Sanremo 2024: no surprises
Il VAR della prima serata del 74° Festival della Canzone Italiana
Comincio a scrivere che manca quasi un’ora alla fine della serata, ed è già l’una e mezza: vorrei prendere le gommine alla melatonina, ma poi ho paura di addormentarmi prima della classifica. Comincio a scrivere perché tanto la serata ha già un vincitore: non importa come si piazzerà, non importa se arriverà o meno sul podio, Dargen D’Amico ha fatto quello che andava fatto. Il pezzo che parla di migrazioni è sempre a rischio retorica, ma Dargen è bravo. È sempre stato bravo. Ed è bravo anche questa volta, con un testo che sfugge ai sentimentalismi, cassa dritta e ironia amara che non colpisce mai verso il basso.
Poteva anche finire lì, con questa canzone che andava a fare compagnia a quella di Ghali nel trattare l’argomento delle migrazioni e del razzismo, ma no. A pezzo concluso, Dargen è risalito dalla platea col suo completo ricoperto di orsacchiotti, e ha detto questa cosa:
Dedico questo pezzo a mia cugina Marta, che ora studia a Malta. Non tutti i bambini hanno questa fortuna, nel Mediterraneo: ci sono bambini sotto le bombe, senza cibo e acqua. Il nostro silenzio è corresponsabilità, la storia e Dio non accettano la scena muta. Cessate il fuoco.
Chiaro, semplice, diretto. Le parole che servivano, pronunciate senza esitazioni, collegando in maniera fluida il tema del suo pezzo con i bombardamenti sulla striscia di Gaza. Sono sempre bambini che muoiono, in mare, sotto le bombe, e potremmo impedirlo, invece non succede. All’improvviso gli orsacchiotti hanno senso: sono quelli con cui i bambini di cui parla non giocheranno mai più.
Per il resto, che Sanremo è?
Non si tirano le somme di Sanremo dalla prima serata. Le sorprese sono ancora possibili, le aspettative bassissime: due cose, però sembrano essere state sistemate rispetto agli anni precedenti. La prima è la rappresentazione dei rapporti fra i generi, con le donne ospiti e gli uomini padroni di casa: quest’anno Amadeus ha investito in un cast di CoCo (ai Gen X, precarizzati delle leggi Treu e Biagi, parte l’autocorrect: CoCoCo o CoCoPro?) a genere variabile, e il primo è stato il sempre delizioso Marco Mengoni, che oltre a essere bello come il sole e pubblicità occulta della GetFit si è anche sciolto subito e ci ha fatto passare molto più velocemente gli obbligatori siparietti fra una canzone e l’altra. È sparito, quindi, anche il monologhino pedagogico della Donna-Simbolo1 che porta il Tema, e con quello la letterina della ragazza ricca a sé stessa o il momento di falsa modestia della ragazza bella. I fiori di Sanremo si danno a tutti a prescindere dal genere, senza sottolineare l’eccezionalità del gesto. Ancora non abbiamo il diritto all’aborto2 e ci ammazzano al ritmo di una ogni due-tre giorni, ma almeno questa battaglia l’abbiamo vinta, dai.
Il problema è che questa prima serata non ci ha fatto incazzare, ma nemmeno giubilare. Tutto è scivolato via senza intoppi, senza un Blanco che prende a calci i fiori, senza una minaccia di suicidio dalla balconata, una contestazione, una battuta discutibile. Tutto elegante, veloce, stacchetti ridotti all’osso. Certo, avremmo potuto fare a meno della banda dei Carabinieri in apertura, ma siamo pur sempre nella Rai della destra, e la banda delle guardie è obbligatoria quanto la classifica. Pure Ibrahimovic ieri era spompato: metterlo in scaletta dopo la canzone di orgoglio femminile second wave di Fiorella Mannoia è sembrato quasi un tentativo degli autori di contraddittorio, ma è durato poco e si è seduto subito vicino a Giovanna, la Regina Consorte, che sorrideva benedicente dalla prima fila. La banda delle guardie era una tassa da pagare anche prima, figuriamoci ora. E potremmo sempre fare a meno - perché fa sempre sagra di paese e assessore che viene a fare un breve discorso - dei saluti agli oscuri notabili della Rai seduti in platea con la faccia di legno.
Rimangono le canzoni. Che canzoni sono?
Nonostante la presenza frizzantina di un Mengoni sovente poco vestito, è un Sanremo la cui queerness, per ora, sembra essere sopita. Passa sotto traccia, ci arriva attraverso la densità di pezzi con la cassa dritta che riusciamo a immaginarci di ballare come pazzǝ sudatǝ dietro ai carri del Pride. A memoria: la cumbia di Angelina Mango, il distillato di Italo Disco e Musica leggerissima dei The Kolors, il momento camp dei Ricchi e Poveri, e ovviamente (anche se il pezzo in sé non è granché) Pazza di Loredana Berté, che sale sul palco a settant’anni e spicci in minigonna inguinale, perché noi che non siamo signore ce ne fottiamo del decoro e del bon ton. Siamo tutte pazze e tutte figlie di Loredana.
In media, quest’anno: parecchi banger immediati che potrebbero anche stufare in fretta, ma che arrivano al primo ascolto. Un Mahmood che forse crescerà. Un Ghali che lo farà sicuramente, e che oltre alle doti musicali dispone di un’eleganza fuori dal comune. I deliziosi Bnkr44, che se avessi quindici anni sarebbero già la mia boy band preferita, e che rifanno Una vita in vacanza ma senza la spocchia di chi ti deve spiegare come va il mondo (e senza usare le donne anziane come grottesco simbolo di decadenza). Annalisa con un pezzo che ha l’aria di essere un avanzo, ma è un avanzo di Annalisa, quindi va benissimo e ha un gancio pazzesco in quel quando, quando, quando, e una chiusa rubata senza pudore a Splash di Colapesce Dimartino, che quest’anno non ci sono ma sembrano aver lasciato un’impronta tangibile.
Averle sentite tutte in un colpo solo permette di avere una visione d’insieme anche rispetto a chi è arrivato un po’ con il compitino (Alessandra Amoroso, Renga e Nek e, al primo ascolto, anche Diodato, che pur avendo in dote una delle voci più belle del mondo non l’ha messa al servizio di un brano memorabile) e a chi sta facendo il passo parecchio più lungo della gamba (La Sad, che mi sono sembrati fuori contesto, fuori tono, e con “il messaggio”). Il testo del pezzo di Mr Rain sembra generato da Chat GPT e quest’anno non si è portato appresso il ricatto emotivo del coro dei bimbi: non lo vedo fare faville in classifica, ma magari mi sbaglio. Potrebbero invece andare molto meglio i Negramaro, che portano uno stadium rock anthem molto pericoloso e si aggiudicano il premio Urlone dell’Anno battendo la combo RengaNek (ma forse anche no, perché ammetto che durante RengaNek sono andata a fare la skincare).
La cosa che diciamo ogni anno, ma va ripetuta
Dura troppo. Davvero troppo. Non c’è nessun motivo per cui debba durare così tanto, e avere aumentato le canzoni in gara (pur asciugando moltissimo la liturgia della serata) è una scelta non troppo sensata. Trenta canzoni sono troppe, le due di notte è troppo tardi, la gente deve dormire e io stamattina sono stata svegliata dal figlio piccolo dei vicini, che è tanto carino ma ha una voce che buca i muri. Amadeus, lo so che ti pensi libero, che questo è l’ultimo e già sappiamo che ci mancherai, ma tutte queste notti intere ad aspettare, ad aspettare Il Tre, diccelo, chi ce le ridà?
A domani.
Giulia
Se si eccettua l’intervento, di cui preferisco non parlare, della madre di Giogiò Cutolo: è difficile tirarlo in ballo senza sembrare indelicata verso il dolore di una donna che ha perso il figlio in maniera tragica e insensata, pur avendo delle obiezioni sulla sua spettacolarizzazione in quei termini. Non è la prima volta che gli autori del Festival prendono un tema complesso e delicato e lo maneggiano in maniera approssimativa e depotenziante. La responsabilità è interamente loro.
Non ce l’abbiamo. La legge parla chiaro. Ma dovremmo avercelo. Che a Sanremo non se ne sia mai parlato è la misura di quanto questo argomento sia ancora considerato tabù.
Il vantaggio di non guardare Sanremo ma essere iscritta alla newsletter di Giulia Blasi: otto ore di sonno e so tutto sul festival 😁
i complottisti dell’auditel spiegano in un modo che ho già dimenticato il fatto che per i dati sia meglio andare lunghi. ma servirebbe @donatacolumbro a fare debunking