La morte, per chi vive, è un passaggio di stato silenzioso. Un momento quella persona c’è, quello dopo non c’è più: nessun rumore, nessuna frattura nel reale. Il passaggio è fluido, il dolore arriva dopo. La settimana scorsa ne abbiamo fatto di nuovo esperienza, ma mentre cerco di scriverne penso: come si fa a parlare di Teo come di uno che è morto? Di Teo bisogna parlare perché è stato vivo. Perché è stato un motore fondamentale della vita culturale di Milano, e perché era una persona pazzesca. Avventuroso, simpatico, riempiva ogni stanza di benessere. Gli volevamo bene tutti, che lo conoscessimo poco o tanto. Ho attraversato l’ultima parte della settimana dell’8 marzo con un magone che non andava mai via, mi sono appiccicata con tutti gli stronzi di Threads e il retropensiero era sempre quello: ma tu guarda che gentaccia rimane al mondo, mentre Teone non c’è più.
È stata una settimana impegnativa, complicata anche dal fatto che secondo il mio fisioterapista devo fare 50 squat al giorno, e il risultato è che la mattina dell’8 marzo a malapena riuscivo a camminare. Tre eventi fra quello da moderatrice e i due da ospite, più la prima data del tour di Brutta a Genova, andata benissimo (teatro pieno, applausi a scena aperta) nello stesso giorno dell’ultimo evento ma in una città diversa, seguita a strettissimo giro da quella di Bologna, con un pubblico caldissimo e ovazione in piedi che mi ha commossa fino alle lacrime. È strano vedere la gente ridere e applaudire per qualcosa che hai scritto, anche quando la voce e il corpo che portano in scena quelle parole non sono i tuoi.
Mentre tornavo in hotel dopo lo spettacolo di Genova, fradicia di pioggia e di stanchezza, mi è tornato in mente una cosa che mi dicevano spesso i miei genitori quando ero ragazzina: “Non ti mettere in mostra”. Mettersi in mostra, esibirsi, fare show, tutte le cose che mi rendevano adorabile da piccola, con la crescita erano diventate disdicevoli. Mettersi in mostra significava esporsi: allo sguardo, ma anche al ridicolo. Se ti metti in mostra, le persone possono ridere di te. Se ti metti in mostra, è perché non conosci i tuoi limiti. Sii discreta. Sii modesta. Non dare alla gente la possibilità di ridere di te occupando uno spazio che non ti spetta.
Non credo sia per questo che mi sono scelta un percorso lavorativo che si esercita per lo più in solitudine. Ho sempre voluto raccontare storie, da quando ho cominciato a raccontarmele da sola e ho scoperto, anno dopo anno, che l’invenzione mi appassionava. Quello che era iniziato come escapismo è diventato dapprima costruzione ed esplorazione di mondi alternativi, e in seguito un modo per riordinare i pensieri. È una scelta che, quando diventa lavoro, implica un modo di “mettersi in mostra” che sulla carta è molto limitato. Presentare un libro non è considerato “mettersi in mostra”, nonostante sia, per certi versi, una performance: io sto sul palco e devo convincere la gente a comprarsi quell’oggetto di carta con delle parole dentro che ho scritto io. Non è facilissimo, e non sempre la moderazione è all’altezza del compito, essendo a sua volta una performance che però deve mirare a rendere attraente quell’oggetto di carta senza occupare troppo spazio rispetto all’autrice e all’oggetto stesso. Alzi la mano chi non ha sentito salire la cecagna a una presentazione in cui il moderatore utilizzava i primi cinque minuti dell’incontro per fare un lunghissimo cappello introduttivo, mentre davanti a lui l’autore taceva imbarazzato con la sensazione di assistere al proprio elogio funebre1.
Di me bambina dicono che ero timida, ma forse non è vero. Forse ero solo una bambina a cui era stato insegnato a non dare nell’occhio. Ho cominciato a sospettarlo quando ho notato che Davide, mio nipote di mezzo, già a due o tre anni amava essere al centro dell’attenzione e ai pranzi di Natale con la famiglia allargata andava a stuzzicare le persone con cui aveva meno familiarità finché non riusciva a farsi guardare. Questa volta, però, nessuno gli dice di fare il bravo e di stare tranquillo: un po’ perché è simpaticissimo, e un po’ perché forse a questo giro sembra che abbiamo capito tutti che anche quello è un talento. E i talenti vanno nutriti, non soffocati.
Sto girando intorno alla parte difficile da scrivere. Io ho sempre saputo che stare su un palco mi piaceva, che c’era una parte di me che rimaneva inesplorata. Quando ne ho avuto l’occasione, l’ho fatto. Ma ogni volta che lo faccio (e mi diverto, e sento la gente che si diverte), c’è una vocina dentro di me che continua a ripetere che non va bene. Che sono troppo vecchia, che non ho studiato per fare queste cose, che il palco è per i professionisti. Che sto esagerando. Non dovrei mettermi in mostra. L’educazione femminile è anche questo: domandarsi ogni giorno se si è degne di occupare uno spazio pubblico, domandarselo anche a fronte di ripetute conferme.
Per chi c’è, le prossime tappe del Brutta tour in cui violerò la mia censura interna salendo sul palco dopo lo spettacolo per un Q&A con il pubblico sono Venezia (28 marzo), Padova (29 marzo) e San Vito al Tagliamento (30 marzo). A quelli di Quarta Parete Roma è piaciuto.
Le altre date
Oggi alle 18.00 ci vediamo in AANT, a via Monza 21, per il secondo incontro del ciclo Parliamone. Questa volta con me c’è il mio compare Lorenzo Gasparrini, who needs no introduction.
La sera del 15 marzo alle 19.00 ci vediamo a Caorle all’Enoteca Enos per La via delle donne. Adoro la location, l’unico rischio è che mi diano del rosso buono prima dell’incontro, perché a quel punto (per tutto quello che è stato scritto sopra) chi mi tiene più. Chiedete a Vera Gheno cos’è successo la volta che siamo salite su un palco con un bicchiere di vino in mano, la risposta potrebbe contenere la parola “panico”.
Il 22 marzo invece sono a Castelfranco Veneto per Sottosopra festival, con un incontro intitolato Femminismi plurali.
(Qui in mezzo, oltre al tour di Brutta, ci saranno delle cose che posso dire solo da partire dalla settimana prossima.)
Il 17 aprile faccio finta di non avere 51 anni compiuti al Festival dei Giovani di Gaeta.
Il 20 e 21 aprile è la volta del mio amatissimo Festival del giornalismo di Perugia, che è praticamente una gita scolastica in cui stacco il cervello. I panel a cui partecipo sono due:
20 aprile, ore 19.00-19.50: Anche la ricerca scientifica ha un problema di genere
21 aprile, ore 20.00-21.15: Queer libera tuttǝ
Per le altre ci aggiorniamo più avanti.
Un’ultima cosa
Ci tenevo a ringraziare chi in questi mesi mi ha detto che apprezza questa newsletter. A volte è faticoso metterla insieme, e a volte proprio non mi riesce per questioni di tempo, ma non ho mai pensato di smettere: sottrarmi alla logica dell’iperproduzione, del pensiero algoritmico, dell’ostensione della mia immagine per tornare a fare quello che amo - scrivere, raccontare scrivendo, spiegarmi scrivendo - è qualcosa che non ha prezzo. Le pacche sulle spalle fanno bene, e sono contenta di riceverle. Grazie, davvero.
A martedì prossimo,
Giulia
Non era la settimana migliore per questa metafora, ma non ce n’era una più adatta. Ogni volta che mi tocca stare seduta vicino a una persona che sciorina la mia biografia al pubblico presente mi viene voglia di alzarmi e tornare quando ha finito.
Grazie Giulia, è molto bello leggerti tutte le settimana.
La frase "Non metterti in mostra" detta fin da piccola è quella vocina che ti resta dentro tutte le volte che stai per alzare il dito per dire il tuo pensiero. Ma quella frase rimbomba: "non ti esporre", non, non, non e poi si esplode. Chi riesce a farlo. Ma quanto tempo passa, quante occasioni perse per dire come la pensavamo, per dire che non eravamo d'accordo, che non ci stava bene. Grazie per la tua condivisione, la vocina ci sarà sempre ha solo abbassato il volume. Ma è già qualcosa.
"...domandarselo anche a fronte di ripetute conferme"... quanto mi risuona :((