Quindi oggi comincia Sanremo?
Questa settimana: la solita newsletter, ma con un avvertimento.
Da dove si comincia, questa settimana? Dal fatto che abbiamo scavallato le 10.000 iscrizioni, o che oggi inizia Sanremo? Facciamo tutt’e due le cose, più che altro perché chi fa parte dell’ultima ondata magari non sa che questa newsletter, che di norma arriva il martedì, durante Sanremo diventa quotidiana con il VAR delle singole serate.
Se sei arrivatǝ qui con l’ondata della settimana scorsa: grazie per la fiducia. Se invece sei qui da prima: bella zi’.
E ora: Sanremo!
L’ho spiegato l’anno scorso, lo rispiego quest’anno, come tutti gli anni: Sanremo è un termometro della cultura collettiva degli italiani. Un programma che, proprio come il paese che rappresenta, è cambiato pochissimo nel corso dei decenni: qualche ritocchino alla formula, a volte playback a volte no, vallette sì vallette no, giuria demoscopica sì no forse ma chi se ne frega della demoscopica, insomma, sempre lì stiamo. L’Italia è un paese conservatore, e niente dice “conservazione” più di un festival che dal 1987 a oggi si è affidato quasi sempre allo stesso scenografo, che ogni anno prende l’angusto teatro privato in cui il festival si svolge dal 1977 e lo invade con una creazione a metà fra l’astronave madre dei B movies e le giostre della Sagra del Vino. Creazione che non sarebbe completa senza la scala ripida e liscia da cui le ospiti femmine devono scendere, in abito da sera e con i tacchi, senza rotolare a terra o rompersi un malleolo, ed essendo quasi sempre costrette ad accettare l’aiuto del conduttore, rigorosamente maschio. Questo se non se le dimenticano lassù, senza presentarle, come Carolina Crescentini l’anno scorso.
Non si può parlare di cultura pop senza guardare Sanremo. Sanremo è un testo obbligatorio. Si guarda, un po’ divertendosi, spesso con fastidio, sempre con fatica dato che finisce a orari incompatibili con il lavoro, la vita e il bioritmo di Fiorello, perché da quello che passa sul palco dell’Ariston si capisce che aria tira nel paese, o meglio: in che modo il paese vuole vedersi e raffigurarsi nel momento in cui il festival va in onda. Quindi anche quest’anno lo seguiremo, anche se la serata della finale io me la vedrò a Palermo, alla vigilia di un workshop a cui probabilmente arriverò in stato comatoso.
Tutto questo per dire che da domani, a orari variabili, e fino alla fine del festival (anche se della finale parlerò con un po’ di ritardo, causa impegni di lavoro, appunto) la newsletter arriverà tutti i giorni e parlerà solo del Festivàl dei fiori, per citare Sergio Caputo, e di come possiamo interpretare quello che succederà nel corso di cinque interminabili maratone televisive che rasentano il sequestro di persona. Sei ancora in tempo a fuggire, oppure puoi restare e goderti il VAR senza accumulare debito di sonno.
Scriversi, e altre cose che non capisco dei tempi moderni
Stare su Threads, una piattaforma di social networking che discende da Instagram e quindi è abitata da una popolazione molto più giovane di quella di Twitter (di Facebook non parliamo proprio), mi sta esponendo a dosi massicce di usi e costumi relazionali della Generazione Z, e ci sono cose che mi lasciano a dir poco perplessa. Sono diverse, ma quella che più di tutte mi riempie di malinconia è questa nuova modalità di corteggiamento che passa attraverso i messaggi privati sui social. Lungi da me fare quella che “ai miei tempi si usciva! Ci si toccava!” perché ok, certo, si usciva e ci si toccava, ma la gente non era meno stronza di adesso, e comunque in generale si usciva nella propria città, paese o quartiere, e la gente da toccare era sempre quella. Ti poteva andare bene o male, ma non avevi molta scelta.
Adesso mi pare funzioni un po’ così: vedi uno o una che ti piace sui social, lo segui per un po’, qualche like ai post e alle stories, poi scatta il messaggino e da lì si vede come va. E fino qua tutto bene, ogni generazione ha i suoi modi e non è che incontrarsi alla discoteca della domenica pomeriggio (dove io non ho peraltro mai messo piede in vita mia) sia tanto diverso. Il problema è che - per motivi che potrebbero avere a che vedere con l’appiattimento delle distanze geografiche, che a loro volta generano nuovi costumi - poi si continua a scriversi. Ci si scrive. A oltranza. Come in una specie di ‘800 letterario, in cui i meravigliosi carteggi sentimentali sono sostituiti da “ei” scritto senza l’h in mezzo e da muri di testo con la punteggiatura messa un po’ a casaccio. Intere relazioni nascono e muoiono fra una riga grigia e una blu; un cuoricino su una story scatena scenate di gelosia; spesso, uno dei due sparisce senza dare spiegazioni, e l’altro ci rimane male.
Sto giocando, amici e amiche giovani. Però sto anche pensando che da quando ero giovane io, il capitalismo si è inventato metodi sempre più efficienti per fare business sui rapporti umani, e il risultato sono cose come Tinder, Grindr, Bumble e innumerevoli altre app di dating, in cui le persone compaiono come prodotti in un carousel, da scorrere per trovarne uno che ti sembri attraente, e che quasi sempre si rivela essere una noia mortale. Perché sì, c’è un grande vantaggio nel conoscere la gente uscendo e toccandola1, ed è che è più facile che la si incontri nei posti frequentati da chi condivide i nostri interessi e i nostri valori. Gli stronzi li trovi lo stesso, ma non rischi di passare una serata a farti asciugare da un gymbro che si era fatto scrivere la bio dall’amico intellettuale, e che dal vivo ti racconta nei dettagli il suo regime alimentare e la sua passione per i video motivazionali.
Questa modalità da scaffale può anche diventare profondamente tossica, soprattutto nei giovani uomini, perché esaspera un pensiero che è contenuto dei default nella loro educazione: che le donne esistano nell’attesa di essere prese, proprio come cose, e che debbano essere grate delle attenzioni che ricevono. Da cui la frustrazione - patetica, ma reale - di quei “bravi ragazzi” che pensano che “ei ciao volevo conoscerti” sia l’apice del Dolce Stil Novo, e la giovane donna che lo riceve non possa astenersi dal ricambiare con altrettanti ed entusiasti “ei”.
Penso che come genere umano siamo abbastanza prontǝ a smettere di farci trattare come merce e a riprenderci la dimensione del vederci in faccia, senza per questo rinunciare a quanto di buono la tecnologia ci fornisce. Ormai i rapporti fra i generi si sono notevolmente fluidificati, e non è rimasto quasi nessuno (a parte i porelli che frequentano i forum degli incel, e quelle che campano della loro attenzione) a pensare che gli uomini debbano sempre fare la prima mossa. Instagram si prende già i nostri dati e il nostro tempo, non lasciamo che ci rivenda gli uni agli altri come articoli in saldo.
Una cosa che ho visto (anzi, due)
Siccome sono chiusa in casa ammalata da due settimane (sì, la stessa cosa che avevo la settimana scorsa, I will not be taking questions at this time) sto recuperando in ordine sparso un po’ di film che mi ero sempre detta: prima o poi li vedo. Uno è La favorita, di Yorgos Lanthimos, che è esattamente quello che mi aspettavo: una commedia grottesca con un finale angoscioso, basata su personaggi davvero esistiti (oltre alla regina Anna, le sue amiche e confidenti Sarah Churchill e Abigail Hill), e che sfrutta i vuoti narrativi della storia per raccontare una dinamica di potere, conflitto, odio, amore e sesso fra tre donne interpretate, nell’ordine, da una titanica Olivia Colman titanica, una perfida Rachel Weisz e una stupefacente Emma Stone. L’interazione fra queste due, in particolare, si costruisce sulla sottrazione: dicono di più gli sguardi silenziosi che tutte le battute di dialogo (e ce ne sono tante: è un film molto verboso, come spesso accade nelle opere con quel tipo di ambientazione).
Me ne stavo quasi dimenticando, però, perché la cosa che ho visto e che mi ha lasciato l’impronta più duratura è Tick… Tick… BOOM!. Questo film, basato sull’omonimo musical di Jonathan Larson, è un’operazione ibrida molto bella: Tick… Tick… BOOM! (il musical) è una storia che racconta sé stessa, la meta-storia di un fallimento che diventa a sua volta nuova creazione. Lin-Manuel Miranda e Steven Levenson (rispettivamente regista e sceneggiatore) prendono quel canovaccio e lo ampliano, raccontando la storia di come la storia è diventata una storia, giocando fra la vita reale e la finzione narrativa. Jonathan Larson è morto a trentacinque anni in seguito alla rottura dell’aorta, dopo essere stato rimandato a casa più volte dai medici che lo stavano visitando per un malessere persistente. Il giorno dopo la sua morte era la data prevista per il debutto di Rent, un musical che avrebbe fatto la storia (e aperto la strada al lavoro di Lin-Manuel Miranda). Come Rent, Tick…Tick… BOOM! è anche la testimonianza di un momento nella storia degli Stati Uniti e del mondo segnata dall’epidemia di HIV e dall’ottusa inazione del governo verso una malattia che si pensava colpisse solo persone di cui non importava nulla a nessuno. L’associazione immediata ed evidente è l’ultima stagione di Pose (senza gli eccessi da feuilleton): nel cast c’è anche MJ Rodriguez, e una delle personagge2 di Pose, Angel, porta lo stesso nome di uno dei protagonisti di Rent, ruolo interpretato da MJ Rodriguez a teatro.
A interpretare Larson c’è Andrew Garfield, un attore che io ho capito di amare con l’amore quieto di chi sai che non ti deluderà mai. Anche qui gli si vuole un bene immenso, sia per il personaggio che interpreta (chi non ha un debole per i sognatori disposti a qualsiasi sacrificio pur di inseguire il proprio talento?), sia per la leggerezza con cui balla, canta e riempie lo schermo con un’umanità struggente. A posteriori possiamo dirlo: se lo sarebbe meritato eccome, quell’Oscar, per il magone con cui si esce dalla visione di un film che ha, a suo modo, un lieto fine, ma che è anche la storia di una grande perdita. Jonathan Larson, astro nascente del teatro musicale, genio assoluto che chissà quante meraviglie avrebbe potuto comporre, se solo fosse vissuto.
Una cosa che sto ascoltando
Il mio rapporto compulsivo con i podcast andrebbe studiato: quando me ne piace uno, finisco per consumarlo velocissimamente. Per colpa di
sto ascoltando Tyranny, un podcast che parla di tiranni con il taglio umoristico di chi sa che non c’è niente da ridere. Al di là delle considerazioni banali sui meccanismi, sempre identici, che trasformano una democrazia in una dittatura o che contribuiscono a perpetuare regimi tirannici, è stupefacente scoprire quanti dittatori celano ambizioni frustrate come cantanti, musicisti e performer. Ma tipo, roba che fra la tirannide e la democrazia, a volte, c’era giusto lo spazio di un singolo di successo.Le date
Sono sempre quelle, ma facciamo un rapido reminder.
L’11 febbraio a Palermo per un laboratorio organizzato dall’associazione Maghweb nell’ambito del progetto Occupiamo Spazio. Ci si iscrive qui.
Il 2 marzo sono al Non Profit Women Camp al Museo dell’Automobile di Torino. I biglietti sono già disponibili a questo link.
Il 3 sono al Teatro Pubblico Pugliese di Bari per Bari Diversa, festival del pensare queer.
L’8 marzo lo spettacolo tratto da Brutta arriva a Genova. I biglietti si trovano qui, oppure qui.
A domani con il primo dei VAR sanremesi, olé.
Giulia
Previo consenso di entrambe le parti, non scherziamo.
Bisognerebbe cominciare a chiamarle così, senza ironia e nel pieno rispetto della grammatica italiana, ma nessunǝ si merita il femminile più di Angel Evangelista.
A me piace come scrivi e mi trovo spesso d'accordo, ma non sono d'accordo oggi con la tua retorica sul "corteggiamento" online. Primo perché idealizza il passato: non è che una volta ci si trovava solo al muretto a parlare, idealizzato e puro. Anche quel luogo era abitato dal capitalismo a suo modo, senza gli oggetti culturali giusti eri "out" o sfigato, e trovalo un altro spazio (anche a sinistra) nel tuo chilometraggio. Secondo perché è falsa: c'è differenza tra oggi (puoi anche uscire) e ieri (devi uscire), non sono intrappolati lì. Che poi dipingi i giovani come illetterati tout court, ma è una scelta tua, ce n'è di tutti i tipi. Sempre sulla scrittura: quando ero giovane io ci si scriveva 'xchè?' e i vecchi urlavano allo scempio della lingua. Sul fatto del coltivare l'idea maschile della caccia alla femmina non lo so, magari hai ragione tu, ma è davvero diverso da quando ci si trovava fuori e arrivava "la nuova"? Io non credo, penso il contrario. Online e offline sono luoghi, e i giovani come sempre se ne impossessano e li fanno loro. A me pare che tu, questa volta, abbia scelto di scrivere un'invettiva, e basta.
Tyranny meraviglioso! E a proposito, non so se lo sai, ma anche il nostro Benny era un mediocre scrittore che aspirava - invano - all'Olimpo dei Letterati. La feroce censura che mise in atto con Sem Benelli - uno dei massimi autori che avevamo all'epoca - fu dovuta proprio al rifiuto di quest'ultimo di scrivere per e con Benny.