Quello che non cambia, muore
Questa settimana: un museo e una città come metafora, date, libri, una cosa che ho ascoltato e una che sto guardando (senza troppo entusiasmo).
Venerdì sera, l’ennesimo Frecciarossa da Mestre a Roma, l’ultimo per un po’ di tempo. Sto covando qualche malanno, forse un’influenza o forse solo un po’ raffreddamento: è il prezzo da pagare per aver coccolato i miei nipotini, le mie amatissime bombe di germi. Lo sapevo, l’ho fatto lo stesso. Il seienne mi salta in braccio urlando di gioia appena mi vede, il quattrenne si mette il gel (da solo) apposta per venire a salutarmi prima che parta, sfido chiunque a fare altrimenti.
Giovedì ho preso la macchina e ho guidato da casa dei miei alla piazza di Pordenone in cui hanno ancora sede il liceo e la scuola media che ho frequentato negli anni ‘80. Sono ancora lì, dentro l’edificio brutalista chiamato “Centro Studi”, come è ancora lì la targa “Liceo Ginnasio G. Leopardi”, frutto di un processo di naming, come si direbbe adesso alla faccia di Rampelli, che coinvolse tutta la scuola e in cui si perse l’occasione di intitolare l’istituto a Pasolini. Era passato troppo poco tempo dalla morte, il professore di religione si mise di traverso: optammo per la soluzione più democristiana, il nome di un poeta marchigiano che non piaceva e non dispiaceva, ma che per noi era sinonimo di scuola e studio. Ricordo che avevo votato per Primo Levi. Fu la prima consultazione che persi, ne sarebbero seguite molte altre.
Il giardino alla fine di via Matteotti, anche quello è identico, con la fontana mosaicata lasciata vuota, forse dalla siccità che sta tormentando il Friuli Venezia-Giulia. Ho parcheggiato davanti alla pasticceria in cui mia madre mi portava a mangiare gigantesche meringhe ripiene di panna montata, a pochi passi dal campanile della chiesa di San Giorgio, una delle poche strutture degne di nota in tutta la città.
Anche il locale in cui si radunavano i paninari pordenonesi è ancora lì, con un altro nome, ma serve sempre panini (anche se sono panini con nomi di condottieri nativi americani). La Standa invece devono averla buttata giù da un pezzo: era tanto che non tornavo, più di vent’anni. Adesso c’è un altro edificio, che mi sembra più piccolo ma forse solo perché allora ero piccola io, e sul lato hanno costruito una specie di astronave a pianta circolare. Dentro c’è un ristorante di pesce. Non ho tempo di fare le foto, perché nonostante tutta la mia buona volontà sono arrivata appena in tempo per la proiezione di White Balls on Walls. Il documentario, diretto da Sarah Vos, parla del lavoro fatto da Charl Landvreugd allo Stedelijk Museum di Amsterdam per dare nuova vita alle opere esposte nella mostra permanente: la conversazione, che inizia con tutto un discorso sulle percentuali, si evolve poi in una discussione aperta e audace sull’arte, il suo significato, la sua lettura, il valore che le diamo e la distinzione fra opera e artista. Il risultato è una rivoluzione narrativa in cui l’arte, che è sempre dialogante, viene raccontata da una prospettiva diversa, in cui le “palle bianche sui muri” (che sono letteralmente le palle dei maschi: il riferimento è a una protesta delle Guerrilla Girls proprio davanti al museo, nel 1995) non sono più il centro di tutto o il riferimento da cui passa la valutazione di ogni forma d’arte, ma una parte del tutto.
È un discorso sempre difficile da fare senza che entri qualcuno urlando alla cancel culture, ma è stato lo stesso Landvreugd (che era presente al dibattito post-proiezione) a spiegare che niente veniva “cancellato”, ma tutto, sempre, può essere ricontestualizzato. I musei, se non si rinnovano, sprofondano nell’irrilevanza: l’arte ha bisogno di essere esposta, ma anche raccontata, intrecciata in un discorso più ampio. Il lavoro di ricerca negli archivi del museo è una delle parti più emozionanti del documentario per me, digiuna di arte ma affamata di scoperta, che nei musei si aggira con gli occhi sgranati e l’aria estasiata di una bambina. I lunghi pannelli scorrevoli pieni di tesori nascosti da riportare alla luce, le scelte, le decisioni, i quadri e gli artisti (le artiste!) che conquistano uno spazio di visibilità.
Le cose cambiano. È inevitabile. Quello che è vivo e non cambia, muore. È cambiata anche la città della mia infanzia: per arrivare a piazza Maestri del Lavoro ho dovuto usare Google Maps, perché la viabilità non è la stessa di quando ero bambina, e io a Pordenone non ho quasi mai guidato. Per me era una città da percorrere a piedi, ignorando i sensi unici, passando per scalette e scorciatoie. Un’esperienza del tutto diversa da quella che si fa al volante, e diversa anche da quella che avrei fatto venti o trent’anni fa. Tornando indietro ho deciso di fare di testa mia, ho seguito i miei ricordi e il mio senso dell’orientamento: forse avrò allungato un po’ il giro, ma la strada di casa l’ho ritrovata lo stesso.
Date!
Anticipo la sezione che di solito sta in fondo per dire che oggi pomeriggio alle 18.00 sono alla libreria Zalib di Roma insieme a Federica “Federippi” Fabrizio, per parlare del suo Femminucce ma anche un po’ di tuttecose.
Le altre date sono le stesse che dicevo la settimana scorsa:
Il 20 aprile, all’ora dell’aperitivo, sono da Mademoiselle Vintage sempre a chiacchierare, di libri ma anche di altro, venite a bere e a salutare e già che ci siamo fate pure shopping: le selezioni di Chiara mi stanno svoltando il guardaroba e ormai compro quasi solo da lei.
Il 21 aprile sono a parlare di Scintilla nel buio alla Casa delle Donne di Terni (dettagli da confermare).
Il 22 aprile sono all’International Journalism Festival di Perugia, per un panel che in origine avrebbe parlato di aborto, ma che abbiamo aggiornato per ampliare il tema.
Libri!
Mi ero ripromessa di segnalare un po’ di cose che mi sono atterrate a casa (e ne approfitto per dire che io i libri non so più dove metterli, quindi: se lavori all’ufficio stampa di una casa editrice, fai invii giudiziosi!) Parto da Parole d’altro genere di Vera Gheno, antologia ragionata di scrittrici che a ogni autrice citata associa una parola, la sua definizione e un ragionamento che la contestualizza e aiuta ad agganciarla al brano o alla poesia che segue. Un’operazione di curatela che potrebbe, e forse dovrebbe, essere affiancata nelle scuole alle antologie in uso, così avare di nomi di donne. Palle bianche, palle bianche dappertutto, anche nei titoli di giornale per cui Annalena Benini sarebbe “il nuovo direttore” del Salone del Libro. Ma che vi ha fatto la parola “direttrice”, vi ha morsi da piccoli?
Chi mi segue da un po’ (da qualche anno prima della newsletter, in verità) sa che da tempo sono critica verso il modo in cui in Italia (e in generale, nella cultura occidentale) si parla di lavoro. Il lavoro come costruzione della personalità, il lavoro che nobilita l’uomo, il lavoro che emancipa, il lavoro che rappresenta la misura della dignità umana e del diritto a partecipare alla vita della società. Il lavoro che deve essere duro, faticoso, deve essere sopportato, ma soprattutto deve esserci, perché altrimenti non solo si è poveri, ma si è anche gente che si prende gli insulti dei politici e viene punita con la sottrazione dei sussidi. Andrea Colamedici e Maura Gancitano affrontano il problema dal punto di vista filosofico in Ma chi me lo fa fare? Come il lavoro ci ha illuso: la fine dell’incantesimo.
A proposito di politici, Chiara Albanese, vice responsabile della redazione politica europea di Bloomberg News e voce del podcast de Il Post intitolato Politics, ha appena pubblicato un libro che si intitola - pensa un po’ - That’s politica!, in cui spiega i meccanismi di un ambiente che dovrebbe esserci familiare per poter prendere decisioni informate, e invece ne sappiamo meno di niente. Un libro tecnico, ma a tratti anche personale, soprattutto quando Albanese parla della vicenda delle famiglie omogenitoriali, che la tocca molto da vicino.
Fandango ha anche, molto opportunamente, ripubblicato Mio tuo suo loro, il libro-inchiesta di Serena Marchi sulla GPA. Il saggio illustra leggi e modalità della gestazione per altri nel mondo e le racconta attraverso le voci delle donne che hanno fatto la scelta di diventare portatrici, o ci hanno provato e hanno fallito. Mi pare l’unico modo equilibrato per affrontare la questione, allontanandosi dai paternalismi e dalle ansie di controllo per ascoltare chi davvero ci mette il corpo.
Infine: ecco il link allo shop di Tlon per l’ultimo libro di Lorenzo Gasparrini, che vi arriva autografato. Ne avevo parlato qui.
Ho ascoltato
Tanto per passare il tempo in treno (ero stanca e volevo riposare) mi sono messa ad ascoltare Attorissimi, una serie di ritratti di attori e attrici che hanno fatto la storia del cinema. L’ho trovato più bello e interessante di quello che mi aspettavo: il racconto della biografia passa in secondo piano rispetto al ricordo di chi ci ha lavorato insieme e alla contestualizzazione e valorizzazione storica dell’opera. La recitazione, il modo di porgere le battute, le improvvisazioni e la capacità di dare vita ai personaggi ha un ruolo centrale nella narrazione, come ce l’ha l’impegno politico di alcune figure. Ancora una volta ho pensato che c’è stato un momento della storia di questo paese in cui nessuno poteva dirsi lontano dalla politica attiva, nemmeno gli attori.
Sto guardando
Era al numero 1 della classifica di Netflix e io ero un po’ stanca e malaticcia, quindi gli ho dato una chance: The Night Agent è un thriller di quelli che se unici i puntini del thriller ti esce questa cosa qua. C’è un buono (Gabriel Basso, ex bambino dentone di Super 8 che ora è diventato un cristone con le spalle da giocatore di football) una donzella in pericolo, dei potenti dentro la Casa Bianca, una presidente perché è il 2023 e siamo almeno alla terza presidente di finzione nei prodotti televisivi americani e nessuna nella vita reale, un’altra donzella in pericolo perché una non bastava, cattivi che erano buoni e buoni che erano cattivi, gli psicopatici assassini, insomma, lo sto guardando per vedere come la chiudono e non perché mi aspetti grandi sorprese. Slow Horses fa la stessa cosa - lo spy thriller frenetico e violento in cui un underdog emerge dalle profondità dei ranghi per riscattarsi da un’accusa ingiusta - un milione di volte meglio. Ne avevo parlato qui.
Ci risentiamo dopo Pasqua, non so se sarò puntuale perché qua le feste le santifichiamo a botte di sugna che levati, ma ci risentiamo.
Giulia
Inutile dire che ho rifatto mentalmente quei giri mentre ti leggevo (e a novembre li ho proprio rifatti sul serio, in bicicletta... a Pordenone ancora non ho mai guidato). Che bello leggerti, grazie Giulia.
Evviva le meringhe con la panna, e l'effetto della Standa sui bambini 70ies. A Bolzano alla Standa c'era la scala mobile (grande novità!) per scendere al supermercato. Dovevo guardare bene dove mettere il piedino in salita e in discesa, e tenermi al corrimano mentre guardavo quegli orsi di peluche, per me grandissimi, che mi scorrevano davanti sugli scaffali (uno, anzi una, mi è arrivata quando mi sono svegliata dai 39° di febbre del morbillo, ma questo è un altro discorso). E mi cercavo di immaginare come fosse la scala mobile di cui parlava alla tv il telegiornalista in bianco e nero, tra un attentato, un ayatollah e un presidente delle arachidi, associandola alla parola inflazione.