddo, ho avuto caldo, sono rimasta chiusa dentro camere d’albergo a godermi il silenzio e il riposo che mi mancavano. Ho scritto cose su Twitter. Ho risposto alle domande di un’intervista fatta da qualcuno che aveva letto in un articolo che sono “un’influencer”, intervista che non credo sia mai uscita. Ho dormito poco. Ho mangiato a casaccio. Ho annusato la primavera. Ho dimenticato gli occhiali in giro. Ho rotto quelli che usavo per leggere a letto. Ho comprato delle scarpe da corsa nuove. Ho ricominciato a correre.
C’erano moltissime cose da dire, certo, e molte le avevo anche già dette la settimana scorsa. Ci sono tuttora molte cose da dire.
Però io sono stanca. È stata una settimana faticosa. E forse non serve che aggiunga niente a ai ragionamenti già fatti da tante altre persone. Forse questa settimana parlo d’altro. Ci rilassiamo, anche qui. Prendiamo fiato.
Però….
Una cosa sola. Domenica notte, il mio film preferito del 2022 ha sbancato agli Oscar (ne avevo parlato qui). Lo speravo - adoro Michelle Yeoh, e quel film è il genere di mattata che mi fa sentire felice di essere uscita di casa per andare al cinema - e il discorso di Ke Huy Quan mi ha fatto venire i lucciconi. Non solo perché quello è Data de I Goonies (DATA HA VINTO UN OSCAR! DATA HA RINGRAZIATO CHUNK! TRACOBETTI!), ma anche perché, come dice lui, quello con l’Oscar in mano era un bambino arrivato in America su una barca, un bambino che ha vissuto un anno in un campo profughi. “This is the American dream”, dice lui, in lacrime, a un’America che quel sogno lo sta buttando al cesso (ne riparliamo dopo).
Le persone migranti, i rifugiati, chiunque scappi dalla povertà dalla fame o semplicemente voglia cercare fortuna non dovrebbe essere costretto a giustificarsi con l’eccezionalità. Non è che per avere diritto alla sicurezza e a una vita dignitosa si debba per forza essere Ke Huy Quan, né dovrebbe essere obbligatorio soffrire per vedersele riconosciute. Però chissà quanti dei bambini annegati a Cutro avrebbero potuto ritirare un Oscar fra qualche decennio, ringraziando l’Italia e l’Europa per essersi fatte patria. Chissà quanti di loro potevano essere architetti, ingegneri, o anche solo brave persone che facevano crescere e fiorire le loro comunità, piccole o grandi. Erano bambini, erano persone, avevano una vita davanti, e li abbiamo lasciati morire. Ora stanno sottoterra, o in fondo al mare, e noi possiamo solo guardarci e pensare che se dovessimo giudicare un intero paese da come viene governato, saremmo davvero un paese di stronzi.
Libri!
Al momento sto leggendo The Atlas Six di Olivie Blake, che qualche giorno fa mi sono svegliata e ho pensato non “bella ciao” ma “Nico Torres è Ronan Lynch”. Questa la capiranno solo i fan di Maggie Stiefvater, ma immagino ce ne siano anche fra chi mi legge. Nel frattempo, a casa mia sono atterrati diversi volumi a cui vale la pena di dare un’occhiata.
E così vuoi parlare di razza? di Ijeoma Oluo è un libro che ci fa la grazia di non iniziare e finire con “Lascia perdere”, perché iniziare un discorso sulla razza e il razzismo essendo bianchi è sempre piuttosto complicato, spesso dannoso. Il lavoro di decostruzione dell’identità bianca è lungi dall’essere avviato, e tutti questi libri (fra cui Il corpo nero di Anna Maria Gehnyei, un romanzo-memoir sull’esperienza di crescere nera in Italia e sul percorso di ricongiungimento con la sua identità liberiana) sono indispensabili a relativizzare il nostro punto di vista e a metterci in relazione con l’esperienza di chi attraversa una società bianca in un corpo che non lo è.
Da tempo lamento la carenza di testi strutturati sulla decostruzione (e ricostruzione) dell’identità maschile. Lorenzo Gasparrini è già una quantità nota, e non credo di dover dare delle spiegazioni su chi sia e cosa faccia, ma tengo a segnalare qui la prossima uscita del suo ultimo testo, Ci scalderemo al fuoco delle vostre code di paglia, che fino dal titolo parte de capoccia. La linea di Lorenzo è da tempo sempre la stessa: il lavoro è stato fatto, i testi ci sono, basta accondiscendenza nei confronti di chi si aspetta la pappa pronta e pretende di essere educato dalle donne con gentilezza e pazienza: solo testate nei denti. Fra una testata e l’altra ti spiego perché ti sto prendendo a testate, eh, ma intanto. Questo pamphlet (è lui a definirlo così nelle prime pagine) affronta le resistenze consce e inconsce dell’universo maschile rispetto alle questioni poste dal femminismo, e le smonta con una serie di elegantissimi calci rotanti.
Ne parlo oggi anche se esce a fine mese, perché fa il paio con un altro, già uscito: Cose da maschi di Alessandro Giammei è più letterario, poetico e introspettivo nel suo lavoro di analisi di cosa significa essere maschi. Non è un testo semplice, di quelli che ti spiegano le cose in modalità pane-e-salame se ti mancano proprio le basi teoriche di tutto (a cominciare dall’idea che “maschio” sia un genere), ma è un viaggio nella maschilità inusuale rispetto a quelli a cui abbiamo fatto l’abitudine, ed è importantissimo per chi ha già cominciato a pensarsi non come assoluto, ma come parte di un insieme più grande. L’introspezione maschile non è una novità, ma di norma è acritica (ti mostro come siamo noi uomini, non metto sul piatto la possibilità che esista un modo per essere diversi) o addirittura autoassolutoria (siamo così, deboli, limitati, ne soffriamo, dovete essere indulgenti con noi). Giammei non ha interesse per queste operazioni da pacche sulle spalle: parte da sé per smontarsi pezzo per pezzo, mettendosi in relazione con il mondo e fornendo un’interpretazione circostanziata dei segni e dei significati che concorrono a costruire l’essere uomo nel mondo, buttandoci dentro tutta la sua cultura, altissima e bassissima, i filosofi e i BTS, Bridgerton e bell hooks. Nel farlo, compone un ritratto della maschilità come identità e come performance di quella identità. Per parafrasare Simone De Beauvoir: uomini non si nasce, si diventa.
Podcast!
Non ho molto di nuovo da segnalare, perché non ho finito niente, ma ho iniziato (con grande ritardo) Will Be Wild, un podcast dedicato all’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021. Lo linko dal sito originale della produzione, ma si trova su tutte le piattaforme. I fatti del 6 gennaio 2021 sono (e rischiano di essere sempre) una ferita aperta nella storia degli Stati Uniti d’America, un paese che sta attraversando un momento molto buio sul fronte dei diritti, della democrazia e della stabilità sociale e in cui membri del Congresso dicono apertamente di volere un “divorzio nazionale” fra gli Stati conservatori e quelli progressisti, dimenticando forse com’è finita l’ultima volta. È la fine del sogno americano, che se mai è esistito è durato giusto un paio di decenni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, quando gli Stati Uniti erano l’unica economia ancora in piedi e in grado di accogliere e far crescere intellettuali, scienziati e lavoratori fuggiti dalla fame e dalle macerie del continente europeo.
La narrazione di Will Be Wild ricostruisce gli eventi, le mancanze, gli allarmi inascoltati e le storture che hanno permesso alle milizie radicalizzate di fare irruzione nella sede del Congresso, con tutto quello che ne è derivato.
La cosa interessante di Will Be Wild non è tanto la narrazione dell’assalto, che si è svolta sotto l’occhio delle telecamere ed è stata seguita in mondovisione, quanto le storie di chi c’era: i poliziotti, i terroristi (perché di questo si tratta), le famiglie dei terroristi. Per esempio: Jessica Watkins, affiliata agli Oath Keepers, è una donna trans con un passato nell’esercito e una vita difficile alle spalle, come tanti di quelli che si sono fatti abbindolare dalla retorica nazionalista che sta spaccando il paese. Watkins è stata incarcerata in una prigione maschile (con tutti i rischi che questo comporta), e in prigione è diventata la migliore amica di Guy Reffitt, un altro affiliato alle milizie nazionaliste che era presente a Capitol Hill nel giorno dell’irruzione. La moglie di Reffitt racconta che il marito, omofobo e transfobico per cultura, tratta Watkins con rispetto e usa perfino “i pronomi giusti”. Miracoli della prossimità con un altro essere umano, ma anche il potere unificante di un’ideologia violenta rispetto alla possibilità di vivere, invece, in pace e armonia con le persone, senza giudicarle o pretendere di sopprimere la loro identità o sostituirsi a loro nelle scelte di vita.
Date!
Sono le stesse della settimana scorsa, ma per completezza:
Il 25 marzo, a Paliano per un incontro alla Sala Teatro Esperia, ore 17.30.
Il 30 marzo sono al Pordenone Docs Fest per una tavola rotonda sull’inclusività: tutti i dettagli qui.
Il 21 aprile sono a parlare di Scintilla nel buio alla Casa delle Donne di Terni (dettagli da confermare).
Il 22 aprile sono all’International Journalism Festival di Perugia, per un panel in cui si parla di aborto.
Abbracci. Ci sentiamo la settimana prossima.
Giulia