La cosa che si dice più spesso, quando muore qualcuno di caro a tuttǝ, è che non ci sono parole. Poi però le troviamo sempre, le parole, e non credo di averne mai viste così tante come in queste ore dopo l’annuncio che Michela era morta. Dico “morta”, perché per come la conoscevo lei non era una da eufemismi e non aveva paura delle parole, della loro precisione e del loro significato. È morta. Lo sappiamo da ieri notte. Qualcuno dormiva, qualcuno era sveglio. Qualcuno, più di qualcuno, ha pianto e sta ancora piangendo.
Bisogna trovarle, le parole, per chi ne aveva così tante e così giuste. Bisogna trovarle anche se non sono belle, non sono estetiche, non sono raffinate. Non sarò raffinata, oggi, ma è da quando ho aperto gli occhi che penso solo a scrivere, a scrivere qualcosa, a dare struttura a quello che sto provando, anche se quello che sto provando è una sensazione di svuotamento degli organi interni che di quando in quando mi fa piegare a metà per non gridare.
Michi.
Avrei potuto aspettare, dare tempo a questo lutto, ma so bene cosa succede quando non parlo, quando mi tengo dentro il dolore e non mi permetto di elaborarlo con l’esercizio della scrittura: mi si coagula da qualche parte e non se ne va più, rimane lì come un ospite inopportuno. Non fluisce, non si irradia, non genera. Non c’è senso al lutto e al dolore se non è generativo, se duole e basta. E se c’è un senso in questa morte, è solo quello che ci lascia e ci farà fare da qui in poi.
Michi.
Ci conoscevamo da un sacco di tempo, dal 2007, da un Esor-dire a Bardonecchia in cui finimmo a dividere una stanza in un ostello con Roberta Scotto Galletta. Non c’eravamo mai viste prima, ma si creò subito un’aria da gita scolastica, una confidenza istantanea e spiegabile solo con la natura giocherellona di tutte e tre. A Torino c’erano 26 gradi, era gennaio, la pista di pattinaggio a piazza San Carlo era sciolta, giuro, sciolta, e a nessuno veniva in mente che forse non era proprio una cosa normale. A Bardonecchia c’era il ghiaccio, invece: io avevo degli stivalacci orrendi con la suola di gomma, lei delle ballerine delicatissime. Finì che per arrivare al ristorante mi misi in mezzo fra lei e Roberta e feci da sherpa, i miei stivalacci unici ad avere un minimo di grip sul lastrone che ci separava dalla nostra cena e io unica donna di montagna delle tre presenti.
Lei aveva appena letto in pubblico la bozza del primo capitolo di quello che sarebbe diventato Accabadora. Era scritto in prima persona e non in terza: il grande romanzo che preannunciava era già tutto lì, in quella scrittura potente e compatta, capace - come tutte le scritture migliori - di svelare quello che abbiamo già davanti agli occhi senza che riusciamo a vederlo.
Michi.
Come si parla di qualcuno che è morto e a cui si voleva bene senza parlare di sé stessǝ? Che Michela fosse e sia tuttora una figura straordinaria lo sta dicendo chiunque. Era la migliore intellettuale della sua generazione, e lo dico senza timore di smentita. Lo vedremo sul lungo periodo, l’effetto della sua intelligenza politica, emotiva, relazionale. Vedremo la capacità della sua scrittura di non invecchiare di un secondo, apprezzeremo la sua versatilità, la sua capacità di giocare su più tavoli, di maneggiare più linguaggi e mantenere sempre la curiosità nei confronti del nuovo e dell’ignoto. Me la gioco adesso, scrivendo queste parole che non potevo scrivere quando ancora abitava il suo corpo, perché avevo promesso a lei e a me stessa che non le avrei fatto il funerale da viva.
Sono piena di ricordi, e la cosa che duole di più è sapere che non potremo crearne di nuovi, non con lei presente. Allora ne pesco qualcuno a caso fra quelli che penso rendano giustizia a quello che era come persona, alla cura che aveva per l’altro, e non c’è modo di farlo che non sia mettere in gioco quello che è stata con me e per me. I ricordi delle persone, di chi la conosceva e sapeva di quanta dolcezza era capace, sono quelli che mi piacciono di più. La sua personalità pubblica era volutamente dura, perché lei voleva incutere timore nelle persone che riconosceva come avversarie ideologiche. La sua persona privata, invece, era di una tenerezza quasi infinita. Era dolce, generosa, e non aveva paura di essere vulnerabile.
Sul medio della mano destra ho una piccola macchia, quasi invisibile. Solo io so dov’è, o forse è solo che la vedo ancora perché so esattamente dov’era. Nel 2009 avevo appena pubblicato Nudo d’uomo con calzino, il mio primo libro con un editore grosso, e in un’intervista avevo detto: non sono una scrittrice, sono una che scrive. Michela mi chiamò e mi fece un pacato cazziatone: quanti libri pensi di dover scrivere, prima di chiamarti “scrittrice”?
Almeno tre, risposi io, un po’ imbarazzata. Non era una battuta.
Quando mi chiamò stavo riordinando casa. La telefonata mi rese talmente nervosa che sbattei il dito contro l’angolo del mobile che conteneva la lavatrice, e me lo sbucciai. Ogni volta che mi guardo il dito, ripenso alla cura che mise Michela nel dirmi che dovevo prendere sul serio la mia scrittura, se non proprio me stessa. Ci vuole cura, per individuare una sindrome dell’impostora con quella rapidità, e decidere di intervenire.
C’era Michela Murgia, c’era Michela, c’era Kelledda, c’era Murgy e c’era Michi, e io oggi la piango in questa maniera indecorosa e scomposta perché non so che altro fare. La sua eredità è chiara, solida, pronta per essere tramandata perché accessibile in ogni sua opera, nei suoi scritti, nei podcast, negli interventi che ha fatto, nello spettacolo che ha scritto e in cui ha recitato. Avremo sempre Michela Murgia, anche se non abbiamo più Michela, Kelledda, Murgy e Michi.
Bisogna resistere all’idea di fare delle persone dei modelli, perché le persone sbagliano, cadono, hanno opinioni che non condividiamo, possono fare tutto giusto da un lato e sbagliare tutto da un altro. Gli esseri umani sono pieni di imperfezioni, non ne esiste uno che sia esente da difetti, probabilmente anche a Keanu Reeves puzzano le ascelle. Michela era il tipo di persona che finisce inevitabilmente per essere un modello, perché si è sempre impegnata a fornire modelli: molta della sua scrittura è fondata sulla loro creazione e rielaborazione. Ave Mary, Istruzioni per diventare fascisti, Stai zitta!, God save the Queer: tutti libri pensati per rimettere in discussione quello che siamo e trovare nuove dimensioni per quello che saremo.
Finché lei c’era - e c’è stata veramente fino all’ultimo, tanto da mettersi a battagliare con il sindaco di Ventimiglia su questioni di elementare decenza umana come consentire ai migranti di accedere a bagni e fontanelle nella zona del cimitero, che santa pazienza, è incredibile doverlo dire - potevamo nasconderci all’ombra della sua potenza, dire brava brava e sostenerla. Il peso poi lo portava lei, eh, ma ci sembrava di fare già tanto. Adesso lei non c’è: il peso ce lo dobbiamo distribuire. Con coraggio, sapendo che non avremo mai neanche un quarto della sua potenza espressiva e della sua lucidità, ma possiamo imparare. C’è forza nei numeri, e non c’è modo migliore di raccogliere un’eredità e tenere in vita una persona che amiamo e ammiriamo che buttarci in avanti con coraggio e forza, sostenendoci a vicenda come e più di quanto facevamo con lei. I sorci arcobaleno, gli dobbiamo far vedere, a ‘sti fasci demmerda, a quelli che verranno e pure a quelli che si credono progressisti e invece gratta gratta, nel subconscio c’hanno il Duce che gli fa capoccella.
Ciao, Michi. Non so se mi senti, ma che ti volevo bene lo sapevi, te l’ho detto tante volte. Che ti stimavo e mi fidavo di te, anche quello lo sapevi. Adesso devo abituarmi a vivere in un mondo in cui non ci sei. Non so ancora bene come, ma a stare in ogni momento, cercando la felicità dove la troviamo, un po’ me l’hai insegnato tu.
Giulia
Proprio come Michela ti ha redarguito quando non te la sentivi di definirti scrittrice, credo che non sia giusto ritenerci capaci di meno di Michela Murgia nelle nostre vite. Capisco che questo è il momento del lutto ma ritengo che sia questo lutto a doverci far capire che noi possiamo. E dobbiamo dirlo a gran voce. Non ho ovviamente conosciuto Michela Murgia di persona, ma quello che è arrivato a me dai suoi libri e dalle sue parole, è che noi dobbiamo sentirci pronte con quello che abbiamo. Dobbiamo sentire di avere gli strumenti, strumenti che ella stessa ci ha fornito come fanno dei genitori. E quando ci vengono forniti gli strumenti, essi possono anche non essere percepiti come "abbastanza" ma saremo noi a renderli tali. Bisogna iniziare, improvvisare, sbagliare e ricominciare. Ora si piange ma dobbiamo mostrarle che possiamo fare come lei o anche meglio.
Grazie! Fa bene sapere che c'è chi è consapevole e disposta a prendersi un po' del peso che dobbiamo distribuire. Grazie per queste parole e per non chiuderle dentro facendosi male.