Il Capodanno mi mette angoscia. Saranno i timori ancestrali, la notte buia dell’inverno, qualche trauma infantile che non ricordo, o solo che si chiude l’anno fiscale e io penso sempre di aver fatto qualche cagata irrimediabile con le fatture (è un terrore molto da partita iva), ma per me la notte del 31 dicembre è una notte che devo passare sveglia, in compagnia, con un bicchiere in mano, delle cose rosse addosso (quest’anno: rossetto e un paio di orecchini nuovi), dieci nove otto sette sei cinque quattro tre due uno BUON ANNOOOO! Io, che sono un’orsa che 364 giorni l’anno sta benissimo in casa, la notte dell’ultimo dell’anno devo uscire assolutamente, se no comincio a smaniare, e quando a mezzanotte Roma esplode di fuochi sto alla finestra con la sensazione di perdermi la vita, il mondo, tutto.
È il 2 gennaio, il Capodanno l’abbiamo superato (anche se il conto alla rovescia l’ho fatto da sola, a mente, stando in piedi nel retro di un palco a Pesaro: è una storia divertente, ma come molte storie divertenti va raccontata a voce) ed eccoci qua, nel nuovo anno fiscale che impiegheremo qualche settimana a non sbagliare quando scriveremo una data su un modulo.
Io di propositi non ne faccio più da tanto tempo, all’inizio perché avevo capito che faccio comunque del mio meglio e arrivo fin dove arrivo, e dove non arrivo o sono i miei limiti o è il capitalismo, ma non è che ci si possa fare molto (sul breve periodo, almeno). Ora ho smesso anche perché ho capito che non è che il primo gennaio ci svegliamo nuovi, è solo una sensazione indotta dal silenzio della mattina di Capodanno, quando il mondo sembra addormentato e in realtà è solo in post-sbronza. Il primo gennaio siamo le stesse persone del 31, con la stessa stanchezza e gli stessi problemi. Il tempo è un flusso e la scansione degli anni è solo una convenzione utile a misurare la distanza probabile fra noi e la morte.
Ho smesso perché fare buoni propositi è ansia da prestazione, e io di quella ne ho abbastanza per i fatti miei, senza causarmela in maniera artificiale aumentando il livello di performatività. La cultura collettiva si è ridotta a listoni di “Dieci abitudini delle persone di successo” che prevedono sveglie all’alba, attività fisica regolare, dieta ferrea e lavorare lavorare fatturare fatturare, una milanesizzazione del paese che non funziona più neanche a Milano, figuriamoci quaggiù dove ci ostiniamo a goderci la vita il più possibile, anche se questo significa essere inconcludenti rispetto ai traguardi professionali minimi per non dirsi falliti. È tutta roba che mi fa schifo. La soffro e l’accuso, ma la rifiuto pure. Io non sono il mio lavoro. Io non sono i soldi che faccio, la popolarità che ottengo, la riconoscibilità del mio nome. Quelle sono cose che servono in un sistema cannibale che svaluta l’umanità e obbliga l’individuo a lottare per accaparrarsi una fetta di risorse sempre più scarse e mal distribuite.
Non faccio neanche più bilanci, e comunque: che bilancio si potrà mai fare dell’anno che si è portato via Michela? Sono passati mesi, e io sono ancora nella fase “negazione” del lutto: una parte di me pensa ancora che ci incontreremo per caso a Mantova e berremo un caffè a un baretto qualsiasi mentre lei mi spiega come funzionano i suffissi onorifici in coreano, sapendo che nessuno al mondo si diverte più di me con queste cose, se non forse i linguisti, i glottologi e Luca Misculin.
Non ci credo, poi la vedo in un video, in una foto, e mi ricordo che non c’è più. Non penso “morta”, la morte è il processo fisico che ti porta a scomparire da questa dimensione, e io non riesco a pensare a lei che attraversa quel processo fisico, è un’immagine che la mia mente rifiuta di elaborare. Il numero di Vanity Fair che ha diretto giace incellofanato su una sedia, non l’ho mai aperto, forse non lo aprirò mai. Qualche mese fa, parlando con un’amica comune, lei mi ha detto di non averlo neanche comprato. Lì dentro c’è scritto che Michi stava morendo. Io lo so, lei lo sa, tutte e due sappiamo che è successo. Ma non ci crediamo. O comunque, io non ci credo. Tutte e due siamo ora nel 2024, e Michela no. Abbiamo varcato quella soglia simbolica senza di lei.
Allora eccoci. E lo so che da me ci si aspetta altro, ci si aspetta conforto, incoraggiamento, dai dai dai che ce la facciamo, le mie amiche di Roma mi chiamano “Bearzot” per un motivo che non è l’essere friulana e sicuramente non è che fumo la pipa1. Allora dico questo, che i nuovi anni non risolvono i problemi ma creano una pausa. Ci si ferma, si respira, si prova a guardare le cose da un punto di vista diverso. Ci si riprova. Nel 2024 io vorrei provarci ancora, ci proverò ancora. A fare cosa? A fare tutto. Le cose mie, e le cose collettive. Come sempre, finché sarò qua e finché sarò viva.
Buon anno nuovo. Daje tutta.
Giulia
Non la fumo, ma che estetica, la donna con la pipa.
Ti abbraccio forte, buon anno e daje tutto, ma nel 2024 vorrei abbracciarti dal vivo, possibilmente appena arriviamo a Roma con STAI ZITTA! (dicono maggio...)💜
Grazie Giulia per scrivere così bene quello che provo e penso anch'io. D'altronde, a questo serve leggere. E poi, io la fumo la pipa ;) Buon anno!