Il patriarca auspicabile
Qualche riflessione a partire da cose fatte e viste in televisione.
È già inverno? Passato il mio compleanno, comincio ad avere fretta: arriviamo prima possibile ai giorni più scuri, su, così ci leviamo il pensiero. Dicembre e gennaio sono mesi di cova, e anche se ho - di nuovo - un sacco da fare, la brevità delle giornate mi indispone, e in quanto comandante delle Brigate Righeira attendo con impazienza il momento in cui si scavalla e si ricomincia a guadagnare luce, un minuto alla volta, finché non rimetteremo la testa fuori. È anche uscita la lista degli artisti in gara a Sanremo, quindi è praticamente febbraio, dai.
È pure iniziato Whamageddon.
Purtroppo io ho anche ho la brutta abitudine di dire sì a cose che poi mi fanno stare male, solo per un malriposto senso del dovere. Malriposto perché le cose che in effetti dovrei fare (e non sono poche) non mi causano assolutamente lo stesso tipo di ansia e tensione, anzi: sono una procrastinatrice professionista, infatti questa newsletter l’ho iniziata di lunedì mattina e mentre il sole tramonta io sono ancora esattamente a questo punto della scrittura. No, la cosa che ogni volta mi fa dire: devo (e non devo!) sono i rari inviti a talk show televisivi, in prevalenza Zona Bianca, condotto da Giuseppe Brindisi su Rete 4.
Domenica si parlava di Filippo Turetta, Gisèle Pélicot e (molto en passant, pure troppo) del caso di Sofia Castelli, anche lei uccisa da un giovane uomo che le era vicino, e che si è nascosto nell’armadio per accoltellarla mentre dormiva. E insomma, io ero lì, collegata dallo studiolo del Palatino che ho cominciato a chiamare “la stanza del peccato e della cattiveria” e mi sembrava tutto piuttosto civile, tanto che durante la pausa pubblicitaria ho scritto via Whatsapp al mio compagno che ero “un po’ scarica”. Non sentivo di avere granché da dire e non mi veniva mai fatta una domanda precisa, la richiesta era sempre di un commento generico che finiva per ripetere cose dette da altri. Lui accende la televisione, rientriamo dal blocco pubblicitario, e io subito litigo con Capezzone in diretta, reagendo alla frase “non tutti gli uomini” come il cane di Pavlov al campanello.
Il motivo del contendere è irrilevante, a questo punto: l’intersezione di fattori ambientali (la stanzetta, la mia faccia fissa davanti a me nei monitor, il fatto di vedermi mentre andavo in televisione, un ritorno in cuffia che mi riproponeva la mia stessa voce, facendomi perdere il filo del discorso) ed emotivi (quando ti incazzi non sei mai centrata, o almeno: io non lo sono) hanno prodotto l’ennesima performance discutibile per me e godibilissima per gli autori del programma, che credo facciano molto affidamento sul mio scarso autocontrollo. Intendiamoci: quando parlo di “scarso autocontrollo” intendo “per una donna”, perché se fossi un uomo la mia veemenza sarebbe addirittura auspicabile, indice di assertività e non di debolezza di nervi. Però forse devo essere onesta con me stessa: se non trovo il modo di spiegarmi e finisce tutto in un pastrocchio in cui mi viene attribuito un pensiero che non ho mai espresso (che tutti gli uomini sono violenti: non è quello che ho detto, ma gli argomenti fantoccio si portano moltissimo, nella contesa dialettica del talk show), tanto vale che la smetta di tentare quella strada. Non ne ricavo nulla che non sia un fegato così e insulti sui social1, ma soprattutto non ne ricava nulla la collettività.
A proposito di polemiche
Visto che è uscito il cast di Sanremo e certi ambienti che frequento fremono d’indignazione per l’inclusione di Emis Killa (sul quale ho opinioni che racconto volentieri davanti a una birra) a causa di certi suoi testi sessisti, ne approfitto per ripescare l’intervista che mi ha fatto Francesco Raiola per Fanpage nel 2020 a proposito di un caso analogo, che riguardava però Junior Cally. Sono ancora piuttosto d’accordo con me stessa2.
Ennio Doris, il patriarca auspicabile
La sera del 24 novembre Canale 5 ha trasmesso, quasi senza interruzioni pubblicitarie, Ennio Doris - C’è anche domani, il biopic nonché spottone pubblicitario da due ore di Banca Mediolanum, di cui Doris fu il fondatore insieme a Silvio Berlusconi. Il film oscilla fra agiografia da biografie dei santi, con tentativi di tardo-neorealismo nelle parti ambientate in Veneto nel dopoguerra, e tocchi espressionisti con trovate grafiche che A Beautiful Mind può accompagnare solo. Ennio Doris è interpretato nella versione matura da un Massimo Ghini che non sembra essersi minimamente preso il disturbo di provare a entrare nella parte di un uomo la cui voce e accento sono familiari a molti, dato che fino a prima della sua morte era il protagonista degli spot della banca. Per qualche mistero dell’evoluzione umana, quindi, Ennio si trasforma da toso della provincia di Padova in sofisticato gentleman che parla in una dizione vagamente capitolina, sposato con la bionda e venetissima Lina (Emma Benini), che invecchiando diventa l’aristocraticissima Lucrezia Lante della Rovere, non più bionda e nemmeno veneta.
Ma non è per questo che ne voglio parlare3.
Il film, come dicevo, grida “È un bel direttore! È un santo!” da ogni inquadratura. Doris viene dipinto come un uomo probo, generoso, fedele, una specie di San Francesco della finanza, che si spoglia di tutti gli averi (circa) per rimborsare gli investitori danneggiati dal crollo di Lehman Brothers. Il film gira tutto intorno a lui, che è l’unica forza trainante della vicenda: decide tutto lui, dove lavorare, con chi, come gestire la banca in cui è impiegato, sceglie la moglie dopo averla vista una volta una sulla soglia di casa e bam! colpo di fulmine, mai un cedimento, ma del resto di Lina cosa sappiamo? Niente: il film è tutto Ennio. Lina esiste solo nella sua funzione di amorevole sostegno. Non ha un desiderio, una passione, un’aspirazione, manco mezza scena che la mostri intenta a fare qualcosa che non sia essere la moglie, pur amatissima, del protagonista. Una narrazione, vale la pena di precisarlo, che ha la piena approvazione di Lina Tombolato (quella vera, azionista di maggioranza di Banca Mediolanum e anche solo per questo ben più che una semplice figura d’appoggio).
L’Ennio Doris del film è il patriarca auspicabile: il capofamiglia che porta i soldi a casa, il padre amorevole, il marito fedelissimo, quello che aaaaah, se tutti gli uomini fossero così, il centro della narrazione, il perno intorno al quale ruota ogni cosa. Da quando la parola “patriarcato” è rientrata nel nostro vocabolario, e la gente la usa come se parlasse della muffa (spiacevoli aggregazioni chiaramente visibili in alcune zone della casa e non in altre) e non dell’aria (ci siamo immersi, la respiriamo, non possiamo farne a meno anche se spesso diventa tossica), è raro che il patriarca venga rappresentato come figura benevola. E invece eccolo qua, in purezza, nel film su Ennio Doris: che lo rappresenta in maniera del tutto aspirazionale, un’icona di maschilità cristallina che esercita un controllo perfetto su ogni cosa, e soprattutto sui soldi, vero pilastro su cui poggia il sistema patriarcale.
Dici: ma che ti frega del film su Ennio Doris, sarà mica quello a fare cultura. Invece sì, invece è proprio quello, o meglio, è anche quello: chi ha finanziato il film (cioè Medusa, cioè Banca Mediolanum, insomma, ci siamo capiti) conosce benissimo il valore, anche monetario, delle storie. La trasmissione quasi senza pubblicità in prima serata si ripaga da sola, dipingendo l’istituto bancario come un luogo colmo d’amore e premura verso il cliente popolare, il contadino, l’imprenditore semplice e genuino. E nel farlo, racconta a milioni di persone la favola perfetta di un tempo che fu, in cui gli uomini prendevano tutte le decisioni e alle donne spettava il compito di sostenerli e accudirli, rimanendo sfocate sullo sfondo. Come si stava bene, quando avevamo neanche la metà dei diritti di adesso, vero, ragazze? L’importante è scegliere bene.
È facile detestare e contestare il patriarcato quando il patriarca si presenta come Ivano e Ottorino in C’è ancora domani, uomini che picchiano, umiliano, esternano il proprio disprezzo verso le donne. Più difficile quando prende le forme amabili del signor Doris, che chissà com’era davvero, nella vita reale, ma in questa rappresentazione è il marito-padre-nonno perfetto, rassicurante per gli uomini e per le donne. In fondo il patriarcato non è così male, no? Basta essere buoni. Basta azzeccare il patriarca auspicabile.
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Una cosa da ascoltare
Da persona che frequenta regolarmente Barcellona da quasi vent’anni e femminista che nutre una grandissima fiducia nelle potenzialità dell’attivismo, ho sempre ammirato4 Ada Colau, ex sindaca della città e prima figura politica di spicco ad aver posto la questione dell’iperturismo a livello europeo. L’intervista che le ha fatto Eugenio Cau per Il Post mi ha dato un po’ di conforto rispetto alla mestizia post-elezione di Donald Trump, perché contiene un’autocritica da sinistra che non è, per una volta, fatta solo di “BISOGNA ASCOLTARE LE CLASSI POPOLARI!” e di inviti a depotenziare le battaglie per i diritti civili. E come sempre succede quando ascolto o leggo qualcosa che mi sembra giusto e centrato, mi sta aiutando a interpretare i segnali del mondo che mi circonda in maniera costruttiva e non arroccata sulle mie posizioni.
Ultime date dell’anno
5 dicembre - Prato, Teatro Politeama Pratese, incontro della rassegna La farmacia delle parole.
13 dicembre - Replica di Brutta, Arese (MI), Teatro Comunale, ingresso gratuito.
Ci sentiamo martedì prossimo.
Giulia
Primo premio a quello che “Lo sapevo che eri di sinistra”, AH MA A TE NON TI SFUGGE NIENTE EH
Allo stesso tema ho dedicato un intero capitolo all’interno di Rivoluzione Z, ma citare i libri è più complicato.
Mi sto dando un tono, il livello di fangirling è imbarazzante.