Scrivere è difficile (anche se sai come farlo)
Questa settimana: parliamo un po' della mia cosa preferita.
E dopo più di due anni di appunti, mappe, schemi, post-it appiccicati sulle pagine di un quaderno che ci mancava solo la bacheca di sughero con le foto e il filo rosso, ansia, incertezza e sudore, il 5 gennaio ho consegnato la prima stesura del romanzo nuovo. Fra Brutta e questo ultimo lavoro ne ho scritto e pubblicato un altro, e mi sembra quasi una parentesi, perché nella mia testa c’era solo questo qui, c’erano i personaggi, l’intreccio, il lavoro sulle atmosfere, i dettagli che ancora non ho finito di mettere a punto, però l’impianto c’è, l’architettura è completa, ci sono da rifinire gli interni ma il tetto è stato piazzato.
Forse è presto per esultare, ma io esulto lo stesso.
Tutti gli altri miei lavori sono stati scritti in pochissimo tempo (con l’eccezione di Nudo d’uomo con calzino, che mi ha portato via quasi un anno), soprattutto i saggi, che ho finito nel giro di mesi perché la saggistica - ho scoperto - mi viene più facile: una volta che ho chiaro quello che voglio dire, è piuttosto semplice andare dal punto A al punto B sfruttando la forza propulsiva delle argomentazioni. La narrativa no, la narrativa è materia informe. Per scrivere un romanzo bisogna pescare una storia dal caos e darle la forma giusta, scegliere la voce narrante (o le voci), il punto di vista, il tempo, il ritmo, pure i nomi: le possibilità sono infinite perché solo la realtà è costretta da certi vincoli. Le storie fanno quello che gli pare: una volta stabilite le regole di coerenza interna, puoi andare da J.D. Salinger a Tom Robbins, da Natalia Ginzburg a Goliarda Sapienza, e anche così penserai sempre: ma era l’attacco giusto, era la scelta giusta, era la scena giusta? Si vede troppo, troppo poco, niente? Qual è il livello di dettaglio in cui è giusto entrare?
C’è una nudità, nella narrativa, che nella saggistica - anche autobiografica - non ho mai percepito. È paradossale, ma mi sento meno esposta raccontando i fatti miei, piuttosto che quando do forma a una storia inventata di sana pianta. La saggistica è controllo, la narrativa è un’alternanza precisa di perdita e ritrovamento del controllo. Non puoi scrivere una storia se non lasci che la storia ti porti con sé, ma non puoi nemmeno sempre lasciare che si scriva da sola. Finisci per fare tutt’e due le cose, sapendo che per qualcuno funzionerà e per qualcun altro sarà, fantozzianamente, una cagata pazzesca: e te la giochi sulla percentuale di chi penserà cosa.
Tutto quanto sopra perché mi sento molto sollevata (due anni sono due anni: per me sono davvero tanti) e perché in questi giorni su Threads Eleonora C. Caruso sta facendo una serie di post “tecnici” per chi vuole scrivere o pubblicare un libro. Non hanno a che fare con la scrittura in sé, più con la strategia di ingresso nel mercato editoriale, che non è inaccessibile come si potrebbe pensare ma si muove secondo norme che è meglio conoscere. E ho pensato: adesso spiego come si fa un romanzo, magari a qualcuno serve.
Poi ho pensato anche: ma cosa vuoi spiegare, cosa. Ma lascia campare il prossimo.
La verità è che ok, ci sono dei modi per scrivere un romanzo, ci sono dei metodi e delle tecniche che funzionano, o che quantomeno funzionano per me, ma ho appena finito di definire la scrittura narrativa come un’operazione di recupero di elementi dal brodo primordiale del cosmo: non posso, in buona fede, dire che un metodo funziona meglio dell’altro. L’unica cosa che mi sento di dire è che un metodo bisogna avercelo: bisogna trovare il proprio. Senza un metodo mi sembra difficile riuscire a portare a termine un lavoro complesso come la scrittura di una storia coerente1.
Il metodo (o meglio, il mio metodo)
Arrivata al decimo libro io ho capito che ne ho pure più di uno, ma che tutti prevedono l’utilizzo di una scaletta di massima di quello che voglio dire o raccontare. Per i saggi mi basta un elenco puntato, mentre per le cose più sciolte e naturalistiche che ho scritto finora ho usato un documento Word in cui sono segnata le cose che volevo far succedere e che ho modificato a seconda di come buttavano i personaggi (nel 100% dei casi ne creo almeno uno che non avevo previsto che poi dilaga nella storia, costringendomi a fargli spazio). Per quest’ultimo romanzo ho, per la prima volta (ma non ultima, penso) usato un quadernino per gli appunti come base per un lunghissimo lavoro preparatorio, tornandoci anche in corso d’opera per segnare nodi problematici, idee, retroterra dei personaggi, legami familiari, domande irrisolte, roba che non mi tornava, interrogativi, le trame che volevo chiudere e quelle che potevano restare aperte, come succede nella vita.
Il resto è affidato al gusto personale, perché la scrittura è prima di tutto voce, e ognuno ha la sua, unica e irripetibile. Due persone che pescano a caso in quel caos informe di immagini, eventi, facce e parole pescheranno forse storie molto simili, ma le racconteranno in maniera del tutto diversa, da angolature e con prospettive e da punti diversi, e una sarà bellissima, un’altra banale, un’altra riuscita e un’altra ancora no. La differenza la fanno il talento, la quantità di letture pregresse e la capacità di analizzarle e riconoscerne gli elementi distintivi2, il vocabolario, lo sguardo sul mondo e sulle cose, ma anche la capacità della storia che racconti di cogliere lo spirito del momento in cui vede la luce senza perdere di vista le costanti universali dell’esperienza umana, riuscendo a svelarle in un modo sempre nuovo.
Scrivere è difficile (anche se sai come farlo)
Questa è la teoria. Poi ti metti a scrivere e ti succedono le seguenti cose:
la storia che ti piaceva un casino ti sembra una merda
non trovi l’attacco
ti pianti su un capitolo per una settimana, lo butti e lo riscrivi tre volte
ti viene il blocco dello scrittore
esce un libro/un film/una serie che parla di cose che ti sembrano simili e ti prende lo strangolone per il nervoso
ti deprimi
butti un pezzo, lo recuperi, lo butti di nuovo, lo recuperi di nuovo, lo riscrivi da capo, tiri delle madonne da un chilo-un chilo e mezzo l’una
cammini per dei chilometri cercando di non pensarci
ti rincoglionisci di podcast e non scrivi una riga per giorni
buchi la consegna, la sposti, buchi la seconda data concordata
piangi
ascolti tre canzoni in croce e in quelle tre canzoni risolvi tutti gli impicci di trama che avevi creato
ricominci dal primo punto.
Bisogna imparare ad accettare la frustrazione, con la consapevolezza che non è indice di scarsa abilità. Il mito dello scrittore “industriale”, che lavora otto ore al giorno fisse senza che nessuno lo disturbi, è forse pure peggio di quello dello scrittore tormentato che suda su ogni riga, e se non sudi vuol dire che fa tutto schifo.
Contro le qualifiche aspirazionali
Non sono una che ti dirà che devi scrivere due ore al giorno o sei oppure otto. Dico che ci vuole pazienza, e che è molto importante, no, importantissimo ricordarsi di una cosa: e cioè che scrivere è una cosa che facciamo come esseri umani per passione, per amore, perché abbiamo una storia che scalpita nella testa e stiamo male finché non la tiriamo fuori. Spesso vedo le persone affannarsi a rivendicare la qualifica di “scrittore” o “scrittrice” come se fosse aspirazionale, e non un lavoro come tanti, che si fa giorno dopo giorno. Chi può dirsi “scrittore”? Ognuno ha la sua idea, ma la domanda è: ne abbiamo bisogno? Ci serve? Perché da quello che vedo io, le storie vengono prima delle qualifiche.
La frase “anche se non hai ancora scritto, sei già uno scrittore!” mi sembra buona giusto per il marketing degli editori a pagamento o dei servizi di stampa on demand, che campano dell’ambizione (e della vanità) di chi si sente lontano dal mercato editoriale. Dato che - sempre su Threads - se n’è discusso per un paio di giorni, con la partecipazione di molti autori e autrici che hanno scelto il percorso dell’autopubblicazione, fornisco qui la mia definizione non richiesta: essere scrittori o scrittrici è un lavoro, ma è anche e soprattutto un progetto. La scrittura, nella stragrande maggioranza dei casi, paga poco: se restringessimo la definizione a chi vive di scrittura creativa, non voglio dire che resterebbero solo le Anna Todd e i Dan Brown, ma quasi. Qualche giorno fa una persona appena conosciuta mi ha chiesto che lavoro facevo e io ho risposto, d’istinto, “la scrittrice”. Sono ancora qua che mi domando se fosse la risposta corretta.
Fra pubblicare un libro (due, tre, è una storia che ho già raccontato) e fare la scrittrice, per me, non passa solo la differenza di sentirmi riconosciuta come una in grado di andare da copertina a copertina con una storia, ma anche aver dato alla scrittura una centralità nella mia vita professionale. Per dire: io amo moltissimo insegnare e metto nell’insegnamento una grande passione e desiderio di conseguire obiettivi comuni con le mie classi. Ma sono arrivata all’insegnamento dalla scrittura, non il contrario. La scrittura, l’esercizio del pensiero strutturato e dell’immaginazione governata, sono parte della mia identità pubblica e privata. Sono una scrittrice perché faccio la scrittrice. Si potrebbe argomentare il contrario, ma non sarebbe vero: se avessi scelto un’altra strada (per esempio: le arti figurative) il mio sogno di adolescente si sarebbe indirizzato verso altre forme espressive e forse oggi farei graphic novel, vabbe’, ho capito, sempre lì sarei tornata.
Non so se questo pippone sia utile a qualcuno, nel caso: i commenti servono anche a depositare riflessioni ed eventualmente a chiedere, se ce ne fosse bisogno, altre delucidazioni. Mi piace molto aiutare le persone che hanno qualcosa da dire ad arrivare a dirlo.
Le date (già confermate)
Salvo catastrofi, il romanzo nuovo esce in primavera: per cui se mi vuoi invitare a fare qualcosa da qualche parte tieni conto di questo elemento (e in ogni caso c’è sempre la mail a cui scrivere: contact-blasi@elastica.eu: qui c’è la mia pagina speaker sul sito dell’agenzia che mi segue).
Nel frattempo, il 26 gennaio sono a Massa, per un evento che si svolge alle 17.30 alla Sala della Resistenza del Palazzo Ducale e si intitola (Ri)belle parole - La cultura delle donne tra stereotipi e pregiudizi. Con me ci sono anche Irene Biemmi e Giulia Bosetti.
L’11 febbraio a Palermo per un laboratorio organizzato dall’associazione Maghweb nell’ambito del progetto FacciamociSpazio! (dettagli ancora da definire).
Il 2 marzo sono al Non Profit Women Camp al Museo dell’Automobile di Torino. I biglietti sono già disponibili a questo link.
L’8 marzo lo spettacolo tratto da Brutta arriva a Genova. Nel frattempo ci sono state le prime date, e Cristiana (che è la protagonista di questo one-woman show) mi dice che sono andate molto bene. I biglietti per questa prossima data si trovano qui.
Ci risentiamo martedì prossimo!
Giulia
Ché poi vabbe’, esistono pure i libri tratti dalle fan fiction uscite a tocchi su Wattpad, per cui “ben fatto” non significa “di successo”, e viceversa.
Questa è l’unica parte da cui non si scappa: non si impara a scrivere se non si è letto, ma proprio neanche a livello elementare. La carenza di letture degrada le capacità di scrittura anche in chi non scrive di professione.
"La saggistica è controllo, la narrativa è un’alternanza precisa di perdita e ritrovamento del controllo." Grazie, Giulia, perchè in una riga mi hai fatto capire il motivo per cui ancora non ho avuto il coraggio di scrivere quel romanzo che ho in testa e nel cuore da anni. Da docente universitaria non ho problemi a scrivere saggistica e lo faccio quotidianamente. E' la narrativa, che mi spaventa e mi attira insieme. E' il momento di essere più coraggiosa. Grazie!
Volevo scrivere una newsletter al riguardo – Non c'è percezione della difficoltà della scrittura in Italia – ma l'hai già fatta tu :) Perdona la metafora calcistica, non ho mai, mai, mai sentito dire a nessuno: "Anche se non hai ancora tirato un calcio a un pallone, sei già un giocatore di serie A!" perché nel nostro paese si è più consapevoli della difficoltà di diventare un calciatore professionista che di affermarsi come uno scrittore professionista