Il giorno dopo
Abbiamo camminato, abbiamo parlato, abbiamo scritto, abbiamo protestato. E adesso?
Esco dal 25 novembre sempre un po’ stanca ed esaurita, come del resto tutte le persone che di questi temi si occupano tutto l’anno e non solo per darsi un tono intorno a una ricorrenza. Gli anni passano, i governi cambiano, tutti o quasi dicono di voler affrontare il problema della violenza maschile contro le donne ma non vanno molto al di là della contrizione e di qualche misura repressiva o compensativa (e questi sono i migliori). Quest’anno ci siamo dovuti ciucciare Valditara che negava l’esistenza del patriarcato e usava la conferenza stampa di lancio della Fondazione Giulia Cecchettin per fare propaganda razzista e xenofoba, Meloni che lo difendeva, il solito circo di una maggioranza che in qualche modo deve pur farci dimenticare la quantità di soldi spesi per attrezzare dei lager vuoti in Albania. Con il governo Meloni anche la retorica, che prima si limitava a essere stantia, è diventata tossica. Aumenta il livello dell’odio, non lo diminuisce.

Il potere non vuole affrontare il problema, perché il problema è quello che lo tiene al potere. La violenza che subiamo non è una serie di incidenti individuali, è la manifestazione di una cultura che ha bisogno di tenerci in riga, sottomesse e disponibili a collaborare. Siamo bambole confezionate in scatole strette, ognuna con i propri accessori, chiuse in una funzionalità alla quale non possiamo sottrarci. Una funzionalità che ci viene venduta come realizzazione personale: quanto è bella la cura, quanto è bello stare con i figli, quanto è bello cucinare per un uomo, quanto è bello organizzare gli spazi in modo efficiente, quanto è bello mangiare sano e tenersi in forma, quanto è bello conciliare lavoro e famiglia, e intanto nel podcast in cui Cattelan intervista Brunori Sas ci si domanda ad alta voce: portare la biancheria da lavare alla mamma è affetto filiale o maschio bianco etero? Le donne conoscono la risposta. È all’87% composta di parolacce.

Il 23 novembre sono tornata di corsa da un incontro in Abruzzo per raggiungere il corteo che ha attraversato Roma da Piramide a piazza Vittorio. Non ero nelle condizioni fisiche per farlo, mi facevano male la schiena e le anche, eppure ero lì, perché il corpo è importante e mettere il mio corpo nello spazio insieme a centinaia di migliaia di persone è per me fondamentale. Già quest’anno, però, eravamo un terzo dell’anno scorso: sempre un numero incredibile e che si mangia la stragrande maggioranza delle manifestazioni, ma l’onda emotiva della morte atroce di Giulia Cecchettin si è esaurita. È passato un anno, e pochissimi uomini hanno colto l’occasione per farsi delle domande su cosa compone la loro identità maschile. Però sono prontissimi a dirti che “assessora” non è italiano. L’autocoscienza collettiva può attendere.
Quer pasticciaccio brutto de Più Libri Più Liberi
Mi sono presa qualche giorno per capire quello che sta succedendo intorno a Più Libri Più Liberi, principalmente perché ne stavano già parlando tutte e tutti in una maniera che mi sembrava corretta nel merito se non proprio nel metodo. Però poi ho capito che forse era giusto esprimermi, senza per questo voler contribuire a una sassaiola. Perché quello che è successo va al di là del caso singolo, tocca temi più ampi e segnala una criticità nella gestione del discorso sulla violenza quando da astratto si fa concreto.
Faccio una premessa (forse non troppo necessaria, ma magari non tutte le persone iscritte sanno tutto): conosco Chiara Valerio, ho condiviso con lei momenti pubblici e privati e ho moltissima stima di lei e della sua intelligenza. Se ho deciso di scrivere quello che segue è perché le posizioni prese in e su uno spazio pubblico chiamano risposte pubbliche. Io non sono d’accordo con la sua decisione di invitare Leonardo Caffo (attualmente sotto processo per maltrattamenti e lesioni alla compagna) a un’edizione dedicata alla memoria di Giulia Cecchettin, cioè una vittima di femminicidio. E non sono d’accordo nemmeno con il modo in cui ha deciso di affrontare le inevitabili proteste per la sua scelta, che ha finito per ingigantire il caso.
Quando ci si muove sul piano del simbolico, bisogna tenere presente che i simboli non hanno tutti lo stesso peso. Dedicare una manifestazione a una vittima di femminicidio è un atto simbolico: segnala sensibilità e attenzione verso un tema, quello della violenza maschile contro le donne. Non è un tributo al singolo caso di cronaca. Dare spazio e voce pubblica a una persona gravata da un procedimento giudiziario per violenza domestica, in questo contesto, pone una questione simbolica, quindi di opportunità: non si possono fare entrambe le cose, la dedica e l’invito. Un simbolo finisce per cancellare l’altro. E così è stato.
Il garantismo non c’entra. Nessuno vuole mandare Caffo in galera senza processo. Ma considerato quanto è difficile per le donne riuscire ad arrivarci, a un processo, e quanto è accidentato e doloroso il percorso che ti porta a una denuncia, l’invito stona. Lo dico con la piena coscienza del fatto che quando una cosa del genere arriva nella tua orbita è sempre molto difficile affrontarla: rifuggo dalle prescrizioni assolute su come ci si dovrebbe o non dovrebbe comportare nel privato in questi casi, la vita è complicata e gli umani dotati di coscienza annaspano alla ricerca della soluzione che sentono più adatta alle circostanze e più aderente ai propri valori. Ma qua non stiamo parlando di un invito a cena. Stiamo parlando di uno degli eventi più importanti del calendario editoriale italiano, che si svolge a pochi giorni di distanza dalla celebrazione della giornata per l’eliminazione della violenza contro le donne, e di un palco e di uno spazio che alle Giulia Cecchettin di questo mondo sarà per sempre negato, perché come dice lo slogan di Non una di meno: più non hanno voce.
Insomma, condivido il disagio e la decisione di Fumettibrutti. E sono d’accordo con Vera Gheno. La mia stima e il mio affetto per Chiara sono gli stessi di prima, perché - ehi! - gli esseri umani a volte fanno cose che non condividiamo. Ma gli vogliamo bene uguale.
Un libro bellissimo
Parliamo di cose belle: la settimana scorsa ho letto quasi d’un fiato questo libro qui.
La notizia è una notizia perché solo poche settimane fa stavo dicendo che non riuscivo più a leggere, e perché è un romanzo di una bellezza incredibile, o forse (come WandaVision, come Agatha All Along) è un romanzo arriva nella mia vita nel momento in cui mi serviva. C’è della serendipità straordinaria anche nel modo in cui l’ho incontrato: ero da Rhizome, a Roma, per il lancio di MADRE di Go Dugong - Washé, e ho visto questo romanzo su uno scaffale. L’ho sbirciato, e ho subito comprato la versione originale per Kindle1.
Un modo veloce per vendermi un libro è dirmi: ricorda Ishiguro. E in effetti è vero: The Other Valley ha, a tratti, degli echi di Non lasciarmi. La premessa della storia è onirica: c’è una valle, un luogo idilliaco, e accanto a questa valle, da un lato e dall’altro, ce ne sono altre, identiche. In ognuna, il tempo è avanti o indietro di vent’anni rispetto a quella in cui ci si trova. Howard non fa mai l’errore di tentare di spiegare la genesi di queste valli, non appesantisce la storia con pseudo-spiegazioni: il suo mondo è quello che è, come il nostro è quello che è, e i suoi abitanti lo accettano come si presenta. Vivono nella coscienza del fatto che, in ogni momento delle loro vite, il loro doppio vive vent’anni avanti o indietro rispetto al tempo in cui si trovano, e così i loro cari. Passare da una valle all’altra è permesso solo su richiesta: c’è un organo istituzionale che si occupa di vagliare queste richieste, per consentire a chi ha perso qualcuno in maniera traumatica e improvvisa di rivederlo ancora una volta, senza essere visto o riconosciuto, oppure di fare visita a futuri figli o nipoti che nasceranno dopo la sua morte. Ogni infrazione alle regole viene punita con molta severità, e chiunque tenti di varcare la frontiera senza autorizzazione viene arrestato o ucciso sul momento dai cecchini della gendarmeria.
Nella valle in cui la storia ha inizio vive Odile, che ha quasi sedici anni, è intelligente e acuta ma molto timida e impacciata, e ha una cotta evidente per Edme, che è bellissimo, simpatico, gentile, suona il violino e le presta un’attenzione che lei non pensa di meritare. Ci sono tutte le premesse per una storia d’amore, ma un giorno Odile scorge in un prato i genitori di Edme, mascherati come le persone che vengono a rivedere i propri morti dalla valle accanto. E capisce che il suo amico ha i giorni contati.
Howard, che è canadese, scrive in inglese in un paese bilingue, e l’uso del francese come lingua in trasparenza per i nomi delle persone, dei luoghi e degli organi ufficiali che abitano il suo mondo acuisce il senso di romanticismo straniante in cui veniamo immersi fino dalle prime righe. Siamo nel mondo, ma in un altro mondo, in cui esistono le auto e le radio ma non i telefoni, per parlarsi bisogna vedersi di persona, e le informazioni viaggiano di bocca in bocca. Il tempo e la mortalità sono il centro della storia, come lo è la gestione del lutto, che Odile considera parte inevitabile della vita finché la sciagura non arriva a deragliare la sua. Ed è anche una storia di libero arbitrio, che prende il meccanismo di Ritorno al futuro e lo spoglia delle connotazioni da commedia per dare spazio a una riflessione più approfondita sul tema del destino e della nostra possibilità di autodeterminarci.
Il riferimento immediato è ovviamente Ishiguro, come dicevo, ma anche il mito di Orfeo ed Euridice, in cui i ruoli sono invertiti ed è Euridice a essere messa di fronte al dubbio se salvare o meno Orfeo, il cantore, affrontando il costo personale di quel salvataggio e sfidando le norme che preservano la continuità del tempo. Niente di quello che ho trovato in questo romanzo mi è sembrato prevedibile, e la risoluzione è così soddisfacente che l’ho finito giovedì mattina a colazione, e venerdì ci stavo ancora pensando con lo stesso struggimento.
La traduzione italiana si intitola L’altra valle, è edita da Mercurio, ed è acquistabile qui.
Le date
L’anno è quasi finito, sono rimaste solo queste due:
5 dicembre - Prato, Teatro Politeama Pratese, incontro della rassegna La farmacia delle parole con i detenuti del carcere di Prato.
13 dicembre - Replica di Brutta, Arese (MI), Teatro Comunale, ingresso gratuito.
Ci risentiamo la settimana prossima con una cosa gustosa che questa settimana non ci stava.
Giulia
Quando posso, non leggo in traduzione. Perché ho studiato traduzione.