Storie che finiscono
Questa settimana: letteralmente due serie che sono finite, una riflessione sull'affaire Ferragni vs undicenne (?) e un po' di date.
Ho cominciato a collaborare con fem, il reboot di alfemminile, e quindi per la prima volta dopo molto tempo arrivo al giorno in cui scrivo la newsletter (che di solito è la domenica) scarica di cose urgenti di cui parlare. Non è una brutta sensazione, anzi: mi fa piacere avere più aria per le piccole cose, i suggerimenti d’ascolto, lettura e visione (nell’ordine che si preferisce), e tenermi le argomentazioni complesse per uno spazio più ampio.
Ieri è uscito il quarto articolo che ho scritto per la testata. Ha a che vedere con una storia che potrebbe anche non essere vera, ma sono vere le reazioni che ha suscitato e che ci parlano delle cause reali dell’inverno demografico.
Finora ho parlato di:
come le storie (e la loro manipolazione) siano fondamentali per la creazione dei personaggi pubblici, a partire dal memoir di Giorgia Meloni e le inchieste che ne svelano le probabili forzature
quanto è noioso, frustrante e controproducente il dibattito su chi possa o meno definirsi madre, per quali motivi ci finiamo sempre dentro e perché dovremmo smetterla
Sull’ultimo punto c’è stato un po’ di movimento anche qui su Substack, movimento che mi ha portato a essere definita “vestale del linguaggio” e a essere inglobata in un non meglio precisato “alcune femministe” per il fatto di essere stata un po’ dura nell’espressione delle mie posizioni riguardo a certi mansplaining. Potrei tirare lo scontro all’infinito - le mie amiche con la passione per l’astrologia direbbero: sei scorpione - ma forse è meglio di no. Anche se intravedo una certa linea di continuità fra dire alle femministe come dovrebbero fare il lavoro che stanno già facendo e chiamarci, genericamente e con una punta di disprezzo, “le femministe” anche quando abbiamo un nome e un cognome e di mestiere facciamo le scrittrici o le giornaliste1.
Una serie che è finita (e io non mi sento tanto bene)
Domenica ho pulito casa, fatto le lavatrici e una lunga camminata. Mi serviva come rituale di raccoglimento prima di affrontare l’ultimo episodio di The Marvelous Mrs. Maisel, serie che ho amato alla follia e che mi mancherà tantissimo. Senza fare spoiler, ho pianto come non piangevo dai tempi della morte di Theon Greyjoy in Game of Thrones (e quella volta avevo pianto a dirotto). Le serie TV hanno questo svantaggio: i personaggi entrano nella tua vita e ci restano per anni, e quando se ne vanno, perché la storia finisce, ti rimane un senso di perdita come se avessi salutato una persona amica che va a vivere dall’altro lato dell’oceano. È chiaro che quella persona esiste ancora, ma sarà più difficile incontrarla.
La storia di Miriam Maisel è la storia di una donna che trova la sua vocazione per caso, e una volta che l’ha trovata non si fa scoraggiare da nulla. È anche la storia di un’amicizia fra due donne diversissime nel loro modo di esprimere la femminilità, fra Midge e il suo armadio infinito e i suoi rossetti color papavero e Susie e i suoi panciotti e le sue coppole da malavitoso. Due donne che si spalleggiano, si accettano, si offrono a vicenda sostegno e affetto incondizionati. Èd è, soprattutto, la storia di una voce che lotta per farsi ascoltare nonostante l’opposizione di tutti, marito, genitori, suoceri, colleghi e capi. È la nostra storia, la storia di tutte noi che ogni giorno ci sentiamo dire come dovremmo essere e cosa dovremmo fare, e tre volte ci va bene, cinque cediamo e le restanti due, forse, combattiamo: e dovremmo avere tutte diritto a una Susie, a un’altra donna che creda in noi e cresca con noi e ci capisca nel profondo.
Mentre scrivevo mi è venuta in mente l’episodio di Chiara Ferragni che si fotografa in perizoma e viene presa di mira dalla gente che la commenta. I giornali ci vanno subito a nozze, e finisce con titoli di questo tenore:
Sorvoliamo per un momento sul fatto che una bambina di undici anni non dovrebbe essere usata dai giornali per dare una lezione morale a nessuno, nemmeno a Ferragni; e pure su un dato, e cioè che in teoria l’uso delle piattaforme social dovrebbe essere limitato alle persone sopra i tredici anni. Qua il punto non è quello che ha scritto Giulia Dedola (sempre che l’abbia scritto davvero lei), che sarà al massimo in prima media e non si merita di diventare la poster girl dei moralisti. Il punto è che questo commento è stato ripreso dalla stampa per rimproverare Ferragni di non avere svolto a dovere un compito pedagogico che non dovrebbe essere tenuta ad assumere. Il grande equivoco è che le donne non possano esistere in pubblico senza essere un “modello”, cosa che nessuno si sogna di chiedere agli uomini famosi. Qui la trasgressione, nello specifico, sarebbe nel fotografarsi seminuda essendo madre: perché la sessualità delle madri deve essere un segreto vissuto con pudore, il corpo delle donne che hanno partorito deve essere nascosto.
Che poi Ferragni abbia toppato la risposta dando della “puritana incazzata” a una bambina (o più probabilmente ai genitori, per proprietà transitiva) è un fatto, ma appunto: dato che non mi aspetto da lei che sia pedagogica, non ho aspettative nemmeno riguardo ai messaggi che lancia in risposta ad altri messaggi. Non ho mai fatto di lei un’eroina femminista solo perché è molto seguita, né penso che sia tenuta a esserlo, anche perché il femminismo non ha bisogno di eroine, ma di gente che sappia giocare in squadra.
Un’altra serie che è finita (per fortuna)
Succession non poteva durare un minuto di più, perché quattro stagioni dei Roy che si scannano per subentrare al padre nell’azienda di famiglia sono esattamente le stagioni che servono per dire che non ne possiamo più dei Roy che si scannano per subentrare al padre nell’azienda di famiglia. La serie è finita, e vorrei parlarne liberamente, per cui dopo il divisorio ci sono degli spoiler del finale, non leggere se non sei in pari e salta direttamente al paragrafo con le date degli incontri (ce n’è una nuova).
Quando parlo ai miei studenti di punto di vista nella narrazione visiva, cerco sempre di spiegare che anche lì dove non c’è un narratore c’è comunque un personaggio che serve da ancoraggio. In Succession, che ci piaccia o meno, quel personaggio è Kendall Roy, il secondo figlio, l’erede-designato-anzi-no, quello che per primo vediamo arrivare sul suo macchinone, cuffie wireless in testa e pezzo rap a cannone per caricarsi. Kendall è anche l’ultimo su cui la macchina da presa si sofferma prima dei titoli di coda. Succession è il suo dramma, è il dramma - e cito direttamente le sue parole - di un uomo che è “un ingranaggio costruito per funzionare in una macchina sola”, e che non sente di poter funzionare in nessun altro contesto.
Un uomo senza qualità, si potrebbe dire: di sicuro privo di grande personalità, di carisma e di capacità di leadership. Ogni suo tentativo di assicurarsela, quella leadership, cade nel vuoto. E se per gli altri fratelli e la sorella la questione alla base di tutto è sempre l’amore che non hanno avuto dal padre, per Kendall quell’amore negato si somma a uno sforzo immane e lungo tutta una vita per meritarselo. Shiv ha avuto (e forse potrebbe avere ancora) una carriera come consulente di comunicazione politica, Roman ha accettato la sua natura di ricco nullafacente (anche se per un po’ ci ha provato, a essere qualcosa di più che il piccolo di casa), e Connor vive in un mondo di fantasia che si è creato per sopravvivere all’assenza dei genitori e ai problemi mentali della madre. Solo Kendall è cresciuto con l’idea di essere il prescelto, solo Kendall non ha mai nemmeno pensato di essere altro e quando tutto gli sfugge di mano non sa cosa fare. La sua è la tragedia più grande, perché avrà pure i soldi (e nemmeno pochi) ma nella sua rincorsa eterna del successo e del grado di performance che lo poteva far sembrare degno agli occhi del padre si è perso la vita dell’anima, ed è rimasto senza uno scopo.
Se in Succession c’è una morale, forse, è questa: affrancarsi dalla famiglia è sano, necessario, indispensabile soprattutto per chi ha genitori la cui ombra è troppo lunga e vasta per pensare di sfuggirle rimanendo nei paraggi. Meglio andarsene, faticare magari un po’ più della media dei nepo babies (ma molto meno della media della popolazione generale) e imparare a fare a meno di un’approvazione che non arriverà mai, e quando arriva è sempre fragile e soggetta al capriccio del momento.
Fine spoiler!
Dove ci vediamo
Le date di queste settimane sono le stesse delle settimane scorse, ma c’è un’aggiunta per un pubblico specializzato che forse vale la pena di segnalare.
Il 15 giugno sono a Parma per la rassegna Barrique per parlare di Scintilla nel buio. L’incontro è in piazzale Picelli alle 18.30, modera Caterina Bonetti. Ingresso libero, stiamo all’aperto, al massimo portati l’Autan.
Il 16 da Parma vado a Mare di libri: l’incontro a cui partecipo si terrà alle 18.00 al Teatro degli Atti, e condivido il palco con Vera Gheno. Il tema è “1 parola 2 generazioni”, e la nostra parola è “Parità”.
Il 22 giugno invece sono a Catania per Women in Charge on Tour, che è una manifestazione itinerante dedicata alle donne e al lavoro. È un evento di networking, per cui ci si può registrare nelle varie tappe: io ho scelto di partecipare come speaker a quella siciliana perché chiamami scema, arrivo e a) sono a Catania a giugno e b) mi sparo subito un granitone esagerato, e il mio speech lo faccio in piena overdose di zuccheri.
E per finire: basta podcast
Non che smetterò del tutto di ascoltarli, per carità, ma ho capito che parte del motivo per cui la mia creatività è al minimo da anni è l’overdose di storie. Quindi non solo non ne ho da consigliare, ma ho anche deciso di abbassare il livello di assunzione e ossigenare il cervello. Nei due giorni in cui ho seguito questa dieta, ho notato che molti blocchi di trama su cui stavo dando le capocciate si sono spicciati in pochissimo tempo.
E con questa padellata di fatti miei, ci risentiamo la settimana prossima!
Giulia
Per questo non nominerò il mansplainer di turno.
Solo un commento, in ritardo, sull'inutile storia "Ferragni in perizoma": è verissimo che non dobbiamo prendere ogni persona nota come un modello per qualche messaggio importante, ma è anche vero che la prima a non averlo capito è proprio Chiara Ferragni. Sono tante le influencer a non averlo capito! Mi scatto una foto nuda perché mi piace il mio corpo e mi piace mostrarlo? Sto lanciando il messaggio che le donne sono libere e non devono essere giudicate! Quindi, se la ragazza di 11 anni ha lasciato quel commento è perché Chiara Ferragni & co hanno abituato il proprio pubblico a registrare ogni loro azione come un insegnamento e la sua risposta lo conferma in modo chiaro. Il motivo? Soldi, come sempre (e un buona dose di perbenismo piccolo borghese). Ed ecco il cane che si morde la coda: si finisce per pensare che voler solo mostrare il proprio corpo per vanità sia sbagliato e che sia ancora più sbagliato voler solo fare soldi a palate, mentre entrambi i desideri sono legittimi. Ciò che è sbagliato e in malafede è fingere altro. Arrivare addirittura a fingere di fare beneficienza per guadagnare sulle uova di Pasqua è il punto estremo del percorso "sono solo vanitosa ma guadagno di più se dico che sono femminista". Era ovvio che poi arrivassero tutte le ragazzine a cercare un messaggio dietro ogni orecchino e dietro ogni pezzo di pelle, finché qualcuna avrà pensato: <<Io guardo questo fondoschiena perfetto ma non mi vengono altri messaggi in mente che non siano "ho un bel culo, lavoro tanto per mantenere il regalo di madrenatura tra diete e allenamento e mi va di mostrarlo ma sta brutto se non ci metto un messaggio dietro">>. La versione imprenditoriale delle frasi potetiche sotto alle foto con le tette.
Concordo in pieno sui podcast, che io adoro. L'overload è deleterio... Come dice Paracelso: è la dose che fa il veleno.