Oh, lo dico subito, oggi ho appunti da fare e domani non so, però vogliamo veramente non commentare la prima serata di Sanremo? Io non credo.
Le canzoni
Meh.
Alcune cresceranno, immagino (gIANMARIA, Cugini di Campagna, Colla Zio, Ariete, Elodie), altre sono ballad di sconcertante prevedibilità (Mengoni, Ultimo, Anna Oxa, non è che urlare cambi qualcosa, una lagna è una lagna è una lagna), altre speriamo di dimenticarcele presto, ma la qualità media mi è sembrata bassa, soprattutto se confrontata con quel capolavoro assoluto che era ed è Brividi. Speriamo che vada meglio stasera. Sui Cugini di Campagna un’annotazione non marginale: il pop è pacchetto completo, immagine e contenuto. La canzone scritta da La Rappresentante di Lista è bella, inusuale per loro, e l’hanno cantata bene. Però bisogna ascoltarli con gli occhi chiusi, perché se li apri ti trovi davanti quattro residuati degli anni ‘70 con i synth finti al collo. Non dico meglio Ultimo che si è presentato abbigliato come se avesse prenotato la lezione di scuba diving per la mattina dopo e non avesse tempo di cambiarsi in albergo, o Mengoni vestito da poliziotto dei Village People, ma un minimo di coerenza fra l’estetica musicale e quella dell’abbigliamento forse avrebbe giovato all’effetto complessivo.
Cara piccola Chiara
Alla prima lezione del corso di Public Speaking che faccio con gli studenti di AANT, la prima cosa che chiedo è che scrivano un discorso di massimo cinque minuti sulle loro paure più profonde, che possono poi leggere davanti al resto della classe. Molti piangono, si imbarazzano, arrancano fino alla fine, la classe applaude, poi passiamo alla parte di decostruzione del discorso in cui cerchiamo di capire in quale modo poteva essere reso migliore, più centrato e potente.
La letterina a sé stessa di Chiara Ferragni mi è sembrata quella cosa lì, la cosa che viene prodotta nella prima lezione del corso. Emozionante e letta da una persona emozionata, ma costruita in maniera approssimativa e con un taglio che era davvero difficile rendere universale. La storia commovente della figlia della ricca borghesia di Cremona che diventa… aspe… più ricca? Davvero? Io non dubito che Chiara Ferragni soffra davvero di una qualche forma di sindrome dell’impostore, figuriamoci: quella nelle donne viene quasi di serie. Al suo livello, però - milionaria che si è inventata un mestiere dal nulla e ci si è comprata casa a CityLife - sono cose che andrebbero portate dall’analista, non sul palco di Sanremo. Perché se devi parlare di te stessa, devi fare i conti prima di tutto con il tuo privilegio.
C’erano diverse cose in quel discorso che potevano essere fatte meglio, e no, non c’è alcuna vergogna nel farsi aiutare a creare un testo che diventi un momento televisivo bello, coinvolgente, che comunichi un messaggio importante. Sarebbe bastato prenderne una parte, quella sulla maternità o quella sul giudizio altrui, quella sul corpo, sulla delegittimazione o quella sul sentirsi sempre in difetto, ed esploderla: partire da sé per parlare d’altro. Ma io credo pure che sia ora di finirla con le donne che vanno sul palco a Sanremo da “co-conduttrici” nominali, ospiti effettive. Che sono lì per essere pedagogiche e motivazionali, non professioniste dello spettacolo. Che compaiono solo quando la liturgia dello show ha già stabilito che i padroni di casa sono gli uomini anziani, e che chiunque altro è lì per loro gentile concessione. Che deve portare un “tema”, guadagnarsi il suo spazio, non semplicemente essere sé stessa. Quando non era incastrata in quella ritualità femminile, Ferragni era simpatica, fresca, sembrava davvero si stesse divertendo. Ed era evidente che si era preparata moltissimo: come tutte le overachiever, non ha certo giocato a improvvisare. Era il contesto a diminuirla, a ridurla a una funzione.
Inutile la stola “Pensati libera”, se poi i due maschi anziani si chinano uno verso l’altro, impallandoti, per bisbigliare in maniera teatrale “È brava, eh? Bravissima!” come una bambina che ha appena recitato la poesia di Natale. Inutile parlare di credere in te stessa, se dieci secondi dopo che hai finito arriva Amadeus a fare presente che quella letterina l’hai scritta tutta da sola. Inutile, come è inutile far salire sul palco le volontarie e la presidente di Di.Re, a cui Ferragni ha devoluto il suo cachet, se poi le presenti con il solo nome di battesimo, infantilizzandole e liquidando la questione in pochi minuti perché bisogna collegarsi con Salmo che sta sulla nave dello sponsor. E pure ‘sto femminismo s’oo semo levato dalle palle.
Je suis Blanchito
Blanco che sfascia il palco perché non sente la voce negli in-ear è già un caso nazionale ed è anche il primo grande dramma sanremese di questa edizione: speriamo non ce ne siano altri, per il bene delle coronarie di Amadeus, che ieri non sembrava proprio in bolla (ha chiamato gIANMARIA “Sangiovanni”, Blanco “Salmo”, insomma: un disastro). Da ieri se ne parla in termini di maleducazione, questi giovani che non si sanno comportare, signora mia le rose non si prendono a calci, a Sanremo distruggere i fiori è come a Roma fare la carbonara con la pancetta e la panna.
Sì, probabilmente si sarebbero dovuti fermare. Capita, non è una tragedia. Tendiamo a dimenticarci, però, che Blanco ha vent’anni e ha costruito tutta la sua personalità pubblica sul genere di energia da ragazzino terribile che ieri è sfociata in quello sfogo. Per due anni è stato attivamente incoraggiato a fare un po’ come gli pareva: questa volta, il suo modo di gestire l’imbarazzo di una performance che rischiava di essere disastrosa gli si è ritorto contro. L’enfant terrible ci va bene solo finché è terrible entro certi parametri.
Io, che stavo per entrare in coma vigile per la noia, mi sono svegliata e ho pensato: finalmente un po’ di punk. Finalmente una cosa vera: brutta, esagerata e imbarazzante, ma vera. In un festival in cui tutto è sceneggiato per essere il più forzato possibile, Blanco che spaccava le fioriere mentre la band suonava mi ha dato una scarica di adrenalina.
Ci aggiorniamo (forse) a domani.
Giulia
"tutto da sola" era da tacco a spillo sul ditone
"cara Chiara" mi è sceso il latte alle ginocchia anche se capisco l'intento
"ma se riusciamo vuoi farla di nuovo più tardi" era da espellerli entrambi, con rehab obbligatoria per eccesso di centrismo per "Ama"
@all sul palco: "Ama" tuo cuggino. Già che ti sia riconosciuto per momento storico favorevole un appellativo rubato a un austriaco geniale che citava un altro austriaco geniale.
Morandi con la scopa in mano è la lezione di stile, con indicazione sottesa "Ama, perché non gli hai dato una ramazza"
Valentino/Piccioli estremo su Elodie è l'altra misuratissima e superlativa lezione di punkpop style. Meno, molto meno, il resto delle dimostrazioni fashioniste, ma i gioielli su Ferragni erano da paura.
Spaccare tutto è punk nei limiti dell'estetica e del risveglio positivo a mezzanotte e dintorni, perché sei davanti al mondo e non a casa tua, perché c'è già abbastanza gente che pensa di avere un motivo giustificato per spaccare rovinare sporcare imbrattare e lanciare rifiuti, e il genietto musicale, arricchito perché (anche) bravo, non è bene che sia leader of the pack. E il sorriso da joker stampato. Non sei joker, belli i tattoo e la scollatura, ma meno, molto meno - less is more (per lezioni di stile citofonare Mahmood)
Mengoni ha una voce pazzesca ed è un interprete pazzesco e se la gode.
Oxa ha una voce pazzesca anche se mi scivola su un paio di note retoriche e la T sui denti allineati, ed è una interprete, studiatissima al millimetro, pazzesca: la svolta nomad/joplin è credibile.
Non ho visto Zarrillo. Non ho visto Concato. Molto bene.
Io voto Bertè (ah no?)
Sanremo che non vedo per snobismo innato e per non risolte vendette di tarda adolescenza, lo vedo attraverso le tue parole e così mi piace assai... Graçias