L’ho letta anche io, come praticamente chiunque, l’intervista in cui Michela Murgia racconta della sua malattia e di come sta affrontando la prospettiva della sua mortalità. Quando mi sono svegliata in una Milano caldissima, all’indomani di una serata trascorsa ad ascoltare Fran Lebowitz tagliare i panni addosso al mondo con il laser del suo umorismo, metà delle persone che seguo l’aveva postata, e l’altra metà la stava commentando.
E anche adesso non so cosa dire. Non per una qualche forma di sorpresa, ma per il senso di disagio che mi provoca parlare in pubblico di una cosa che percepisco come privata. Non la malattia di Michela, che lei ha deciso di rendere - almeno in parte - pubblica, ma quello che lei è per me e come ho vissuto il tempo da quando ho saputo che stava male. Non ne posso parlare, non posso farne un contenuto, né per i social né per questa newsletter. Allora qui non parlerò dell’intervista, che è splendida e piena di quello che dovrebbe essere il senso della vita, cioè esserci, in ogni momento, con pienezza, nella gioia e nel dolore, consapevoli che nessuno di noi passa su questa terra senza lasciare un segno: possiamo solo decidere in che direzione andare, che indirizzo dare a quella traccia. Non è un sottotesto, è letteralmente il testo, ma commentarla, o peggio ancora, commentare lei sa di funerale da viva, e io ho troppo rispetto per Michela per trattarla come se fosse un santino. Già chiamarla per nome e parlarne in terza persona, qui, mi pare impudico.
Quello che le devo dire glielo dirò lontano dagli occhi del mondo. Ma devo confessare - e qui sta forse il punto a cui voglio arrivare: spero di spiegarmi in un modo che non sembri moralista o suoni come una critica verso chi sceglie di fare altrimenti - che quando ho letto l’intervista mi sono interrogata sull’opportunità di scrivere qualcosa, un tweet, una roba per dire: ho letto, mi interessa, questo argomento mi riguarda. Segnalare una partecipazione pubblica a qualcosa che mi tocca in modo molto profondo, troppo per essere esibito.
Non ci sono riuscita. Qualunque parola sarebbe stata banale, una performance, un segnaposto social. Posizionamento. E io rifiuto l’idea del posizionamento forzato e la necessità di esprimersi su ogni cosa solo per timbrare il cartellino. Rifiuto l’idea che quello che non scrivo sui social non esista, che i miei pensieri debbano essere costante oggetto di ostensione. Rifiuto il “Perché non dici niente su […]?” e il “Dovresti dire qualcosa su […]?”. Rivendico il diritto di parlare quando mi va, come mi va, di quello che mi va, di esistere in una dimensione lontana dagli sguardi degli sconosciuti.
Più tardi, al concerto di Cosmo a Bologna (dove non sarei dovuta andare, ma fra passare il resto del pomeriggio su un Frecciarossa spiaggiato da qualche parte nella campagna umbra e sudare dentro l’Estragon urlando “La verità è che stiamo bene e che ci piace stare insieme” ho scelto la seconda, e mi sono fiondata fuori dal treno) ho visto Marco fermare L’ultima festa prima del drop finale, e chiedere alla gente di mettere via i telefonini, di esserci, di rinunciare a trasformare quel momento di comunione in dieci, cento, mille contenuti social brutti e inutili. Quando il pezzo è ripartito, il locale è esploso.
Ho un problema gigante con i social, ormai si è capito, non ci voglio quasi più stare (con l’eccezione di Twitter, che però ormai è il giardino privato della villa di Elon Musk, e noi i nani di gesso), ma soprattutto ho un problema con l’idea della performance costante, del non saper espellere l’impulso dimostrativo dalla nostra vita emotiva, relazionale e intellettuale, o quantomeno mettere un limite alla necessità di mostrare al mondo tutto quello che facciamo, corredato di hashtag. Sono sempre coerente? Ma no (e infatti sul mio profilo Instagram ci sono pure quindici secondi del concerto di Cosmo, un mare di mani alzate e voci che cantavano in coro immerse in una luce rossa che mi sembrava molto poetica). Però davvero, quell’impulso di documentare tutto, di fotografare ogni cosa, di trattare ogni esperienza e ogni momento come se fosse un contenuto non ce l’ho, e il poco che avevo è andato scemando con il tempo.
Qualche giorno fa ho reagito con una certa stizza a un commento su Instagram al post con cui lanciavo la newsletter straordinaria della settimana scorsa, in cui parlavo della questione di Ambra e dei femminili professionali. Nel commento mi si chiedeva perché non mi fossi espressa sulla questione di Laura Chiatti e del suo eros distrutto da Marco Bocci che carica la lavastoviglie. Al di là del fatto che è una stronzata di pochissimo conto, io non sono un juke-box di opinioni. Posso avercela, appunto, un’opinione - e la mia in materia è E ‘STI GRANDISSIMI CAZZI DI COME SI ECCITA LAURA CHIATTI, se vuoi la spiego in altre seimila battute: non so se ti conviene - ma posso anche non volerla esprimere, se ritengo che esprimerla sia inutile e performativo o uno spreco di spazio. O anche solo se ho altro da fare.
Dopo il concerto di Cosmo tutto il mio organismo urlava VAI A DORMIRE CHÉ C’HAI CINQUANT’ANNI, e invece all’ultimo sono saltata su un’altra macchina, pronta a vedere l’alba dal lato sbagliato urlando canzoni al karaoke. Perché sai cosa, invecchiare è un privilegio: e io punterei a diventare vecchissima, esilarante come Fran Lebowitz ma molto più rompicoglioni. Per farlo, ho bisogno di vivere: e vivere - davvero, sperimentando il mondo e la vicinanza delle persone - è un’attività per me incompatibile con la produzione di contenuti per i social.
Michela ha detto “io” e tutti, in qualche modo, abbiamo pensato che parlasse di noi. Forse è tutta, qua l’essenza della bravura.
Non ho altro da dire, oggi. Mi sembra già parecchio così.
Giulia
Una cosa molto personale
Quoto tutto. La libertà di avere un’opinione come non avercela, di dirla e di non dirla. È vero che chi ha una certa lasciami chiamarla “popolarità” ha delle responsabilità, ma vero anche che spesso ci dimentichiamo di avere delle responsabilità con noi stessi e con la nostra pace interiore.
Personalmente se non sono serena e libera faccio fatica ad essere creativa, e considerando che con la creatività ci mangio o comunque è la mia linfa per non perire, cerco di prendermene cura. Un modo è anche la libertà di decidere se pubblicare un contenuto o stare zitta.
È un atto d’amore verso noi stessi.
Aspettavo la tua mail ed è arrivata a dire le cose giuste al momento giusto per me. Io non avrò possibilità di far arrivare a Murgia quel che sento, ma mi rivedo in quello che hai scritto e questa cosa per me fa da cassa di risonanza amica. I tuoi libri li ho scoperti grazie a lei e la tua newsletter grazie ad Irene Facheris che l’ha definita una “carezza”.