La "crisi del maschio" non è una crisi, è una scusa
Questa settimana parliamo di come il discorso sulla sofferenza maschile sia strumentalizzato per lasciare tutto come sta.
È settembre, si ricomincia a girare. Già oggi, per chi è dalle parti di Ravenna (o ci arriva facile) sono alla Festa dell’Unità nazionale a parlare di un tema che mi sta molto a cuore da molto tempo. Chi mi segue sa che una delle mie fisse è la partecipazione alla politica, intesa come sguardo attento dell’elettorato prima ancora che come partecipazione attiva. Oggi discuteremo proprio di questo con un bel po’ di gente, inclusa Marwa Mahmoud, che nella Segreteria Nazionale del PD ha la delega alla Partecipazione e Formazione politica. Per chi non può venire, c’è la diretta sul canale YouTube del Partito Democratico.
Domani arrivo dai miei proprio mentre Donald Trump compare davanti ai giudici nel primo dei tanti processi che dovrà sostenere nei prossimi mesi, e spero che i miei nipoti mi lascino cinque minuti cinque per seguire l’udienza. Lo faccio più che altro per spezzare il viaggio, perché il 7 alle 13.00 devo essere a Venezia, non proprio per la Mostra del Cinema ma quasi: sarò ospite al primo della serie di incontri della rassegna About Women organizzati da Alessandra Moretti, e parleremo del difficile rapporto fra donne e potere. Più informazioni qui, e diretta disponibile sui canali social di Moretti.
Ma veniamo all’argomento della settimana.
L’eterna “crisi del maschio”
La serie sulla violenza di genere (qui la prima parte, qui la seconda) non è ancora esaurita, ovviamente, e prima o poi dovrò tornare all’ordinaria amministrazione (serie viste, podcast ascoltati, libri letti). Quel momento non mi sembra ancora arrivato, per cui andiamo avanti e parliamo di un lato della decostruzione che mi sembra ancora poco esplorato, perché ha meno a che vedere con le azioni dirette che con la nostra reazione a quelle azioni.
Un fenomeno che si verifica regolarmente quando un caso di violenza sessuale (o più di rado, femminicidio) occupa molto spazio nelle cronache nazionali e internazionali è la fioritura di editoriali, podcast, articoli e pensose riflessioni sulla sofferenza degli uomini, in particolare dei più giovani, e sulla cosiddetta “crisi del maschio”. Qui di seguito ho inserito qualche titolo, più o meno esasperante a seconda dei punti di vista.
La “crisi del maschio” è un continente che almeno dai tempi del movimento suffragista viene riscoperto ogni volta come se fosse la prima. Nell’800 le donne che lottavano per il voto dovevano vedersela con una propaganda battente che dipingeva i loro poveri, poveri sposi intenti a badare alla casa tutti soli, abbandonati da consorti troppo occupate a marciare vestite di bianco o a imparare il ju-jitsu per difendersi dalla polizia. Il sottinteso era che quei meschinelli oppressi (a stragrande maggioranza borghesi, e probabilmente provvisti di servitù) dovessero rinunciare alla loro identità maschile, piegandosi all’umiltà del lavoro di cura.
Ora che giusto Vannacci e gli stronzi da bar di cui si fa portavoce possono sostenere che l’emancipazione femminile sta distruggendo la società, il tono dell’analisi è diventato più pensoso, più sofferto. Certo, gli uomini vedono la loro egemonia erodersi lentamente giorno dopo giorno, e non sanno più dove e come collocarsi, perdono il loro ruolo e non sanno costruirne un altro, sono privi di modelli positivi e per questo diventano violen- [RECORD SCRATCH]
Ricominciamo.
Il vero problema dietro la “crisi del maschio”
Una crisi che dura da oltre due secoli non è una crisi: è una scusa per non affrontare un problema sistemico, che gli editoriali, i podcast, i libri eccetera continuano a indicare senza vederla. Perché la perdita di egemonia maschile non è il problema, il problema è l’egemonia maschile e l’idea che questa sia necessaria, anzi, vitale alla costruzione dell’identità dei maschi. In altre parole: ti insegnano che sei l’essere umano di base, quello dominante su cui si plasma l’intera idea del mondo, e questo insegnamento ti viene presentato nel quotidiano come un fatto ineluttabile della vita. Chiaro che la sola idea che altre soggettività abbiano la tua stessa dignità e diritto di affermarsi come centrali ti sembra al minimo ridicola, al massimo inaffrontabile. Se la tua intera identità gira intorno all’essere il capo di casa e di tutte le cose, quello che propone e dispone in ogni aspetto della vita sociale, personale e relazionale, appena anche solo le donne intorno a te cominciano ad alzare la testa e pretendono di decidere in autonomia tu non sai proprio più chi sei. E dai la colpa a loro e alle loro alzate di testa, ovviamente1.
Non avere mai visto la propria centralità come problematica è il vero guaio degli uomini, soprattutto degli uomini bianchi, abituati a muoversi nel mondo senza altri ostacoli che non siano quelli che si mettono da soli tenendo in piedi il sistema patriarcale e capitalista che attribuisce loro ogni vantaggio. E certo, un uomo bianco povero sta peggio di un uomo bianco ricco, ma ha comunque un vantaggio su una donna bianca povera: non c’è lotta di classe e per i diritti sociali che non passi per il riconoscimento della diversa natura dell’oppressione. Il marxismo-leninismo non riuscì ad andare molto oltre le affermazioni di principio sulla liberazione delle donne, che nei fatti rimasero ancorate al ruolo domestico senza che i loro compagni sentissero davvero l’esigenza di contribuire in maniera equa a distribuirne il carico. Un atteggiamento che si è conservato intatto ed è arrivato fino ai giorni nostri, a quanto pare, anche se le femministe esistevano già ai tempi di Marx e una di loro era proprio Eleanor Marx, la figlia di Karl2.
Muoversi nel mondo al di fuori dei ruoli di genere prestabiliti è qualcosa che le donne hanno imparato a fare per necessità e per volontà individuale e collettiva. Per decenni abbiamo politicizzato ogni nostra scelta, l’abbiamo discussa e messa in comune, abbiamo prodotto testi, parole, pensiero, azione e interpretazioni del nostro stare al mondo. Niente di tutto questo è successo in maniera massiccia e coordinata dal lato maschile: certo, molto pensiero è stato prodotto sulla collettività umana, ma quasi niente sulle caratteristiche specifiche dei maschi. Gli uomini, semplicemente, non si sono mai visti come genere, solo come persone: “il genere” è tutto il resto.
Femminilità plastica e maschilità rigida
Essere pressati, costretti a definirsi come dominanti, non avere il permesso di essere fragili, vulnerabili e sofferenti senza essere etichettati come “pappamolla” (vedi la lista dei titoli qua sopra) è ovviamente faticoso e genera una grande quantità di sofferenza mentale non gestita e non affrontata perché i Veri Uomini non vanno dallo strizzacervelli, quella è roba per femminucce e invertiti3. Questo è un fatto, e finalmente ce ne stiamo accorgendo. Qual è il problema, quindi?
Il problema è come pretendiamo di rispondere a questa sofferenza, ed è quasi sempre con la cura, la comprensione e l’accoglienza, mai - o quasi mai - con una proposta d’azione e di cambiamento. Detto più semplice: se i maschi soffrono, dobbiamo farli soffrire un po’ meno offrendo loro comprensione e morbidezza. Poverini: soffrono. Il mondo dovrebbe tenerne conto, e per “il mondo” intendiamo “le persone la cui indipendenza e desiderio di autodeterminazione scatena in loro il terrore di perdere la propria centralità”. Bisogna essere più soft, parlare in toni pacati, se no capisci che si va muro contro muro e insomma tu vuoi la guerra uomini contro donne e invece io vedo solo le persone e comunque NON TUTTI GLI UOMINI SONO VIOLENTI!
La sofferenza maschile di fronte alla sottrazione di prerogative date per scontate nei secoli dei secoli è al centro dell’ideologia dell’intera maschiosfera4, con sfumature diverse a seconda dei vari gruppi. Al di là di queste derive radicali, però, è chiaro che la sofferenza maschile viene trattata con un livello di attenzione che se da un lato è legata alla maggiore pericolosità che ne deriva (gli uomini sofferenti possono diventare violenti: nemmeno questo viene visto come una spia del problema a monte), dall’altro è anche legata alla maggiore attenzione che abbiamo per gli uomini rispetto alle donne e alle altre soggettività.
Potrebbe sembrare controintuitivo, dato che molto del nostro dibattito pubblico passa per la ricerca di strategie di difesa di donne e soggettività queer dalla violenza maschile. Invece il problema è proprio quello: l’attenzione verso chi la subisce è molto minore rispetto a quella riservata a chi agisce, che è sempre in qualche modo al centro della scena, come pericolo inevitabile oppure come vittima incolpevole del suo disagio esistenziale. La maggior parte delle analisi sulle radici della violenza si fermano alla constatazione delle sue origini culturali, oppure a considerazioni auto-assolutorie: siamo fatti così, siamo fatti male, che ci volete fare. La soluzione suggerita sotto traccia è: gli uomini perdono la loro egemonia tradizionale? Presto, troviamogliene un’altra prima che facciano danni.
Della sofferenza delle donne, invece, si parla solo quando sono vittime di qualche forma di violenza, insomma quando la sofferenza maschile (o la prevaricazione, che non necessariamente è radicata nella sofferenza) tocca l’apice e qualcuna muore o viene stuprata. La sofferenza quotidiana delle donne è un non-argomento: uno, perché le donne soffrono per lo più in silenzio e senza quasi accorgersene o sentire di poter manifestare dolore e disagio; due, perché di rado la sofferenza psicologica delle donne si traduce in violenza contro gli altri, al massimo in autolesionismo; e tre, perché una certa soglia di sofferenza è considerata parte integrante dell’esperienza femminile, se non proprio una componente fondativa dell’essere donna. Le donne devono soffrire. Prendetevela con quella che ha mangiato la mela senza permesso.
Non è una gara a chi soffre di più, beninteso, ed è chiaro che esistono differenze individuali, oltre che sociali e di genere. Però le donne soffrono tutta la vita, vessate dalla società che pretende di limitarne comportamenti e scelte, normare i loro corpi in maniera millimetrica, sopprimere ogni manifestazione di insofferenza. A questa sofferenza si sono incaricati di rispondere i movimenti femministi, portandola nel collettivo, individuando la matrice comune e cercando una via d’uscita. Abbiamo imparato la plasticità, la resilienza, si sarebbe detto prima della pandemia, e quella plasticità e quella resilienza sono lodate a patto che non si spingano fino a chiedere un cambiamento che ci permetta di vivere un po’ più serene, senza doverci guardare costantemente le spalle.
La femminilità è plastica e mutevole, cambia di secolo in secolo e ogni donna la definisce per sé, accettandone e attuandone le componenti che sente più vicine al suo essere o trova appropriate nel contesto sociale, rigettandone altre e assumendone altre ancora che esulano dal paradigma tradizionale. “Donna a modo tuo” è un’espressione che pur nella sua assurdità (esiste un altro modo che non sia il mio, senza che io mi senta costretta a fare cose che non sento?) ha trovato cittadinanza. Hai mai sentito dire “Uomo a modo tuo”? Io no. La maschilità è rigida, uniforme, non interpretabile, di sicuro non assumendo tratti associati alla femminilità. L’Uomo Vero è una cosa e una soltanto, le parti che lo compongono sono variabili ma non modificabili e devono rispettare un equilibrio preciso, comporre un quadro complessivo di forza più o meno sobria e controllata.
Ok, come ne usciamo?
La risposta non è semplice, come non lo è mai in questi casi, e prevede tre azioni da compiere contemporaneamente. Non esiste una gradualità di intervento o una priorità: bisogna riconoscere il bisogno di dominanza come parte fondante dell’identità maschile, collegarla all’egemonia maschile nella società patriarcale, problematizzare questa egemonia e incoraggiare5 gli uomini a plasmare la maschilità, rendendola elastica e capace di accomodare modi diversi di stare al mondo, interpretazioni più larghe e libere della stessa identità di genere. Magari ci torniamo su un’altra volta, per questa settimana mi pare che abbiamo dato.
Continua, quindi.
Giulia
Come Vannacci e qualche milione di stronzi da bar.
La sua storia è stata raccontata in Miss Marx, film di Susanna Nicchiarelli.
Potremmo aprire tutto un capitolo sul peso delle parole e su come il contesto faccia la differenza anche nell’uso dei dispregiativi, ma non lo faremo oggi.
Avevo scritto: consentire. Ma poi mi sono detta: ma chi glielo deve dare, il permesso? Se lo devono dare da soli. Noi mica abbiamo aspettato, e la posta in gioco era molto più alta.
Madonna mi gira la testa per quanta carne hai messo sul fuoco. Grazie per il link al saggio di Jennifer Guerra (e anche qui, quante informazioni e che paura...). Daje per l'intervento di stasera!!