Oggi è la Vigilia di Natale, e questo significa due cose: che la newsletter sa di pandoro (o panettone, che a me piace meno ma sono ecumenica), e che spero che ovunque ti raggiunga tu ti trovi in un momento di pace, al caldo e al sicuro, fra persone che ami e che ti amano, con ottimo cibo o comunque cibo abbondante e condiviso, tanti abbracci e i regali che volevi. Se queste condizioni non sono soddisfatte in tutto o in parte, tieni duro: poi passa. Le festività invernali non sono facili o belle per tutte e tutti, ma durano una settimana. E nel frattempo le giornate si allungano, si tratta di superare gennaio (che ha una durata psicologica intorno al decennio) e poi dai che si va in scivolata verso la primavera.
E ora: annunciazio’!
Brutta: il tour 2025
Ci sono nuove date del tour di Brutta. Io non sarò presente a tutte, ma dove sarò presente rifaremo quella cosa delle domande selvagge del pubblico, nel senso che vale tutto.
Eccole qua:
8 febbraio - Cadelbosco (RE), L’Altro Teatro
22 febbraio - Fara Sabina (RI), Teatro Potlach
1 marzo - Bologna, Auditorium San Filippo Neri (ingresso gratuito)
6-9 marzo - Roma, Spazio Diamante
30 marzo - L’Aquila, Teatro dei 99
11 marzo - Gozzano (NO), Sala Somsi
Tony Effe non deve educare i vostri figli
Sulla questione Tony Effe ho (purtroppo) avuto ragione, sul piano pratico, pur restando in minoranza all’interno della mia stessa comunità. Le rare volte in cui succede (non rarissime, ma nemmeno molto frequenti) mi sento confortata: l’ortodossia assoluta mi spaventa, è roba da fanatici. Preferisco contenere moltitudini e accettare complessità e contraddizioni. Anche per questo non ho sentito di dover discutere a oltranza le mie posizioni: mi pare di essere sempre stata abbastanza precisa nelle mie argomentazioni su questi temi, poi si può pure dissentire. C’è una bellezza incredibile nel dissenso civile e nel dibattito costruttivo. Però io non voglio più discutere sui social1. Ho dato in abbondanza in anni in cui l’energia ancora ce l’avevo. E nemmeno mi voglio prendere gli insulti perché non seguo le capopopolo su una strada che mi sembra pericolosa per le sue implicazioni di breve, medio e lungo termine.
Però ecco, mi è rimasta sul gozzo una cosa che dirò adesso: non possiamo lamentarci della rimozione di Scurati dalla televisione a causa di un monologo antifascista, e pensare che chiedere la rimozione di Tony Effe sia diverso. Ridotta all’essenza, è la stessa cosa: c’è un artista, c’è un prodotto dell’arte che si ritiene mandi un messaggio disallineato con i propri valori, c’è una richiesta di oscuramento dell’autore. Se lo fanno i fascisti, è osceno ma è in linea con le pratiche del fascismo che abbiamo sempre combattuto. Se lo fanno i progressisti, dall’alto di un giudizio improntato a una forma di autorità morale, crea un precedente che autorizza i fascisti. A Roma dicono: stacce.
E comunque: esistono prove concrete, fondate, di un legame eziologico fra la trap e la violenza contro le donne, e nello specifico della trap fatta da Tony Effe? Ci sono studi scientifici e sociologici che possano dimostrare che gli uomini ci ammazzano perché Tony Effe ha scritto delle rime di merda, e non perché viviamo in una società che normalizza la nostra sottomissione e autorizza la misoginia a tutti i livelli, e l’arte (di merda) non è che una manifestazione di un fenomeno che non si combatte certo con la repressione e il paternalismo? Il panico morale intorno a Tony Effe è parente stretto di qualunque panico morale generatosi nei decenni (per non dire nei secoli) intorno ai fenomeni pop più diversi. Come questo, raccontato in una colonnina illustrativa dell’esposizione permanente sui fumetti al PAFF di Pordenone2.
Quando la settimana scorsa parlavo di impoverimento del dibattito culturale intendevo anche l’appiattimento dell’intera discussione sul concetto di “difendere Tony Effe”, che è un concetto poverissimo, appunto. Perché c’è una differenza notevole fra “difendere Tony Effe” e mettere in guardia contro l’idea di giudicare l’arte con il filtro della moralità, che si applica a Tony Effe come a chiunque altro. Ma siccome Tony Effe fa arte brutta (per citare il sempre saggio Niccolò Vecchia: “intrattenimento”3) ed è tamarro e sbiascica i testi4, allora è facile usarlo come esempio e bersaglio. Le donne possono indignarsi e gli uomini fare finta che questo li assolva dal lavoro ben più gravoso che va fatto sul piano dell’educazione e dell’autocoscienza.
Non invitarlo sarebbe stato più che legittimo: invitarlo e poi disinvitarlo ha solo creato ulteriore attenzione intorno alla sua figura, gli ha permesso di fare il martire e di organizzare in due e due quattro un concerto al Palazzetto dello Sport che il Comune è stato mezzo obbligato a concedere, e serve che ricordi che va a Sanremo? Ecco, ci andrà entrando in trionfo come eroe dei giovani. Si chiama “eterogenesi dei fini”, e dovrebbe essere tenuta presente quando si progetta qualsiasi azione pubblica.
La cosa che mi manda ai pazzi è che in effetti io credo che Tony Effe faccia arte brutta. Ma molto brutta, al punto che non so nemmeno se ritenerla arte o una semplice performance pensata per fare cassa sulle insicurezze dei ragazzini, sempre molto disponibili a cantarle ad alta voce. La violenza casuale e reiterata dei suoi testi è un fatto (peraltro: non nuovo, e già noto a chi ha un occhio sulla contemporaneità che non sia indirizzato dall’indignazione e dal paternalismo), e pur non essendo la sua analista non faccio molta fatica a immaginarmi che si tratti solo in parte dell’espressione di fantasie mai messe in discussione, e per il resto di banale e trita riproposizione di stereotipi per fare contento il grande pubblico, composto a larga maggioranza da gente che se ne fotte della morale o di problematizzare l’espressione della maschilità tossica5. Tony Effe raccoglie e impersona uno Zeitgeist che mi ricorda moltissimo quello degli anni ‘80: vuoto e disperato, minacciato da guerre e tensioni e da una classe dirigente incapace di affrontare le sfide della contemporaneità. I testi da boro Tony-comprami-la-borsa sono il sintomo di un desiderio disperato di disimpegno, oltre che una reazione al lavoro sempre più incisivo, costante e capillare dei femminismi nell’indirizzare la liberazione delle ragazze.
Eppure io penso che questo sia il piano per parlarne: quello artistico, critico, analitico. Non quello educativo. Tony Effe non deve educare i vostri figli, e se vogliamo dirla tutta io non riscontro grande artisticità neanche in Migliore dei Pinguini Tattici Nucleari, scritta come un dialogo fra Giulia Tramontano e il feto che è morto con lei quando Alessandro Impagnatiello l’ha accoltellata. Un brano il cui intento forse non è educativo, ma di certo rappresenta un posizionamento diametralmente opposto rispetto al tema che ha incendiato il dibattito in questi giorni. Però neanche i Pinguini Tattici Nucleari devono educare i vostri figli. Li dovete educare voi, i vostri figli. Li devono educare quelli che passano il tempo a reclamare un’assoluzione individuale, perché “Non tutti gli uomini!” Li deve educare la scuola, anche se Valditara non vorrebbe e comunque non mi pare abbia un’idea molto chiara di come si dovrebbe fare. Li devono educare gli adulti intorno a loro, per rifornirli di anticorpi contro il desiderio di sopraffazione e metterli nelle condizioni di ascoltare delle canzoni per quello che sono: belle o brutte o cringe come quelle in cui il cognome di una vittima di femminicidio viene usato come verbo, spostando l’accento.
A proposito di uomini e di educazione
Su Il Post è uscito un articolo che parla dei cerchi degli uomini, vale a dire i gruppi di autocoscienza maschile che prendono le mosse da quelli che a partire dagli anni ‘70 hanno formato e indirizzato il cammino dei femminismi. Non capita spesso, ma ogni tanto capita che gli uomini (e i ragazzi) chiedano a noi donne come fare, da dove cominciare. E io: trovatevi una stanza, noi mica lo sapevamo, come fare. Ci siamo trovate una stanza.
La risposta, però, è incompleta. Perché è vero che ci siamo trovate una stanza, ma è anche vero che eravamo spinte da una necessità evidente, impellente: quella di liberarci, di prendere possesso dei nostri corpi, delle nostre vite e dei nostri desideri. C’era una sofferenza riconosciuta ormai da secoli, e la ricerca di una via d’uscita ci sembrava più che mai impellente. Ci ammazzavano, allora come ora, ma allora potevano sfangarla se venivano riconosciute le attenuanti per onore.
Allora, da dove si comincia? Da quello che ti fa star male, dal riconoscimento delle fragilità. Non è tanto diverso dal lavoro fatto dalle nostre madri: quando le femministe cominciarono a riunirsi nei gruppi di autocoscienza, la maggior parte delle donne se ne teneva ben lontana. Il femminismo rappresentava una minaccia per l’identità femminile nel contesto familiare, per quello che Eugenia Roccella chiama (ai giorni nostri, non cinquant’anni fa) “Il prestigio sociale della maternità”, la funzionalità che ti risparmia di domandarti chi sei e cosa fai al mondo, perché il tuo posto è già stato deciso. Ancora adesso, le donne di destra vedono l’autocoscienza come un piagnisteo e i femminismi come un’intollerabile ammissione di fragilità, ed è pieno di donne che ritengono che “essere corteggiata” quando non direttamente “attaccata al muro” sia un diritto naturale della femmina. Gli uomini partono da una base abbastanza simile: andare contropelo rispetto alle aspettative e ai privilegi per riconoscere la fragilità, i desideri profondi, il malessere, ma anche quello che ti fa stare bene e che ti è precluso in quanto maschio.
So benissimo che queste pratiche presentano dei rischi. Gli uomini hanno un allenamento antico a scaricare i pesi sulle donne, e le donne un allenamento altrettanto antico a caricarseli. Per un esempio di quanto questi comportamento sia normalizzato, ecco un reel della Fondazione Umberto Veronesi sulla prevenzione (segnalato da Carolina Capria).
Non serve spiegarlo, mi sembra chiaro: dato un problema maschile, ci si aspetta che a risolverlo siano le donne. Il rischio, quando si parla di fragilità, è sempre che la richiesta alle donne sia “risolvi il mio problema” e non “rispetta il mio percorso di autocoscienza”. E quando le donne a “risolvi il mio problema” rispondono “no” (come Giulia Cecchettin, per fare un esempio recente), non c’è garanzia che la risposta non sia, in qualche modo, violenta. Perché un uomo è condizionato dall’intera società a pensare che le donne debbano essere a sua disposizione, che siano ancelle e aiutanti per natura, e non per paura e millenario senso del dovere.
A questo servono, o dovrebbero servire, i cerchi degli uomini: a creare uno spazio di autonomia e crescita emotiva che porti alla liberazione dalle costrizioni, e quindi anche dalla sofferenza generata dalla pressione costante della maschilità tradizionale. I cerchi degli uomini non sono tanti, ma niente di niente vieta di crearne uno, in qualsiasi posto, con gli amici e le persone conosciute o con degli sconosciuti. Basta una stanza, appunto.
Un’ultima cosa
L’annunciata apertura degli abbonamenti alla newsletter ha generato un piccolo flusso di iscrizioni, e non so dirvi quanto ve ne sono grata. Se hai effettuato l’iscrizione da poco, ripeto le regole d’ingaggio: la newsletter non cambia, non ci sono (per ora) contenuti extra ma non c’è neanche il paywall. Chi sottoscrive un abbonamento a pagamento lo fa per sostenere un lavoro che faccio con molta cura ogni settimana, ma tutti i contenuti dell’uscita del martedì resteranno accessibili anche in forma gratuita.
Le iscrizioni a pagamento partiranno da gennaio. Fino ad allora, chi ha fatto una promessa di abbonamento ma ha cambiato idea può annullarla. Nessun problema e niente di personale, i soldi sono soldi e si investono come si ritiene giusto.
Ci risentiamo il 31 per una newsletter priva di classifiche e buoni propositi.
Buon Natale a chi lo festeggia,
Giulia
Soprattutto non con la gente chiaramente in malafede o alla ricerca di una rissa.
Che è pazzesca, non solo per la qualità del materiale esposto, ma anche per l’allestimento, tutto armadi, cassetti e pannelli da aprire per scoprire cosa c’è dentro. Mi è dispiaciuto solo un po’ vedere così poche donne esposte: niente Fumettibrutti, niente Kate Beaton, niente Allie Brosh, per dirne solo tre che penso se lo meritassero, ma neanche Alison Bechdel, per dire. E Alison Bechdel è una titana del fumetto.
E anche qui: chi lo decide? Chi decide cos’è arte e cosa invece no? Gli organi che si occupano di queste cose, di solito, sono i comitati di censura.
Nonostante sia figlio dell’ottima borghesia monticiana, o forse proprio per quello: chissà quanto deve durare ancora questa separazione adolescenziale dal genitore perbene.
Dentro questa frase c’è la base per un intero sketch di Edoardo Ferrario.