Venezia non perdona
Questa settimana: riflessioni sul matrimonio Bezos-Sánchez, e una cosa che sto leggendo.
Il matrimonio di Jeff Bezos e Lauren Sánchez è durato una settimana del calendario e un anno di tempo psicologico. La storia era piuttosto avvincente, dotata di tutti gli elementi che rendono una narrazione irresistibile: c’era un cattivo, c’erano i buoni1, c’era uno sfondo di struggente bellezza che era un personaggio a sé stante, c’erano le fazioni, le opinioni, gli scontri. C’era un inizio e c’è stata una fine.
Eppure non ne potevamo più. Non ne potevamo veramente più delle facce piallate dei fidanzati e degli invitati, di Leonardo DiCaprio attivista climatico a corrente alternata, delle Kardashian strizzate in vestitucci animalier costati come un anno di affitto di casa mia che però sembravano comprati da Angela Bella Fisica, dei ventisette cambi d’abito di Lauren Sánchez, dei discorsi sulla faccia e sulle tette di Lauren Sánchez, delle battute sui tempi di consegna di Amazon Prime. Non ne potevamo veramente più, e oggi che è martedì e ne sto scrivendo penso: ma davvero? Non era meglio parlare d’altro?
Forse. O forse no, perché dentro questa storia ci sono tante altre storie. C’è la coscienza di classe, sostanzialmente morta negli anni ‘70, che in questi giorni di bombardamento mediatico si è coagulata in due grandi fronti: quella di chi guardava alle nozze faraoniche dei nababbi di turno con il fastidio che si può provare solo per chi si arricchisce facendo margine sullo sfruttamento dei lavoratori e non ridistribuisce altro che una frazione infinitesimale di quella ricchezza, e chi sogna un paese in cui ognuno si arrangia, proprio come negli Stati Uniti, perché se sei povero sono cazzi tuoi e potevi investire nei miei corsi di formazione su come aumentare il fatturato.
C’è il discorso sul corpo, perché ogni foto di Sànchez (Lauren, non Pedro2) ci mette di fronte all’esistenza al dovere che per le donne è ineludibile, innegabile, di decidere che posizione prendere rispetto all’invecchiamento, se lasciarlo accadere, rimediare in maniera discreta, o fare all-in con Botox e filler e assumere le sembianze da carpa Koi che caratterizzano così tante signore ricche, americane e non. I canoni di bellezza esistono in ogni ambiente e a tutti i livelli della società, ma ogni società ha il proprio, e quello delle signore abbienti passa per l’esibizione dell’intervento estetico massiccio. Non è che non sappiano di sembrare delle carpe Koi: è che sembrare delle carpe Koi è la loro estetica. È un’estetica costosa, che richiede manutenzione: solo chi ha liquidità e disponibilità economica se la può davvero permettere. La faccia da carpa è l’equivalente femminile del Rolex o del Patek Philippe, è il cartellino del prezzo implicito di corpi che si posizionano come portatori di un valore superiore. E lo so! Lo so che è un discorso impopolare, molto fuori asse rispetto alla libertà assoluta di scelta sul corpo garantita dai femminismi, ma qualcuno deve dirlo, qualcuno deve gridare che quella è una faccia da carpa, quelle tette non sembrano tette ma sembrano palloncini di gomma, e ho capito che lei si vede bene così: io voglio capire perché. Una scelta così non ha davvero una motivazione privata, perché quel genere di intervento ha a che vedere con una pressione condivisa che proviene dall’esterno, che ogni donna gestisce in modo diverso, ma alla quale nessuna può sfuggire. Ed è una battaglia persa in partenza, per me, per le altre e pure per Lauren Sánchez.
C’era poi la questione di Venezia bloccata per giorni, dei residenti incazzati, da molti derubricata a “invidia sociale” e paragonata al concerto dei Pink Floyd del 1989. Cioè un evento pubblico, e ripeto, pubblico, avvenuto 36 anni fa, messo sullo stesso piano di una festa privata, che tiene in ostaggio una città per una settimana intera e alla quale nessuno può partecipare comprando un biglietto. In altri tempi, le nozze dei regnanti avrebbero previsto una quota di festeggiamenti riservati al popolo: quando si sposano i reali d’Inghilterra, l’intera città è per strada a mangiare e bere e far baldoria. I padroni americani, al contrario, vogliono che sappiamo che loro festeggiano alla faccia nostra, in luoghi resi inaccessibili dalla loro presenza.
Infine, c’è la componente culturale. Venezia è dotata di un’eleganza inarrivabile, che nessun negozietto di paccottiglia può davvero scalfire. L’architettura moresca, il verde-blu della laguna e dei canali, i ponticelli che collegano un blocco all’altro, i giardini nascosti dietro i muri, le piccole barche ormeggiate davanti agli ingressi delle case, la quiete del Lido, i viaggi in vaporetto fra un’isola e l’altra che sembrano carrellate da film. Venezia è elegante come certe anziane aristocratiche degli anni ‘50 e ‘60: i segni dell’invecchiamento la rendono più bella, ricordano che esiste e resiste da secoli, unica al mondo, romantica senza volerlo, umida e segreta e un po’ spaventosa.

Chi ha familiarità con Edith Wharton, Henry James e tutti i narratori della bella società inglese e americana non può che riconoscere i segni di un perenne dislivello fra i nordamericani e gli europei in materia di gusto ed eleganza. In tutti i romanzi dell’800 anglosassone, gli americani ricchi inseguono l’aristocrazia e la raffinatezza sposandosi con esponenti della nobiltà europea. Le inseguono, e non le raggiungono mai, perché hanno altre qualità, hanno l’intraprendenza, la spudoratezza del parlare di soldi, di accumularli senza ritegno, di mostrarli al mondo. Jeff Bezos e Lauren Sànchez e la loro allegra brigata di amici famosi e di parenti che forse hanno, forse no, ma chi li ha visti e chi se ne frega, arrivano a Venezia caramellati di soldi3, ma Venezia non perdona: non ci sono soldi che possano farti sembrare meno che cafone, quando sullo sfondo hai una repubblica marinara che ha alle spalle più storia del cristianesimo. Non è un caso che l’unica americana capace di stare a Venezia senza sembrare un dito in un occhio sia stata Peggy Guggenheim, capace di trasformare sé stessa in un’opera d’arte fuori da ogni canone e la propria casa in un paradiso di eterna bellezza.
Venezia si ribella all’idea imperialista dell’Italia come parco giochi dei ricchi anche se nei fatti lo è già, sommersa com’è da un’ondata di turismo che non ha alcun bisogno di essere incrementato, casomai gestito (e dirottato verso altre mete meno frequentate e altrettanto suggestive). Venezia non ha bisogno di pubblicità, di visibilità o dei nababbi che la invadono, ma i nababbi hanno bisogno di Venezia per mettere in scena i loro matrimoni da sogno.
Cosa sto leggendo
Ho finito The Book of Love, che mi è piaciuto molto: è caotico, zozzo, a tratti tenero, spaventoso e divertente. Ho quindi iniziato un classico: The Autobiography of Alice B. Toklas, scritta (ovviamente) non da Toklas ma da Gertrude Stein, di cui Toklas era la moglie in tempi in cui sposarsi fra donne non era possibile, ed è di fatto un’autobiografia di Stein in cui Stein si auto-attribuisce la qualifica di “genio” entro le prime dieci pagine, quindi mi sto già divertendo tantissimo. Non metto un link perché le versioni disponibili di questo libro sono tante e io lo sto leggendo in originale, ma ovviamente ne esiste una traduzione. Non ho mai letto niente di Stein, ma questo memoir travestito da memoir rimane la sua opera più popolare, quindi valeva la pena di cominciare da qui.
Una data!
Il 6 luglio sono alla Pinetina di Riotorto (LI) per il Pride locale, a chiacchierare con Vanessa Roghi e Porpora Marcasciano, e non mi viene in mente un modo migliore per farmi pigliare un colpo di calore.
A martedì prossimo!
Giulia
E questo è vero a prescindere da chi sono, nella prospettiva del lettore, i buoni e i cattivi.
Che invecchia in maniera divina, come solo gli uomini hanno il diritto sacrosanto di fare.
Conosco bene Venezia avendoci vissuto molti anni fa ma tornando di recente l'ho trovata cambiata in peggio, affollata e costosa. Molti dicono che Bezos ha mosso l'economia della città, quale economia? 5 alberghi prenotati interamente che non appartengono a nessun veneziano? Ha mosso l'economia delle multinazionali cioè se stesso.
Giulia, mia figlia, che a Venezia ha vissuto e lavorato qualche anno, ha commentato: solo gente che non conosce il mondo va a Venezia a giugno quando la laguna morde