Sanremo 2024: la serata della noia total
Il VAR della terza serata del 74° Festival della Canzone Italiana
Fino a un certo punto ho pure seguito, giuro. Poi è tornato a casa quello che prima era a Sanremo, e mi sono distratta: il monologo di Teresa Mannino sulle formiche tagliafoglie mi è arrivato come un’eco lontana. Mi è sembrato che fosse una metafora del matriarcato e dell’inutilità dei maschi e forse qualcuno si sarà offeso, ma noi l’anno scorso ci siamo dovute sorbire Angelo Duro, ve lo ricordate, Angelo Duro? Dopo quella cosa lì, che non faceva ridere neanche per sbaglio, quei cinque minuti di perculo da parte di una che se non altro ha mestiere da vendere sono niente. Statece.
Però ieri sera mi sono annoiata. Anche un po’ vergognata: non perché ci fossero in scaletta momenti vergognosi in sé e per sé, ma perché ho visto confermato il tremendo provincialismo di cui soffriamo. Sanremo è un evento gigantesco, seguito in tutto il mondo anche perché è la gara da cui emerge la canzone che concorre allo Eurovision Song Contest1. Potremmo tirarcela un po’ di più: arrivare su quel palco da italiani è considerato un onore, un achievement, per così dire. Non è che ci suona tuo cugino che c’ha la band blues a Brescia ed è grossa nel circuito delle pizzerie.
L’esibizione di Russell Crowe mi ha ricordato quella cosa lì, la band di tuo cugino che suona nelle pizzerie: però era tuo zio, ha la barba bianca e la canzone era una scopiazzatura di Come Together dei Beatles dalle parti dei Black Crowes. È Russell Crowe, ha vinto un Oscar, ti ha chiesto di poter suonare, cosa fai? Gli dici di no?
Ecco, un “no” sarebbe stato sano. Non perché lo spettacolo in sé fosse indecoroso (lui canta in maniera dignitosa, la band suona, nessuno si è umiliato in diretta televisiva), ma perché è proprio triste che con tutto il patrimonio di creatività che abbiamo a disposizione stiamo ancora così azzerbinati al divo del tempo che fu da concedergli spazio senza fiatare per promuovere un progetto così mediocre. E così abbiamo ascoltato in silenzio questa canzone vecchia nei suoni e nell’impianto, eseguita da musicisti mai presentati perché tanto non contano niente, conta solo lui, quello famoso. Gli altri saranno dei turnisti, o comunque sono trattati come tali.
Alla fine Russell Crowe è stato più che altro un elemento di spicco nella meta-narrazione sull’incidente stradale che era stata la partecipazione di John Travolta nella seconda serata. Una narrazione iniziata con la rivendicazione di Amadeus nel monologo di apertura (a dispetto dell’immediata ammissione del fallimento da parte del suo sodale Fiorello: mi immagino lo sgomento di capire in diretta che ti sei cacciato in un guaio e non sapere come uscirne), proseguita con Eros Ramazzotti che commentava l’antipatia di Travolta come se lui e Amadeus stessero al bar a prendersi un bianchetto e chiosava “Gli dovevate dare più soldi”, e culminata con questo momento abbastanza incredibile.
Per il resto?
Non sono mai stata una grande fan di Teresa Mannino, e il fatto che i suoi audio siano stati molto a lungo uno standard dei lip-synch da social ha sicuramente giocato un ruolo nella mia resistenza. Ieri sera l’ho vista in forma, e ancora una volta è stato evidente come il ruolo del o della CoCo sia fatto per chi sa improvvisare, non per chi non sa pronunciare una parola oltre quelle scritte sul gobbo e non ha in dotazione il senso dell’umorismo necessario a non sembrare una lepre in mezzo ai fanali. Al tramonto del Vallettocene sta forse facendo seguito la conclusione del Simbolocene. Sul palco di Sanremo si va se si sa stare su un palco, e non a fare i simboli del desiderio di virtue signalling che pervade Sanremo senza che questo desiderio produca performance di rilievo, se non in rari casi. Resta da vedere se questo mutamento sarà permanente, o se il cambio di direzione artistica porterà a una restaurazione dell’ancien régime, cosa sempre possibile. Amadeus, con tutti i suoi limiti, è ancora uno che ci prova, ad adeguarsi ai tempi che cambiano. Non penso si possa dire altrettanto di altri suoi colleghi, magari più cari al governo in carica.
Cosa rimane? Poco. Angelina Mango in testa alla classifica provvisoria mi ha fatto piacere, adoro il pezzo e adoro lei, che a ventidue anni si mangia e si risputa tutti gli altri concorrenti in termini di performance. Rimane per me inspiegabile il successo di Mr Rain: la canzone sembra generata con l’intelligenza artificiale sul modello-base di qualsiasi pezzo da mezza classifica, il testo non è degno neanche di stare sui bigliettini dei Baci Perugina, eppure eccolo in top five. Di sicuro mi sfugge qualcosa. La moda delle gonne maschili dilaga: dopo Mengoni, ieri sera c’erano un Bnkr44 in mini (ma proprio mini) di pelle e stivali texani e un La Sad in kilt giallo con spacco che si agitava per mostrare le mutande, ognuno è punk come riesce, diciamo. Un altro momento-mutanda ci è stato fornito da Sangiovanni, che nella confusione dopo la sua esibizione si stava perdendo le braghe in diretta ed è stato a un passo dal look “idraulico che ti cambia il pezzo”.
E questo, amici e amiche, è davvero tutto per oggi.
Speriamo che stasera vada meglio.
Giulia
Se lo scrivi in inglese si legge “Iurovision”.
Amadeus è la DC. Difficile da amare durante la sua lunga stagione di potere. Impossibile da non rimpiangere quando chiude baracca e al suo posto arrivano quegli altri.
Già. Hai notato come circa un cantante maschio su due, mentre viene presentato si tira su le braghe? Mi chiedo che ne pensano le loro madri. Cioè, non si fa. Cioè, puoi anzi devi farlo, ma prima di arrivare sul palco. Ehm. Sul salto col kilt in favore di camera stenderei un velo.