Sanremo 2024: 'o fridd' 'nguoll'
Il VAR della seconda serata del 74° Festival della Canzone Italiana
Al primo ascolto della playlist di Sanremo dopo la serata inaugurale, questo il resoconto:
Skippate: 10 su 30, non male rispetto agli anni scorsi
Ballate in giro per casa: 7 (Annalisa, Angelina Mango, Mahmood, The Kolors, Bnkr44, Emma Marrone, Fred De Palma)
Di cui già mezze canticchiate: 1 (Bnkr44, per ora i miei preferiti, I SAID WHAT I SAID)
Rivalutate in positivo: Mahmood (che la prima serata aveva cantato malino), Loredana Berté
Al primo ascolto sembrava meglio: Gazzelle
Versione studio pure peggio di quella dal vivo: Il Volo
È un avanzo di Kylie Minogue ma ok: Annalisa
Ma questo chi è, ma davvero ha cantato ieri? Sangiovanni
Classici ne abbiamo? No.
Forse questo è il problema più grosso, eh. C’è Mahmood (bonissimo), ma non c’è una Brividi. Neanche una Soldi. Niente che sentendolo mi faccia pensare che fra un anno lo starò ancora cantando. Niente fomento alla PA PARARÀ PARARÀ PA PA di Dargen. Niente ormonella, soprattutto, NIENTE ORMONELLA. Apparizioni (quasi mistiche) di Mahmood a parte, quest’anno è davvero scarsa: mancano pure i cinque minuti saffici collegati a qualsiasi apparizione di Elodie, Annalisa si impegna ma rimane Annalisa1. È un Sanremo quasi senza erotismo, senza un Achille Lauro in tutina di lurex che si limona Boss Doms, senza la voce di Blanco a farci dimenticare che abbiamo gli anni di Matusalemme. Eppure ieri sono uscita sul terrazzo e l’ho sentito, l’odore della primavera che arriva. Troppo presto, lo so. Ma arriva.
A proposito di “troppo presto”
Nella newsletter di ieri dicevo che questo festival non ci stava facendo incazzare. La verità è che non ne avevano il tempo: con trenta cantanti da far esibire, hanno dovuto tagliare tutte le parti in cui si poteva annidare l’imbarazzo, la Fremdschämen, ‘o fridd ‘nguoll’. Seconda serata, quindici brani, molto più spazio per i momenti non musicali, e ovviamente, come poteva andare?
Lasciamo stare il monologo di Giovanni Allevi sulla sua malattia, perché da quello che vedo è stato recepito in maniera molto diversa da persone diverse. C’è chi l’ha trovato bello e toccante, chi invece l’ha trovato pornografico nella sua esibizione del dolore. Anche solo il divario nella percezione rende la sua esistenza più che legittima. In compenso, non credo esista un solo essere umano (o comunque non c’era nella mia timeline di Threads e Twitter) che abbia gradito il siparietto con John Travolta. Quel momento è stato uno dei pochi a essere completamente, trasversalmente cringe, ma proprio da farsi un buco per terra e sprofondare nel magma urlando MA COSA ABBIAMO FATTO DI MALE, COSA, COSAAAAA!
Gli ospiti stranieri a Sanremo sono quasi sempre trattati con un provincialismo raggelante, fra interviste superficiali e noiose che non riescono mai a essere divertenti (complice anche la simultanea, che rallenta e appesantisce l’interazione fra conduttore e ospite) e la manifesta impossibilità, anche strutturale, di inventarsi qualcosa di nuovo e divertente e anche solo un pochino contemporaneo. L’ospite straniero arriva, fa due battute loffie con il conduttore, incassa un cachet spropositato rispetto allo sforzo richiesto (e spesso anche alla resa in termini di share, ma qui magari mi sbaglio). È quindi ammirevole lo sforzo degli autori nel prendere qualcosa che di suo è già piuttosto moscio e imbarazzante e spingerlo oltre ogni livello della vergogna contro terzi.
Travolta non è uno le cui opinioni o posizioni siano dirimenti, ma è uno con una lunghissima carriera cinematografica in cui ha spesso ballato. Il pubblico anziano lo ricorda ancora come Tony Manero o Danny Zuko e per la Generazione X e successivi è anche e soprattutto Vincent Vega, ma i personaggi non sono mai nominati: non si parla di com’è, per un attore, cambiare pelle in maniera radicale così tante volte nel corso della sua carriera, fino a interpretare il gangster tossicomane che lo ha reso immortale (e fatto diventare un meme). Non si parla nemmeno del suo rapporto con le sue radici italiane, di come così tanti dei suoi personaggi condividano con lui quel retroterra non-WASP, e di come l’identità italiana sia integrata nel patrimonio culturale degli Stati Uniti. Niente. Balletti. Per giunta: balletti fatti (con ogni probabilità) per poter inquadrare le sneakers di Travolta, e abbassare quindi il cachet complessivo della sua partecipazione.
Poteva finire qui? Certo, e sarebbe stato abbastanza. Invece no, abbiamo dovuto portare Travolta fuori dall’Ariston e fargli ballare Il ballo del qua qua, con tanto di pupazzi alle spalle. Mi veniva da piangere: non perché Travolta sia degno del rispetto di un capo di Stato, ma perché come gag era veramente mesta. Non faceva ridere, non era davvero surreale, non se ne capiva il senso o il significato. E ho pensato a come poteva uscire all’estero quel momento, come ci faceva apparire, e la risposta è: come un paese sottosviluppato. Millenni di storia, arte, letteratura, scienza, il patrimonio architettonico e paesaggistico più grande d’Europa, una concentrazione d’ingegno e inventiva che ha dato al mondo personaggi straordinari e di statura assoluta, e nel programma più visto a livello internazionale di tutta la nostra programmazione televisiva sembriamo gente che è caduta dal seggiolone da piccola.
Finale: è appena arrivata la notizia che John Travolta non ha firmato la liberatoria per la ri-trasmissione della sua partecipazione. Se non basta questo, a farci fare un bell’esame di coscienza, io non so.
E pure ‘sto femminicidio se lo semo levato dalle palle
Il tema della violenza di genere è di quelli che come la fai la sbagli, e dal team autoriale che ci ha regalato John Travolta che fa la mossa delle alucce della papera non è che potessimo aspettarci chissà che. E infatti quando Amadeus ha detto “violenza contro le donne” io, subito: “Oh, no.” Non perché pensi che a Sanremo non se ne debba parlare, ma perché sapevo già che sarebbe finita com’è finita.
La violenza maschile contro le donne, più che un problema da affrontare, sembra un cartellino da timbrare: facciamo ‘sta cosa, leviamoci il pensiero, poi torna tutto come prima. Non c’è alcun pensiero organico sul tema, ma mica solo fra gli autori di Sanremo: proprio in generale. Non si vede il collegamento fra il modo in cui le donne sono trattate (e raffigurate) nei media e nel programma stesso e la violenza che subiscono. Il collegamento c’è, ovviamente, ed è stato indagato da decenni di storia dei femminismi, che sono tutti concordi nel mostrare e illustrare la continuità fra l’oggettificazione delle donne e la logica del possesso che porta i loro compagni a ucciderle. Ci siamo scannate su un sacco di cose, noi femministe, ma non su questa. Questa è chiara e condivisa fra tutte, perché è reale. Fa parte della nostra esperienza quotidiana.
Quindi: Sanremo parla di violenza contro le donne (non si dice mai: maschile. Non si dice mai: di genere, intendendo quello maschile. È “la violenza”, come “la pioggia”). È come se la violenza esistesse al di fuori della cultura condivisa e si generasse nel vuoto, ogni uomo per sé, ogni uomo sintomatico di una sua personale stortura e scollegato dal resto del mondo e dalla cultura che ha intorno. E la cultura che ha intorno è questa: pochi minuti prima dell’intervento a tema “femminicidio”, Bob Sinclar si era esibito sulla Costa Smeralda, la nave ormeggiata a largo del porto di Sanremo che contiene un altro palco ed è una sorta di festival nel festival, contornato da graziose giovani figuranti in abiti succinti.
Qua il problema non sono le ragazze, intendiamoci (è una cosa che andiamo spiegando da decenni, ma pare che non passi). Le donne vivono nel capitalismo come possono e ritengono giusto, e se ballare un po’ sexy dietro a Bob Sinclar ti fa svoltare un po’ di soldi, bella pe’ te sore’. Il problema è che sono decenni, appunto, che parliamo di come l’uso delle donne come decorazioni d’ambiente sia legato alla percezione che la loro funzione primaria sia quella, la bellezza, la sensualità, essere dei complementi d’arredo pensati per conferire un erotismo vago e anestetizzato a situazioni che altrimenti sarebbero poco attraenti. Sopra Bob Sinclar, che è uno che sta fermo dietro a una console, la produzione aveva piazzato un’aerialist, una di quelle acrobate che utilizzano fasce di tessuto per muoversi a mezz’aria. Una donna che faceva una cosa difficile e faticosa e che richiede preparazione. In pratica la inquadravano solo fra una mossa e l’altra, quando più che un’acrobata sembrava un caciocavallo impiccato.
Io capisco che Bob Sinclar, appunto, sia uno che non riempie tanto il palco, e che qualcosa devi far succedere. Allora mettici un gruppo di persone giovani, maschi e femmine, che ballano. Non è necessario piazzarci le figuranti che fanno le mosse sexy, a meno che il tuo intento non fosse esattamente quello, cioè fare una cosa che chiunque fuori dall’Italia considera una specificità umiliante della nostra televisione. L’avremmo notato di meno, forse, se poco dopo non si fosse deciso di passare al TEMA SERIO, e il tema serio non fosse in qualche modo invalidato proprio da quella scelta estetica.
Lo abbiamo detto tante volte: il simbolico, nelle questioni culturali, è importante. È fondamentale, perfino. Ed è molto, molto simbolico che il testo affidato ai protagonisti di Mare fuori (alla seconda apparizione promozionale a Sanremo consecutiva in due anni) fosse scritto da un uomo. Dici: eh, ma sono proprio gli uomini a doversi fare carico del cambiamento. Il problema è che il testo scritto da Matteo Bussola non parlava affatto della questione maschile, o della responsabilità maschile nella perpetuazione delle dinamiche tossiche che portano alla violenza, che per gli uomini è il tema, e l’unico su cui sono chiamati a esprimersi in maniera originale. Il testo scritto da Matteo Bussola era una lista un po’ pretesca, anzi, proprio democristiana di parole che dovremmo adottare per combattere la violenza contro le donne: come se le donne, in questo fenomeno, fossero corresponsabili degli uomini e non le principali vittime. Come se le condizioni fossero pari, e non esistesse chi la violenza la agisce e chi la subisce. Come se il punto fossero solo le parole, e non le strutture, le dinamiche, le aspettative, le pretese, il privilegio, le identità.
Lo dico come parte di un movimento di donne che da secoli si occupa di parlare di questi temi, e da sempre viene ignorata: quando diciamo che il simbolico conta, intendiamo anche il peso simbolico che attribuiamo alla parola di un uomo rispetto a quella di una donna. Quel testo lì avrebbe potuto scriverlo (meglio, peraltro, ma vabbe’) una donna, ma si è scelto di affidarlo a un uomo. Ancora una volta, la voce e l’autorevolezza ci vengono sottratte, nonostante quella lotta origini da noi, e siamo noi - come genere, a livello collettivo, insieme - le persone che si sono incaricate di decostruire la violenza e smontare le dinamiche di potere che le caratterizzano. Una squadra di autori (maschi) aveva il potere di dare la parola a qualcuno: ha scelto un altro maschio, che ha fatto il suo compitino rassicurante. Una decisione che si spiega da sola.
Ancora una volta si è rinunciato ad affrontare il vero nucleo del problema, cioè l’idea che esistano gli uomini “buoni” e gli uomini “cattivi” e che agli uomini “buoni” basti prendere le distanze da quelli “cattivi” per innescare il cambiamento. Nonché l’idea, correlata, che gli uomini non debbano essere disturbati, chiamati in causa in prima persona, costretti a esaminare il loro essere maschi per decostruirlo e rinunciare a tutte le azioni che rafforzano il loro privilegio all’interno della cultura patriarcale, meno che mai a a dare valore all’opinione delle donne su un tema che le riguarda. Perché quello è il palco dell’Ariston, quello è Sanremo, e quello che ci passa sopra conta: perché è una rappresentazione di quello che vorremmo essere, più di quello che davvero siamo.
Che tutto questo sia stato messo al servizio del promo di una serie TV, alla fine, è forse la cosa peggiore. Per fortuna, come dicevo ieri: le aspettative erano bassissime. E anche questa passerà, il lavoro lo faremo altrove, con la solita fatica e nella consapevolezza che questa fatica verrà sempre ignorata, mentre già si parla di dare spazio sul palco dell’Ariston alla protesta degli agricoltori, solo in virtù del loro essere più grossi e visibili (e a larga maggioranza maschi, guarda un po’). L’ho detto, io: il più grosso limite dei femminismi, a questo punto, è la carenza di trattori.
Ci sentiamo domani.
Giulia
You do you, girl, ti amiamo lo stesso e quella scollatura inguinale di ieri era notevole.
Ho capito che appena mi allontano per fare un colpevolissimo spuntino notturno succedono le peggio cose. Allevi l'ho visto e non mi pronuncio, io sono tra quelli che lo considerano pornografia del dolore ma non posso dir nulla sulla sua storia umana che in quanto umano ovviamente mi è vicina. La cosa di Bob Sinclair e dei ragazzi di Mare Fuori me la sono completamente fumata ma a posteriori sono sconvolto da questo: Matteo Bussola non è l'ultimo dei coglioni e ha anche al suo fianco una donna come Paola Barbato che potrebbe pure ogni tanto dirgli "AMO STAI SCRIVENDO UNA CAZZATA". Poi ovviamente lei fa il suo e non è tenuta a fargli da babysitter femminista, però cristosanto.
Vorrei solo spendere una lacrimuccia perché quando ieri sera Russell Crowe ha fatto la battutaccia su Travolta, Amadeus GLI HA BATTUTO IL CINQUE invece di sotterrarsi! MACCOSA???