Filippo Turetta, Gisèle Pélicot e i grandi rimossi collettivi
Quanto dovremo ancora aspettare?
Prima di tutto, le comunicazioni di servizio: erano mesi che facevo la vaga riguardo a un podcast su cui stavo lavorando, e nel frattempo quel podcast è uscito. Si intitola Donne, vino e segreti ed è prodotto da La Content in collaborazione con Regione Puglia e l’Associazione Le Donne del Vino.
Sono cinque puntate in tutto di storia femminile del vino dal secondo dopoguerra in poi, raccontata dalle voci delle donne che c’erano e ci sono. Contiene successi e fallimenti, crisi e recuperi, l’invenzione dell’influencer marketing, almeno un’idea davvero avveniristica e uno scherzone talmente ben riuscito che quando ce l’hanno raccontato abbiamo riso per giorni.
E ora. Andiamo all’argomento principale.
Del processo Pélicot si parla poco, mi pare, o comunque meno di quello che dovremmo. Forse perché quello di cui si occupa - un caso di violenza sessuale durato decenni, in cui una donna veniva sedata e ceduta dal marito a chiunque volesse abusarne - è successo in Francia, e quindi, per uno strano fenomeno di dissociazione, non potrebbe succedere qui. Di sicuro si tratta di un caso clamoroso, non solo per la magnitudo e la durata degli abusi, ma anche per la determinazione della signora Pélicot (che continua a utilizzare di proposito il cognome da sposata) a spostare il peso della vergogna dalla vittima agli abusanti. Lei non intende vergognarsi di quello che ha subito: sono gli uomini che l’hanno stuprata a doversi vergognare.
Sono uomini normali, tutto il contrario dell’identikit dello stupratore che ci viene normalmente offerto: non il mostro dietro il cespuglio o l’immigrato violento, babau e capro espiatorio collettivo, ma gente con lavori banali, famiglie, vite quotidiane non particolarmente notevoli. “Bravi ragazzi”, si direbbe, che uno dopo l’altro hanno risposto all’annuncio pubblicato da Dominique Pélicot e sono andati a casa sua a stuprare Gisèle, incosciente, e le hanno trasmesso malattie veneree, causato lesioni, dolori, malessere per cui lei cercava risposte, sempre accompagnata dal marito. Fino al 2020, Gisèle Pélicot non ha saputo niente di quello che le succedeva. Fino al 2020, anno in cui la polizia ferma Dominique Pélicot mentre riprende filmati di nascosto sotto le gonne delle donne, il loro matrimonio era perfetto.
Uno dopo l’altro, notte dopo notte, decine di uomini normali hanno scelto di credere che abusare del corpo inerme di una donna non in grado di dire di no fosse accettabile. O forse questa è solo una linea di difesa, e ognuno di loro sapeva che non esiste consenso se non esiste la possibilità di ritirarlo. Sapevano di compiere un abuso. Ma si sono raccontati, e raccontano, di essere stati tratti in inganno, perché l’abuso era la parte eccitante. Non il rapporto, ma la consapevolezza del sopruso. Se Gisèle fosse stata sveglia e partecipe, pochi sarebbero andati avanti. Quello che cercavano non era un “gioco di coppia”, era proprio una violenza, era la complicità con un altro uomo nella sopraffazione su una donna.
Non mi stupisce molto che gli uomini italiani si stiano comportando come se la Francia fosse un paese lontano e diversissimo dall’Italia per usi e costumi. Oltre settanta uomini come loro (ma è una stima per difetto) hanno letto un annuncio, hanno risposto, si sono presentati a casa Pélicot lavati, non profumati e con le unghie corte come da istruzioni nell’annuncio, sono entrati nella stanza in cui Gisèle dormiva e ne hanno abusato, accettando di farsi riprendere. Sono più passaggi, ognuno dei quali richiede un assenso specifico alla violenza, e in ognuno di essi avrebbero potuto fermarsi e chiedere l’aiuto di uno specialista per individuare l’origine di quella fantasia: nessuno degli imputati ha avvertito la necessità di farlo.
Uno avrebbe detto che pensava di abusare di una morta.
Settanta e passa uomini normali. Non mostri, non pazzi, non gente che sta male. Normali. Che sono tornati poi ognuno alla propria vita, come se niente fosse.
Mi sembra comodo dire: io no, io mai. Non è mai chi legge, è sempre qualcun altro. Un altro uomo, generalmente sconosciuto. Lontano. Addirittura francese. Le battute sulla mancanza di civiltà di gente che non ha il bidet si scrivono da sole. Gli uomini italiani respingono con violenza ogni occasione per interrogarsi sulla natura della maschilità, sugli elementi di pericolo che contiene l’educazione che hanno ricevuto e che a loro volta impartiscono ai più giovani, sui modelli che hanno assorbito e che contribuiscono a perpetuare. Ripeto, non c’erano mostri, fra quegli uomini: nessuno era strano, perverso, noto per le sue abitudini discutibili. Erano tutti uomini d’oro.
Nel frattempo, le donne guardano a Gisèle Pélicot con ammirazione. La guardiamo pensando: saprei fare come lei? Non mettiamo in discussione che sia consapevole della portata delle sue azioni e dell’effetto che hanno su di noi, sull’opinione pubblica, sulla possibilità di rimettere in discussione e chiarire (in Francia, mica qui) il concetto di consenso. Madame Pélicot lo sa, l’ha proprio detto. Il suo non è coraggio, è senso del dovere. Sostenuta dalle altre donne, dalle figlie, dalla solidarietà di una rete che le sta sempre intorno, questa signora ormai anziana va a ogni udienza del processo, guarda in faccia gli uomini che l’hanno violentata, l’ex marito che l’ha messa a disposizione della folla, costringe la corte, la stampa e il pubblico a visionare i filmati che la ritraggono durante le violenze. È una donna distrutta, dice. E mi domando cosa ne sarà di lei quando il processo sarà concluso, tutti i suoi aguzzini saranno (sperabilmente) in carcere, e i riflettori si spegneranno. Quando la missione sarà compiuta, cosa farà, Madame Pélicot? Me lo domando ogni giorno.
(Mi domando se le crederebbero, se avesse un’altra faccia. Se invece che anziana, aggraziata ed elegante, come l’ha definita Le Monde, fosse giovane e provocante. Se fosse facile, in virtù della sua sensualità, ipotizzare che fosse consenziente anche se priva di coscienza.)
Mi faccio un sacco di domande, sì, perché sono una donna e sono una femminista e sono abituata ad analizzare gli scenari, a esercitare l’empatia, a cercare di comprendere i meccanismi dell’umano, a riconoscere in me stessa le zone d’ombra, quelle che hanno bisogno di lavoro. Discendo da una lunga dinastia di donne che hanno fatto altrettanto. Ma intorno a me, con poche eccezioni, gli uomini sono inerti. Non si interrogano, non si guardano dentro, non voltano la torcia verso gli angoli bui dove alligna lo stesso perverso desiderio di affermare la propria identità regnando sul corpo e sulla vita di un’altra. Si auto-assolvono. Io cosa c’entro. Io mai. Io non. Come se il fatto di non agire la violenza ti facesse in automatico guadagnare punti-umanità, come se non fosse il minimo indispensabile.
Lo dico perché nel frattempo qui in Italia si celebra il processo a Filippo Turetta, che ha ammesso la premeditazione del femminicidio di Giulia Cecchettin, ha ammesso che non sopportava di vederla felice senza di lui, anzi: non sopportava proprio che lei continuasse a vivere, altro che laurea. Lui doveva possedere, doveva controllare, doveva comandare. Lui è diventato, in breve tempo, l’idolo delle sacche di disagiati che si radunano nei forum e nelle chat degli incel e dei redpill. Disagiati, sì, perché lo sono: ma disagiati pericolosi, di cui non ci vogliamo occupare. Per fare un paragone che forse si capisce: se trattassimo la radicalizzazione misogina dei giovani uomini come trattiamo quella islamica, avremmo tutto un altro scenario per le mani. Invece no, perché la sicurezza e la libertà delle donne non sono una priorità: sono una minaccia per l’ordine pubblico, e devono essere limitate in ogni modo.
E lo so che i ragazzini che fanno gli spandoni sui social stilando lunghe liste di norme di comportamento che le ragazze dovrebbero rispettare stanno, appunto, facendo gli spandoni. Ma è proprio questo il punto: la spacconata è un mezzo per rappresentarsi come forti, vincenti, dominanti, maschi. La spacconata è un comportamento appreso. Un codice. Nessuno di questi ragazzini vuole sembrare debole, o uno sfigato. E il modo che hanno imparato per manifestare la virilità è questa aggressività esagerata, debordante, che le ragazze a loro volta hanno introiettato come segnale di sicurezza di sé. È il contrario. Ma loro non lo sanno, e quando lo scoprono spesso è troppo tardi, e anche se lo segnalano, e cercano di liberarsene (come Giulia Cecchettin, come Aurora, “caduta” dall’ottavo piano di un palazzo di Piacenza) la violenza le distrugge.
Filippo Turetta è uno di questi uomini, uno di questi ragazzi mal educati dagli altri uomini, da quelli più grandi di lui, da un mondo intero che non gli ha fornito altri modelli di maschilità che non fossero quello basato sulla dominanza. Non è una giustificazione, stiamo parlando di un adulto, di una persona responsabile delle proprie azioni e che ha avuto tutte le occasioni e le possibilità per maturare e fare altre scelte, imparare a trattare le donne come esseri umani e non come proprietà. Quello che ha fatto questo ragazzo normale è talmente inaffrontabile da parte degli altri ragazzi normali che in rete si è diffusa la teoria del complotto secondo cui Filippo Turetta non esiste. No, non mi interessa approfondire come funziona. Le teorie del complotto non devono avere una logica, per diffondersi: basta che rispondano a un desiderio di controllo delle persone ed è fatta. È più comodo che Filippo Turetta non esista, perché la sua esistenza mette in crisi un modello maschile consolidato? Perfetto, lo facciamo non esistere.
Lo ripeto per la centesima volta, sapendo che essendo una donna non verrò ascoltata, non mi si darà retta e quello che dico non ha alcun valore o peso rispetto a quello che gli uomini pensano sia o meno giusto fare: qui manca una presa di coscienza collettiva che parta dai leader, dagli uomini visibili, dai politici, dagli intellettuali, dagli uomini di spettacolo. E quando parlo di presa di coscienza collettiva non parlo di contrizione, di “Io non lo farei mai” o di “mi vergogno per il mio genere”. Ce ne facciamo ZERO, della contrizione. Anche se novembre ne sarà pieno, perché la contrizione viene utilizzata per risparmiarsi la fatica di organizzarsi, guardarsi dentro, decostruirsi, fare autocoscienza.
Non serve a niente. Pure Davide Fontana, assassino di Carol Maltesi, aveva pubblicato sui social una card contro la violenza sulle donne. La contrizione è a costo zero per il singolo, il prezzo lo paga la comunità. Lo pagano le donne, ma lo pagano anche gli uomini, usati dal sistema come mezzo di controllo sociale: tu occupati di opprimere qualcuno, noi in cambio ti diamo status. Maggiore è la scala della tua oppressione, maggiori saranno i dividendi.
Gisèle Pélicot e Filippo Turetta sono grandi rimossi collettivi. Sono il segnale evidente che gli uomini non hanno voglia di mettersi al lavoro su sé stessi, perché non ne vedono i vantaggi. Che pure ci sono: ma fare quello che è giusto non dovrebbe passare per considerazioni sull’opportunità. Se va fatto, va fatto. E se non avete intenzione di farlo, fateci un favore: il 25 novembre state zitti. Non vi vogliamo vedere sui giornali a stigmatizzare la violenza, se poi non siete disponibili a essere maschi al di fuori della logica della sopraffazione. Non vi vogliamo vedere proprio, con i segni rossi in faccia accanto a gente accusata di abusi sessuali, quando non direttamente condannata. Ci fa schifo che trasformiate la nostra paura e la nostra oppressione in un’occasione di personal branding, o peggio, di campagna elettorale. State alla larga e tornate quando sarete pronti ad assumervi la vostra parte di responsabilità. Fino ad allora, muti, grazie.1
Le date
9 novembre - Viareggio, Festival Melosmente, ingresso gratuito
13 dicembre - Arese (MI), Teatro Comunale, ingresso gratuito.
Le altre date prossime venture:
21 novembre - Cose mai successe ad Asti, Centro Culturale Fuoriluogo
5 dicembre - Prato, Teatro Politeama Pratese, incontro della rassegna La farmacia delle parole con i detenuti del carcere di Prato.
Ci vediamo presto!
Giulia
E se pensate che il problema sia il mio tono, e non la violenza, siete parte del problema e non della soluzione.
Senza dimenticare che tutti quei "io non", "io mai" sommati, alla fine, danno che l'Italia è uno dei 6 Paesi con il maggior numero di turisti sessuali ... così per dire eh.
https://www.osservatoriodiritti.it/2018/03/27/turismo-sessuale-minorile-nel-mondo-italia-ecpat/
Giulia, a Milano non vieni? Mi piacerebbe venire a sentirti dal vivo. La storia della signora francese mi ha talmente inorridito che faccio anche fatica a leggere, mi viene nausea, perché si che succede anche qui. Che uomini che conosciamo, anche nostri mariti e nostri figli, i nostri colleghi ormai escono dalle fantasie e possono compiere questi obbrobri. Per favore, oltre a Turetta parla della bambina di Piacenza, a 13 anni (tre-di-ci!) è stata uccisa "dal fidanzato". Non so tu, ma io sento una rabbia pazzesca. Era addirittura andata in ospedale. Chi ha aiutato? La preside scrive una lettera ai ragazzi per trattare che non sono soli. Si. Sono soli. Se si viene a sapere che un ragazzo ha alzato le mani UNA VOLTA, anche solo una, ha commesso un reato, è un campanello d'allarme. Era una bambina e nessuna l' ha aiutata. Per favore parlane.