Libero ha fatto anche cose buone
Questa settimana parliamo di vittimizzazione secondaria ed eterogenesi dei fini, ma si capisce tutto. E anche: un po' di libri.
Non ho mai parlato, qui, dei referendum dell’8 e 9 giugno. Non perché non mi interessino, ma perché sono convinta che fra i 15.317 iscritti (al conteggio del lunedì mattina) a questa newsletter non ce ne sia uno, ma dico UNO, che non andrà a votare.
Se lo faccio oggi è solo per dire questo: abbiamo parenti, amici, persone con cui parliamo e che magari sono un po’ meno politicizzate di noi, meno attente, per vari motivi. Non credo che catechizzarle o colpevolizzarle sia efficace, ma anche solo la domanda: “Vai a votare?” potrebbe fare la differenza fra l’astensionismo e il voto, fra persone che sono interessate ai temi proposti ma non sono state raggiunte dall’informazione. Chi si sente audace potrebbe anche provare a convincere i parenti di destra, ma si prepari al fallimento: la politica è, ormai, una questione di fede.
#metoo, #quellavoltache e l’eterogenesi dei fini
Si definisce “eterogenesi dei fini” quel fenomeno per cui un’azione pianificata per ottenere un effetto ne scatena in realtà un altro, spesso di segno opposto a quello immaginato. Mi torna spesso in mente, per esempio quando vedo i liberali canadesi rimontare e vincere in risposta alle minacce di Trump di annettere il Canada e farne il “51° stato” (il Canada, che comunque è gigantesco ed è già diviso in province autonome: ma che ne sa, quello). Mi è tornato in mente anche quando è arrivata, qualche giorno fa, la notizia che Gérard Depardieu è stato condannato a 18 mesi di carcere (con pena sospesa) per aggressione sessuale, e che oltre a questo è stato sanzionato, insieme al suo avvocato, per aver usato un linguaggio paternalista e violento contro le denuncianti, nel tentativo di screditarle.
Per me è questa, la parte più interessante e innovativa della sentenza: non l’accertamento della violenza, ma il riconoscimento dell’illegittimità di un certo tipo di linguaggio, che non può essere fatto ricadere sotto la definizione di libera espressione, dato che il suo obiettivo è scoraggiare non solo chi denuncia, ma in generale chiunque abbia subito una violenza. Si chiama “vittimizzazione secondaria”, anche se l’inglese, come spesso accade, è più chiaro e parla di “victim blaming”, scaricare sulle vittime la colpa dell’aggressione subita.
La cosa che penso ci siamo dimenticati, come società, è che fu il victim blaming, e non la violenza in sé, a scatenare prima l’ondata di #quellavoltache, la prima campagna social in risposta al caso Weinstein. Non i racconti delle violenze, ma la reazione dei media e della propaganda di destra ai racconti delle violenze, che ci ripresentava l’impossibilità di essere credute1, la certezza della gogna mediatica. Quando tracciai il primo bilancio della campagna ancora non sapevo quanto sarebbe durato, quel discorso: ma era chiaro da dove era partito. Non dai racconti delle violenze (da cui poi abbiamo tratto un libro), ma dall’indisponibilità della società ad ascoltarli.
Senza Libero e analoghi, quella campagna forse non ci sarebbe mai stata. Libero ha fatto anche cose buone.
Senza la vittimizzazione secondaria operata dai media e radicata in una lunga tradizione di discorso pubblico non avremmo avuto #quellavoltache, #metoo, #balancetonporc e tutte le altre iniziative che hanno alzato il volume su un discorso già avviato da decenni, ma che ha sempre bisogno di essere tenuto vivo. Una sanzione come quella comminata a Depardieu e ai suoi legali potrebbe un punto di svolta nel modo in cui trattiamo le donne che denunciano una violenza, perché - come richiesto da Gisèle Pélicot - la vergogna deve cambiare lato.
Denunciaaateeee, ma poi arrangiaaateviiii
Alla vittimizzazione secondaria pensavo anche ieri mattina durante il mio intervento a Mattino 5, in cui era ospite (fra gli altri) Annamaria Bernardini De Pace, con la quale mi ero già trovata scambiare opinioni, per così dire. Il tema era l’esternazione surreale del Ministro della Giustizia Carlo Nordio sui braccialetti elettronici, che va ascoltata.
Di Nordio penso di avere detto tutto quello che c’era da dire durante la trasmissione, di cui il grosso liquidato nei primi secondi del mio intervento (che si può vedere qui sotto).
Mi voglio riservare un angolino per commentare il contributo di Bernardini De Pace, chiamata evidentemente per produrre una forma di contraddittorio a qualcosa che era piuttosto difficile discutere senza buttarsi, appunto, sulla vittimizzazione secondaria. Chi ha pazienza può andare a vedersi il video per intero (inizia al minuto 12.26), ma per me il momento più sublime in quella valanga di buonsensismo da signora ricca è quello in cui paragona la violenza maschile a una malattia, e dice (cito a memoria): “Non è che se io ho una malattia vado in ospedale e mi cura lo Stato”. Be’, sì, si chiama sanità pubblica. È esattamente così che funziona.
Un libro che esce
Il mio fra Fulvio Romanin ha scritto un altro libro. Si intitola Una piccola impresa. Da partita IVA a Srl (senza perdere la testa), ed è scritto dal punto di vista di uno che ha fatto esattamente quello: Fulvio era un freelance e ha aperto un’impresa, Ensoul, che da anni riesce nel miracolo di fare fatturato senza stare a Milano. Fulvio è una persona brillante, fa riderissimo, tratta bene le persone che lavorano con lui ed è uno dei più acuti osservatori della realtà che conosca, soprattutto sul versante tecnologico. Il libro si può già preordinare cliccando al link o su questa immagine. Io credo che possa aiutare chi vorrebbe crescere dal punto di vista professionale e non sa come fare.
Sto leggendo
Ho finito Sunrise on the Reaping, il prequel di The Hunger Games di Suzanne Collins, ed è straziante quanto mi immaginavo. Essendo un prequel, molti dei personaggi compaiono in altre forme nei libri successivi, ma il focus della storia è Haymitch Abernathy, che incontriamo alcolizzato e traumatizzato da adulto, quando prende in carico Katniss Everdeen e Peeta Mellark negli Hunger Games di cui sono protagonisti. Non sappiamo mai davvero cosa gli sia successo, ma sappiamo che ha vinto e sappiamo che gli Hunger Games hanno sempre un solo vincitore: abbiamo quindi la certezza che ogni tributo che ci viene presentato in Sunrise on the Reaping morirà in maniere più o meno atroci. E fino lì. Il problema è che il trauma di Haymitch non si ferma alla vittoria. Un romanzo per stare male, ma Collins è veramente brava.
Ora sono impegnata in The Book of Love di Kelly Link, uscito in Italia per Mercurio Books (ma ovviamente me lo sto leggendo in originale). L’ho comprato un po’ sulla fiducia perché mi sembrava promettesse bene e perché Mercurio Books ha portato in Italia il romanzo che più ho amato negli ultimi boh, dieci anni? E questo ci dovrebbe dire moltissimo sulla questione del rapporto di fiducia fra editore e lettore di cui parlavo non molto tempo fa. Comunque: l’ho appena iniziato, fino qua è inquietante e teso ma anche tenero e non capisco dove voglia andare a parare, cosa che per me che ho amato Dark è assolutamente un punto a favore.
Ci risentiamo martedì prossimo.
Giulia
Qui, sul mio blog, il post in cui spiegavo l’idea quando l’hashtag era già partito. A rivederlo adesso mi fa molto ridere: non ci potevamo immaginare cosa sarebbe successo di lì a poco.
Speriamo che almeno gli ospedali rimangano sempre aperti, anche se di notte devi suonare il campanello.
Ma le espressioni facciali della Bernardini De Pace ah ah ah