Torniamo tutti dove ci sentiamo a casa
Questa settimana: qualche riflessione a partire dai fatti miei, e un esperimento.
Ognuno ha i suoi punti di svolta, le sue sliding doors, come si dice, citando un film che nell’immaginario collettivo ha lasciato giusto questa espressione (e falla te, una cosa che cambia il modo di parlare della gente: ma vabbe’). Una delle mie è una storia che ho raccontato varie volte, la famosa conversazione avuta con Alberto Madrigal dentro un negozio di cancelleria e colori a Berlino, in cui si parlava di come l’incrocio fra vita adulta e mestiere creativo finiscano per rubarci gli spazi di cazzeggio e inutilità. Lui ci ha fatto un libro, e io invece sono sempre alla ricerca di quel giusto mezzo fra le cose piacevoli e quelle monetizzabili, che a volte coincidono, a volte no. In ogni caso, era un bel pezzo che non viaggiavo per il gusto di farlo, per giunta da sola: di solito mi muovo per lavoro, per presentazioni, convegni, speech1, cose così. Di viaggi senza un fine - professionale, o di attivismo - ne faccio davvero pochi.
Venerdì sono andata a Trieste, per l’anniversario dei 70 anni dalla fondazione della SSLMIT, la facoltà in cui mi sono laureata. L’idea di fare una reunion con i vecchi amici è venuta a qualcuna di noi su Facebook, e detto fatto ci siamo iscritti e siamo partiti. Sono stati due giorni bellissimi, in cui ho recuperato un po’ del vecchio spirito caciarone di allora e sono stata fra gente che mi ha conosciuta al mio peggio, e mi ha voluto bene lo stesso. Mi sono sentita a casa: sarà che con il mio passato ho un rapporto disteso, ci ho fatto pace, e rivedere le persone che ne hanno fatto parte è sempre una gioia. Mi sembra di riunirmi con dei pezzi di me che ho lasciato in giro, e quando li ritrovo penso: dai, non eri così male.
A me sembra di essere cambiata moltissimo, non solo nel corpo, ma anche nell’anima, nel carattere, nel modo di guardare il mondo, e non ho un bel ricordo della me ventenne: ero sparsa, fragile e insicura, molto immatura e poco centrata. Come immagino si sia sempre, a vent’anni. Guardando i miei amici e le mie amiche, ho pensato che mi sembrano sempre uguali: certo, siamo invecchiati, ma siamo le stesse persone di sempre, e loro mi piacciono ora come mi piacevano allora. Quindi due sono le cose: o gli piaccio nella nuova versione come gli piacevo in quella vecchia, oppure io sono sempre la stessa, ma mi vedo e mi sento tutta diversa. E in questo caso: quanto tempo avrò sprecato a sentirmi una merda?
Quello che chiamiamo casa
Il romanzo che sto scrivendo (e che dico da settimane di avere quasi finito: da settimane è quasi vero) ha molto a che vedere con il passato, la memoria e quello che chiamiamo casa. Roma è la mia casa da tanti anni, è il posto in cui ho vissuto più a lungo: posso dire lo stesso di Pordenone? Di San Giovanni di Casarsa? Di Trieste? Della Val Tramontina? Sì e no.
In questi giorni trascorsi qui, a riposarmi e a giocare con i miei nipotini, ho avuto modo di tornare a Pordenone un paio di volte, una per farmi un giro e bere un bombardino in centro con il mio bro Fulvio, e uno per la serata organizzata dai Sick Tamburo al Capitol, un ex cinema (porno? Le memorie sono discordanti, io mi ricordo di sì) in via Mazzini, rimesso a nuovo e adattato a sala concerti. Il concerto era un benefit per la prevenzione e la cura del tumore al seno, che nel 2020 si è preso Elisabetta Imelio, la metà femminile del gruppo. Il misto di familiarità ed estraneità che ho provato è stato straniante: dentro quella sala, in un posto che mi è familiare ma che non avevo mai visto da dentro, c’era gente che conoscevo sparsa in una moltitudine di estranei. C’era un gruppo di cui conosco poche canzoni, con un sound che è scritto nella mia memoria. C’era una tenerezza nell’aria che - ce lo siamo detti dopo, Davide Toffolo e io - era palpabile, anche in un evento così parco di parole, così friulanamente privo di retorica. Anche questo, forse, è essere a casa.
Consenso, questo sconosciuto
L’articolo che ho scritto per Valigia Blu sull’interrogatorio dell’avvocata Cuccureddu alla ragazza che ha accusato Ciro Grillo e compagni di stupro di gruppo ha suscitato parecchie reazioni stizzite fra i misogini più o meno consapevoli. Oggi quindi facciamo un esperimento: questa parte della newsletter sarà un file audio in cui esploro la questione del consenso alla luce di queste reazioni. È un ripassino, ma può essere utile. L’audio è stato registrato in una sola take, non è tagliato e non è editato: mi serviva anche per prendere le misure delle funzionalità di Substack su questo versante.
E visto che parliamo di violenza di genere
Ieri ho fatto due chiacchiere con Marco Massarotto per il pilota del suo format ONE SLIDE, in cui con una slide si prova a spiegare un tema senza banalizzarlo, ma mettendo a terra alcuni punti fondamentali. Siccome “mettere a terra” è un po’ la mia cosa, eccomi qua.
Lo so che sembra corta, sembra corta anche a me, ma poi mi sono ricordata che c’è l’audio. Quindi questa settimana va così, la prossima vediamo.
Giulia
Anche quelli che pensavo dovessero durare dieci minuti e ho scoperto sul posto che ero sul palco da sola per un’ora e mezza: la racconto un’altra volta.
"Vedo la maestà di Pordenoneeeeeeee......"
(Ci scusiamo per il disservizio. L'Ufficio Commenti Intelligenti riaprirà dopo le festività natalizie)
Il pezzo vocale fantastico. Bell’esperimento.