È morta un’altra ragazza. Questa volta si chiamava Giulia Cecchettin. Era una ragazza normale, ed è morta come muoiono tante ragazze normali, ammazzata da un “bravo ragazzo”, il suo ex fidanzato. Solo che questa volta la ragazza ha una sorella che non molla, che non si limita a piangerla in privato. Elena Cecchettin sta sui nostri schermi con la sua faccia e la sua composta lucidità e un messaggio: bruciate tutto.
E ora tocca essere all’altezza, perché la sorellanza è anche questo. Giulia era nostra sorella. Elena è nostra sorella. Dobbiamo bruciare tutto.
Le montagne sono quelle. Sono quelle là, che ho guardato dalla finestra per tutta la mia adolescenza, e quando la casa dirimpetto non c’era si vedevano bene. Sono le stesse montagne in cui sono cresciuta, sono le mie montagne, luoghi isolati, laghi remoti, orridi e cascate, torrenti e odore di muschio e di bosco. Quando è arrivata la notizia, le vedevo dal finestrino del treno verso Casarsa: sulla mappa, San Giovanni è in linea d’aria esattamente in faccia a Barcis.
Non era il finale che volevamo, ma era quello che ci aspettavamo. Quando sono entrata in casa ho detto a mia madre: l’hanno trovata, era nel lago di Barcis. Non ho dovuto specificare chi, lo sapeva. Come sapeva di chi parlavo quando ho detto: l’hanno preso.
Siamo stanche. Perché anche se ora l’ondata di indignazione per la morte tragica e orrenda di Giulia Cecchettin è viva, la notizia ancora fresca e l’uomo sospettato (a ragion veduta) di averla uccisa ancora in vita e nelle mani delle autorità, anche di questa fase conosciamo il finale. C’è la nostra rabbia, c’è la contrizione degli uomini (alcuni: altri stanno ancora lì a dirsi che forse lui aveva "delle ragioni”). C’è l’avvocato della difesa che dice che lui “l’amava tanto, le faceva i biscotti”. Ci sono quelli che sostengono che gli uomini devono imparare a “proteggere” le donne (da chi? Da cosa?) Le poliziotte del patriarcato che dicono che la colpa è delle madri. Ci sono anche, come ogni volta, gli appelli ripetuti perché l’educazione sessuale e relazionale entri nelle scuole a tutti i livelli. Ci sono gli slogan, questa volta un estratto di una poesia di Cristina Torre Cáceres che ci aiuta un po’ a incanalare la furia che sentiamo.
Poi finirà tutto. Non distruggeremo niente. Siamo troppo educate per farlo, temiamo le rappresaglie, crediamo ancora nel rispetto di una società che non ci rispetta. Marceremo insieme il 25, tante e ignorate. Il governo farà qualche affermazione di circostanza, le sta già facendo, il minuto di silenzio nelle scuole chiesto dal Ministro dell’Istruzione Valditara sarà l’unica risposta: un insulto alla volontà della famiglia, l’ennesimo tentativo di derubricare il problema a manifestazione episodica. La violenza è un mezzo di controllo sociale, la destra non intende rinunciarci.
L’importante è saperlo. Sapere come stanno le cose. Ricordarci che se lasciamo spegnere il fuoco, tutto resterà come prima. E ci saranno altre Giulia Cecchettin, altre Elisa Pomarelli, altre Giulia Tramontano, Carol Maltesi, Nadia Orlando, i nomi sono tanti di più, sono oltre cento donne solo quest’anno. E ogni volta, a seconda di quanto il caso ha catturato l’attenzione, gridiamo: mai più violenza sulle donne! Però poi cosa si fa?
Un cazzo.
Giulia Cecchettin non è morta per caso. È morta perché un uomo l’ha uccisa, ed è morta perché come società non vogliamo - non che non sappiamo: sapremmo come farlo, solo che non lo facciamo - mettere in discussione il diritto maschile alla proprietà della donna. Non vogliamo liberarci dai ruoli di genere, e meno che mai chiedere agli uomini di mettersi in discussione, di rinunciare alla loro centralità, al privilegio che fa sì che anche quando ci ammazzano ci sia qualcuno che si commuove per loro, poverini, quanto soffrono. Se ci avessimo pensato prima, se avessimo iniziato prima - anche solo cinque o sei anni fa, quando vittima e assassino erano alle superiori: è già tardi, ma forse sarebbe servito, forse avrebbe aiutato - lei sarebbe viva. Se iniziamo adesso, se cominciamo a parlare di rispetto, libertà e autodeterminazione dei corpi e delle persone fino dalla scuola dell’infanzia, con le parole giuste, i toni giusti, forse non avremo più così bisogno di parlare della vita delle donne in termini di salvezza e sopravvivenza da uomini che vogliono arrogarsi il diritto di decidere per loro in tutto e per tutto, fino ad accoltellarle.
Passata la commozione, invece, penseremo ad altro. Non è la prima donna o la prima ragazza che muore: la violenza, la sofferenza, l’accettazione di ogni piccola e grande angheria con animo forte e resistente sembrano essere l’ossatura dell’esperienza femminile. Ogni tanto qualcuna ci rimette la vita, poverina, andiamo avanti. Fino alla prossima, quando il ciclo ricomincia: orrore, indignazione, grida forcaiole, richiesta di pene severissime, povero angelo, gente che si frega dai social le foto della morta per ripostarle sui propri, ma in termini pratici cosa si fa? Sempre quella cosa lì che dicevo prima.
No, l’inasprimento delle pene sempre invocato dalle destre e dalla gente a cui non interessa se le donne muoiono è perfettamente inutile. Nessun inasprimento delle pene ha mai portato a una diminuzione di un reato, meno che mai quando quel reato ha una natura sistemica, culturale, è legato in maniera profonda all’identità di chi lo compie. Della violenza contro le donne, al contrario, preferiamo parlare come di episodi isolati: è più comodo, non chiama in causa nessuno, non richiede azioni faticose, autocoscienza, rinuncia ai propri privilegi. Non vorremo mica chiedere agli uomini di smettere di fare battute sessiste, vero? O di rinunciare a fare i gradassi con le colleghe, o fra maschi? O anche solo di non mettere in piedi convegni, panel, festival senza donne, o in cui le donne fanno solo le ancelle. E quella sarebbe la parte facile, figuriamoci se vogliamo metterci a ridiscutere un assetto sociale fondato sullo sfruttamento del lavoro non pagato o sottopagato di intere sottoclassi di persone, e che quindi richiede la loro sottomissione.
Figuriamoci se riusciamo ad andare oltre i numeri speciali dei giornali femminili in cui gli uomini parlano alle donne di femminicidio, ciao Grazia, dico a te, a voi: cosa vi diceva il cervello? A cosa ci servono questi esercizi di assoluzione collettiva, questi momenti in cui gli uomini “buoni” ci dicono che noooo, loro non sono come “gli altri”? A niente. Anzi, fanno proprio dei danni. Se vogliamo cominciare ad affrontare il problema, dobbiamo prima di tutto accettare che questa distinzione fra “buoni” e “cattivi” è farlocca. Tutti gli uomini nascono nella stessa cultura di genere, tutti sono educati a diversi gradi di sopraffazione, aggressività e violenza. Gli diamo altri nomi, lo chiamiamo essere sicuri di sé, prendersi le cose perché nessuno ti regala niente, lo chiamiamo essere “uomini veri”. Non picchiare o non stuprare non dovrebbe essere un’azione eccezionale. Incredibile che stiamo ancora qua a distribuire medaglie a chi se ne astiene, quando gli stessi che pretendono assoluzione danno per scontato che di casa e figli se ne occupino le compagne, se non sono proprio il tipo che pretende di sapere ogni minuto dove sei e con chi esci e di decidere come puoi o non puoi vestirti, ma oh, le donne lui le rispetta! Le donne non si toccano neanche con un fiore.
E intanto Valditara “raccoglie l’appello” di un altro uomo, anche perché i minuti di silenzio sono a costo zero.
La domanda è semplice: vogliamo veramente che le donne smettano di morire per mano degli uomini? Più in generale: vogliamo che gli uomini smettano di ammazzare, picchiare, umiliare le donne, ma anche di ammazzarsi a vicenda? Vogliamo risolvere il problema della violenza maschile, o almeno iniziare a risolverlo? Allora ci sono da fare le cose che ho detto. Autocoscienza maschile su percorsi autonomi guidati dalla teoria femminista, niente maternage, arrangiatevi ché siete tutti alfabetizzati ed è solo la volontà, che manca. Educazione nelle scuole di ogni ordine e grado. Interventi fermi e senza appello quando il sessismo arriva da rappresentanti delle istituzioni. Norme che lavorino in senso preventivo, e che definiscano con precisione i reati. Finanziamento ai centri antiviolenza. Sono cose pratiche, cose da fare, non cose da dire. Della contrizione, del “mi vergogno di essere uomo”, delle frasi di circostanza non ce ne facciamo un bel niente. Un problema sociale si affronta come società, altrimenti ognuno fa da sé. E noi continueremo a soffrire, a sacrificarci, a subire umiliazioni e angherie, e a volte - troppo spesso - a morire.
Giulia
Proprio la settimana appena trascorsa mi sono esposta contro un panel di soli uomini organizzati a Cagliari (si è tenuto ieri in una sede prestigiosa). Ho espresso il mio pensiero argomentando, sottolineando che la pluralità di punti di vista è una ricchezza, che è un dovere collettivo garantirla. Mi è stato risposto che stavo strumentalizzando l’argomento in campagna elettorale (?!), che ho attaccato i relatori (perché ho scritto che del sostegno alla parità non ce ne facciamo nulla se non è seguito da fatti, azioni concrete, tipo fare un passo indietro, dire qualcosa, per esempio, altrimenti si è complici). Mi è poi stato detto che non era un motivo per disunirsi. Che le donne sono state chiamate, ma non sono andate. Che è stato un caso. UN CASO. Anche altre persone hanno protestato ma nulla è successo fuori da internet, né ho riscontrato ascolto e messa in discussione. Perché si tratta di persone in vista, autorevoli e stimate, quindi nessuno ci si è messo davvero contro. Io non conto nulla, non ho seguito, non ho risonanza, eppure sono venuti a rispondere sotto il mio post: chissà se fossimo state tante, insieme cosa sarebbe successo. Ho pensato a Erosive, a quanto sarebbe stato potente fare lo stesso. E contemporaneamente mi sono resa conto che siamo stanche, oberate dalle battaglie da combattere. Nella stessa settimana ho condotto una visita guidata e mentre stavo svolgendo il mio lavoro, un partecipante, venuto perché “si occupa da anni dello stesso argomento”, ha puntualizzato, precisato, aggiunto informazioni mentre io stavo svolgendo il tour e, al termine, ha invitato i presenti a un SUO evento. A volte mi sembra di svuotare il mare con un secchiello. A volte maledico il femminismo che mi ha dato strumenti per vedere cose che non posso cambiare. Che stanchezza.
Questa mattina sono andato al cinema dove lavoro per ospitare delle classi di adolescenti che non dovevano vedere nessun film, mi è stato detto di predisporre microfoni e il PC perchè avrebbero avuto bisogno di proiettare delle slide. Non sapevo altro. Con grande piacere ho assistito ad una conferenza sulla violenza di genere tenuta da una Docente universitaria che ha pubblicato qualche testo sull'argomento.
Io ho capito per la prima volta cosa si cela dietro la parola "patriarcato", per i ragazzi/e è stata l'occasione per confrontarsi su quanto accaduto, su quanto sta accadendo da troppo tempo. Purtroppo gli intereventi delle docenti che avrebbero dovuto moderare il dibattito non sono stati sempre all'altezza degli argomenti trattati e si è evinto, quindi è giusto che nelle scuole (in questo caso nei cinema) si dibatta su argomenti che ci riguardano come collettività ma occorre secondo me competenza, consapevolezza, equilibrio.