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apr 9Messo Mi piace da Giulia Blasi

Il tema è molto interessante, quindi credo che tu abbia fatto comunque bene ad articolare in modo molto completo una serie di pregiudizi estremamente radicati sul mondo del self-publishing che dicono - secondo me - relativamente poco degli autori che scelgono questa modalità e moltissimo invece di quello che ci piace chiamare “mondo della cultura”. Io, che ho frequentato il mondo dell’editoria da entrambi i lati della barricata, provo a fare l’avvocato del (povero) diavolo e a ribaltare il tuo ragionamento, sperando sia uno spunto di riflessione interessante. Chi oggi sceglie la strada dell’editoria tradizionale, piuttosto che il self-publishing, lo fa per pigrizia (non ha voglia di capire come funziona la filiera dell’industria nella quale opera o di investire del tempo nell’acquisizione di competenze accessorie alla scrittura) o per insicurezza (ossia perché crede di potersi considerare un autore vero solo se ha la validazione di un editore). Sceglie così di accontentarsi di anticipi molto spesso decisamente miseri, a fronte di una enorme quantità di lavoro che non finisce con la consegna del file Word con dentro il libro, ma continua con sfiancanti presentazioni in giro per l’Italia, in cui - se va bene- vendi 20/30 copie, ovvero 35 euro di vendite che ti verranno corrisposti un anno dopo, per un lavoro che tra andata, ritorno e pernottamento ti è costato due giorni della tua vita. Però ti dà l’idea di essere rilevante. E di permette di postare sui social foto di presentazioni nella speranza di creare l’effetto che c’è un gran numero di persone che non aspetta altro che di sapere quello che io ho da dire. L’editoria tradizionale si nutre di questa fragilità dell’ego degli autori. Li sfrutta, genera un meccanismo che fa sì che a scrivere per vivere possano essere solo persone di borghesia medio alta, e non si occupa della promozione in modo sensato o efficace, perché non ha investito un euro nell’acquisizione delle competenze per farlo. Questo comporta l’approccio detto “spray and pray”: provo a fare delle cose random nella speranza che qualcosa funzioni, ma senza avere alcuna contezza di cosa mi sposta davvero le vendite di quel libro, perché non c’è tempo o risorse di creare un piano sartoriale su quel singolo progetto. Chi fa self-publishing non per vanità, ma perché ha voglia di sperimentare oltre i recinti dorati (ma ormai decisamente scrostati) dell’editoria tradizionale, invece, può costruire campagne specifiche su quello che sta cercando di dire, sul pubblico che sta cercando di raggiungere, può misurare quali delle iniziative che mette in campo sono più efficaci e può usare in modo più libero il surplus della % di roy (quello che normalmente viene diviso tra editore e distributore) per mettere a punto un piano che incontri i lettori dove sono. Una missione nobile, per chiunque creda che i libri e la lettura siano davvero strumenti di democrazia, e non il futile esercizio di chi se lo può permettere. Inoltre, non è vero che coi libri non si fanno soldi. Sui libri sono costruiti imperi: è solo che - come in molti altri ambiti della società- la polarizzazione dei profitti è sempre più estrema. Sperimentare col self-publishing, quindi, è anche un modo di creare alternative all’estrema disfunzionalità del sistema esistente. Lunga vita ai coraggiosi renegades del mondo dei libri, dunque. ❤️

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Oddio, una persona che ammette un errore senza giri di parole: se è un sogno non svegliatemi. Grazie, Giulia!

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Grande Giulia. Non solo per aver ammesso l'errore, ma per esserti poi infilata in un ambiente che non frequenti pur di capire come funziona. E, dopo averlo ben capito, parlarne in giro. Thanks

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Nel frattempo io conservo gli scontrini perché Letta mi aveva promesso il cashback 😀

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