Meloni, non sei mia madre
Questa settimana spieghiamo perché il governo non vuole davvero affrontare, meno che mai risolvere, il problema della violenza di genere
Prima di tutto, le comunicazioni di servizio. Irene Facheris ha pubblicato un libro nuovo, si intitola Noi c’eravamo e parla di attivismo e del senso di fare attivismo anche e soprattutto nell’era in cui i social permettono a chiunque di entrare nel discorso politico. Ne parleremo insieme a Lorenzo Gasparrini mercoledì 13, cioè domani, al Monk. Dettagli nella card qui sotto.
Veniamo a noi.
L’ho visto anche io, come l’hai visto tu che mi leggi, il video di Giorgia Meloni che difende il suo compagno usando la stessa logica zeppa di paternalismo.
Se di Vannacci non avevo intenzione di parlare né di occuparmi nel dettaglio1, di lei tocca: perché è la Presidente del Consiglio, le sue posizioni hanno un impatto sulle politiche messe in atto dal governo di cui è capo. Spoiler: la posizione del governo sulla violenza sessuale è “Non faremo niente”, e oggi vedremo perché.
Al contenuto ci arriviamo dopo: prima vorrei parlare dell’enunciazione. Di come parla Meloni, come propone il suo messaggio. Ormai la conosciamo, no? Anzi, dovremmo dire che abbiamo imparato a conoscerla, negli anni, e non solo negli ultimi mesi. Il timbro vocale, già collocato nei registri più bassi per natura, suona come se lei si sforzasse di mantenerlo sempre sulle note più cupe, in maniera quasi mimetica. “Il” presidente sembra voler celare il suo essere donna, a meno che non possa strumentalizzarlo. Brava e potente nei discorsi preparati e nelle interviste di cui ha il controllo, Meloni arranca nel confronto diretto con i giornalisti, e anche in questo video sembra essere in difficoltà. Balbetta, esita, si ferma, usa un aggettivo in un contesto che non pare appropriato (“assertiva”, riferendosi all’opinione che il compagno, che chiama per nome e cognome come se non fosse un membro della sua famiglia ma un qualsiasi militante del partito, ha espresso sulla questione degli stupri). Vorrebbe difendere Giambruno spiegando che è stato frainteso: finisce per ripetere la stessa cosa che ha detto lui e che era già chiarissima, ed è stata criticata nel merito.
Purtroppo sono costretta a ripetere questo concetto fondamentale, perché pare che non sia chiaro: ogni volta che nel discorso pubblico viene detto alle donne che “devono proteggersi”, si sta dicendo agli uomini che la loro violenza è una responsabilità delle donne. Se la Presidente del Consiglio, anziché chiudersi da qualche parte con un gruppo di esperte per elaborare un piano di prevenzione della violenza di genere, ti dice che devi avere “la testa sulle spalle” come da indicazioni di “sua madre” (che è uguale a mia madre e tutte le madri in tutto il pianeta), c’è pure l’aggravante che questa indicazione generica rappresenta anche un indirizzo politico.
Capisco bene che il concetto espresso qui sopra sia di difficile comprensione per alcuni (generalmente maschi vecchi, lo dico senza problemi: sono quelli che su Twitter hanno reagito con la maggiore indignazione), allora lo rispiego. La raccomandazione di Meloni e Giambruno, in un contesto familiare, segnala affetto: mia madre2 si preoccupa per me e mi mette in guardia da problemi non meglio identificati, esattamente come mi dice “vai piano” quando esco con la macchina3 o “chiama quando arrivi”4 quando vado a prendere il treno. È un lessico dell’amore, non ha a che vedere con la realtà: esprime cura verso una creatura che ami e che sai di non poter proteggere da tutte le bruttezze del mondo. È anche una raccomandazione che si accompagna a mille altre che vengono fatte alle donne nell’arco di tutta la vita, dalle madri, dalle sorelle, dalle zie e dalle amiche più grandi. Ci insegniamo a vicenda a tenere le chiavi in mano quando torniamo a casa di notte, a evitare tratti bui e poco frequentati, a stare all’erta in ogni momento per fuggire in caso di pericolo, e infatti sono più le volte che la sfanghiamo: perché il pericolo, prima o poi, si presenta per tutte. Le raccomandazioni della coppia Meloni-Giambruno, insomma, sono inutili e irritanti. Anche perché non sono i nostri genitori, ma la Presidente del Consiglio e il suo compagno giornalista televisivo.
C’è una metafora visiva usata spesso da chi giustifica la linea Meloni-Giambruno, ed è: ma tu, quando attraversi la strada, non guardi chi arriva?
La risposta è: certo, c’è un codice della strada che mi insegna a farlo, l’ho imparato dai miei genitori quando ero molto piccola e ci sono limiti di velocità per gli automobilisti pensati anche per minimizzare i rischi di un investimento accidentale. Non ho certo bisogno che mi venga ribadito dalla Presidente del Consiglio. Il problema è che lo stupro non è un’auto che ti arriva addosso quando attraversi senza guardare chi arriva. È un guidatore che vedendoti attraversare accelera, anziché rallentare, per essere sicuro di investirti. Per evitarlo dovrei evitare di attraversare o non uscire mai di casa: cosa che, fuor di metafora, nel caso dello stupro non garantisce alcuna protezione, dato che oltre il 60% delle aggressioni sessuali avviene fra persone che si conoscono, inclusi partner e parenti. Per le donne, il fattore di rischio è la semplice esistenza in vita.
Fuori dal contesto della comunicazione familiare, le frasi come “tenete la testa sulle spalle” hanno quindi un effetto completamente diverso, specialmente se pronunciate da chi ha, a vario titolo, il compito di ridurre o eliminare il pericolo a partire da una corretta individuazione della sua origine. Meloni ha il potere di dare mandato ai suoi ministri di pianificare strategie di breve, medio e lungo termine che abbiano come orizzonte l’eliminazione della violenza, e che vanno dall’educazione nelle scuole all’applicazione di principi urbanistici che consentano alle donne di vivere sicure in ogni momento (e in mezzo c’è ovviamente molta altra roba, ma non è questa la sede). Se Meloni non dice chiaramente che la violenza contro le donne, qualunque sia la sua forma, è responsabilità diretta di chi la compie e non di chi la subisce, non sta facendo il suo lavoro. “Gli stupratori esistono” non è una frase che può uscire dalla bocca di un capo del governo davanti a una telecamera, perché se da un lato si tratta di un triste dato di realtà, dall’altro è è un’ammissione di incapacità, se non - a questo stadio - di fallimento. È compito suo, nel contesto della comunicazione pubblica, inquadrare la violenza nella sua natura di scelta autonoma di chi la compie e affrontarla di conseguenza. Ancora una volta: non c’è una forza soprannaturale che ti fa stuprare o picchiare, è una decisione tua, anzi: una serie di decisioni che nel tempo ti portano a compiere quell’azione, e a ripeterla nel tempo, forte di un’evidente impunità.
La comunicazione uno-a-molti (come fa notare giustamente Daniele Fabbri) è diversa dalla comunicazione uno-a-uno. Meloni e Giambruno, come altri che hanno accesso ai media per diffondere i loro messaggi, comunicano a molti: il loro messaggio assume un valore universale e viene applicato a tutta la società. Dato che non stanno parlando con Ginevra nel loro salotto ma con un intero paese a cui non sono legati dall’affetto ma dalla responsabilità (di governare o di fornire strumenti di interpretazione della realtà), devono scegliere con cura le parole che usano: nel momento in cui scelgono di dire alle donne che sono responsabili di proteggersi, stanno assolvendo i loro aggressori.
Dicevo, è un concetto difficile da digerire, quindi faccio un esempio pratico di come questa logica può facilmente essere portata alle estreme conseguenze. Diciamo che io sono un rampollo di una famiglia-bene5, di quelli cresciuti pensando che tutto mi spetti, e che l’azione di prendere (soldi, cose, donne) sia automatica per chi voglia dirsi “vincente”. Sono fuori con gli amici e decido che questa sera per vincere mi devo portare a casa qualcuna e scoparmela. Qui mi trovo di fronte al primo bivio oltre quello dell’educazione che ho ricevuto e che mi fa pensare di essere il re del mondo: la mia idea di consenso. Posto che la violazione è parte del divertimento (gli ultimi casi di cronaca ce lo dicono chiaramente: nelle intercettazioni degli accusati di violenza ci sono riferimenti chiarissimi alla natura di quello che stavano facendo, che indica che ne erano consci), è importante per me potermi assolvere in qualche modo dalla colpa connessa a quella violazione. Potermi dire: lei lo voleva, se l’è cercata. Altrimenti non avrebbe: bevuto, preso droga, indossato quel vestito, parlato con me, flirtato con questo o quell’altro, frequentato quel locale, chiesto che la accompagnassi in bagno per tenerle la porta e passarle dei fazzoletti (continua a piacere). Se avesse avuto la “testa sulle spalle” non le sarebbe successo nulla: invece non l’ha avuta. Quello che le accade è colpa sua, non mia.
Meloni non può non essere conscia dell’effetto delle sue parole. Con quell’espressione così povera, “testa sulle spalle”, ha autorizzato ogni uomo con sufficiente cattiva volontà a correggere con la violenza qualunque comportamento femminile da lui percepito come inappropriato, e ha comunicato alle donne che non hanno alcun diritto a vivere libere e sicure. Soprattutto, ha detto alle donne che il governo che presiede non ha alcuna intenzione di intervenire sul problema: e questo non è un caso, ma una precisa volontà politica.
La funzione della violenza nell’ideologia di destra
Le destre sono fondate sul controllo sociale: non serve andare indietro fino a Mussolini per verificare che dove c’è un governo di destra c’è anche la repressione delle libertà individuali, accompagnata da una sostanziale inazione sul fronte della violenza sistemica. Da quando si è insediato, il governo Meloni ha emanato provvedimenti contro le feste, lanciato una fatwa di nessuna efficacia contro gli “scafisti”, dichiarato la GPA “reato universale”, inasprito le pene di qua e di là per questo o quel reato, e avviato una campagna incessante contro ogni forma di famiglia che non sia quella eterosessuale, che è la stessa entro la quale quest’anno sono morte quasi 80 donne. Anzi no, mi correggo: non sono morte, sono state ammazzate dal coniuge, dal partner o dall’ex. La “famiglia classica” e la relazione eterosessuale è l’ambito in cui le donne hanno la maggiore probabilità di morire di morte violenta, eppure guardate con quanto garrulo zelo6 la ministra Roccella continua a difenderla. Non mi stupisce: come tutte le gabbie, anche la famiglia è efficace nel mantenimento dell’ordine sociale in rapporto a quanto è stretta e impedisce i movimenti a chi la compone.
La violenza maschile, non solo quella contro le donne, viene utilizzata dalle destre di volta in volta come strumento di controllo (agita dalle forze dell’ordine, lasciata proliferare incontrollata contro le minoranze, fomentata con la retorica razzista, omofoba, transfobica e misogina) o come pretesto per imporre restrizioni e vessazioni ai danni delle soggettività che si vogliono usare come spauracchio. La violenza degli uomini bianchi contro le donne che hanno vicino viene ignorata o trattata come fenomeno inevitabile e del tutto episodico, mentre quella agita da stranieri, specialmente bianchi e poveri, viene strumentalizzata a fini politici come manifestazione di inferiorità culturale e pericolosità sociale. Meloni non si è fatta scrupolo di pubblicare sui suoi canali social il video di uno stupro, quando gli aggressori erano stranieri, mentre sulle violenze sessuali compiute dai bianchi tace o raccomanda alle vittime di tenere “la testa sulle spalle”.
La violenza contro le donne, minacciata (come nei messaggi di Meloni e Giambruno: fai la brava, o non sai cosa ti capita) o agita (da chi si muove secondo quell’autorizzazione implicita: non è una brava ragazza, si merita quello che le sto facendo), è un sistema già implementato che non ha bisogno di essere inasprito a botte di decreti. Basta fare spallucce e scaricare tutto sulle vittime, proprio come ha fatto il magico duo: che non è sicuramente isolato (si tratta di un sentire comune piuttosto diffuso anche fra gli adolescenti, come indica il sondaggio condotto da Ipsos per ActionAid), ma che per il ruolo che ricopre non dovrebbe potersela cavare con un’autogiustificazione pronunciata con stizza o balbettata davanti alle telecamere. Ma se Giambruno lavora nel privato e può dire quello che gli pare senza essere chiamato a risponderne dal punto di vista professionale7, Meloni lavora per noi. Letteralmente. Ha ricevuto il suo mandato dal popolo italiano, non da quattro stronzi al bar che pensano che Vannacci sia un campione del libero pensiero. È giusto chiederle conto delle sue posizioni.
Quanto ci piacciono le donne che soffrono
La narrazione sulle donne, del resto, è fatta tutta di camminate in salita. Una non può semplicemente campare, no: per realizzarsi pienamente nell’esperienza femminile, una donna deve superare piccole e grandi difficoltà quotidiane, stare sempre in campana perché non sai cosa ti può succedere, rimettere a posto capi invadenti e colleghi piacioni, schivare molestatori e stupratori, fuggire da compagni abusanti, abortire solo previa esibizione di intima lacerazione, essere una buona madre per i figli, saper cucinare, sapersi vestire, sapersi truccare, saper addestrare il compagno pigro a contribuire ai lavori domestici, protestare di continuo contro tutte le ingiustizie contro tutte le donne di tutto il mondo, mi sono stancata solo a scriverlo e forse vado a sdraiarmi.
E in tutto questo, manco una birretta o due in pace, ti puoi fare, senza che sullo sfondo ci sia Meloni col ditino a dirti noooo, atteeeeentaaaaa, arriva il luuuupoooo. Che vita di merda, quella che apparecchiamo per le femmine: e mai che ci si preoccupi di alleggerire il carico, mentre ogni sospetto di sofferenza degli uomini viene accolto con grandi allarmi sulla “crisi del maschio” che poverino, si è visto sottrarre il suo ruolo ancestrale. Lo dicevo la settimana scorsa: ci piace vedere le donne che soffrono. La donna che si diverte, che è leggera, che si gode la vita è uno spettacolo inaccettabile, da Sophie Turner che osa andare a bere con i colleghi mentre è sul set (e le figlie sono con l’ormai ex marito, com’è perfettamente normale in una coppia) a te che osi non contare le calorie di ogni cosa che mangi. Ogni piacere, per le donne, deve essere una conquista o deve essere seguito da una penitenza, alcool, cibo, sesso, libertà, tutto si paga, a volte con il sangue, e i regolatori di questa libertà sono gli uomini, che si arrogano il diritto di correggerci con la violenza, potendo contare sulla complicità e l’approvazione degli altri uomini; ma anche di una buona parte delle donne, condizionate a pensare che se si “comportano bene” saranno sempre in salvo, e che quelle che non lo fanno, be’, se la sono cercata.
(Continua.)
Giulia
Lo ha fatto Matteo Bordone in due puntate strepitose del suo podcast Tienimi Bordone.
Non mia madre, nello specifico, visto che non ci vivo insieme da più di trent’anni: mia madre per dire tutte le madri, come sopra.
Questo è più mio suocero, che pur sapendo che vado lenta come un vecchio col cappello pensa sempre che io possa guidare come Schumacher.
Non lo faccio mai, anche perché spesso quando la chiamo non risponde.
Non esiste una classe sociale in cui lo stupro sia più diffuso o avvenga con più facilità. Gli stupratori sono trasversali alle classi sociali, all’istruzione e al censo.
Fanatismo.
Il suo datore di lavoro Pier Silvio Berlusconi potrebbe sicuramente intervenire, ma dubito lo farà. Questo ci dice parecchio della natura del potere e anche dell’etica sbandierata da Pier Silvio, temo.
Sono perfettamente d'accordo su tutto, manco a dirlo. Però ho nella testa da qualche giorno un'altra immagine, che è quella della punizione.
Quando la narrazione è del tipo "fai la brava" oppure ci saranno delle conseguenze, parlare di correzione è secondo me parziale. Ho paura che non siamo solo di fronte a uomini che uccidono perché la donna (l'ex soprattutto) è una violata proprietà inviolabile del maschio patriarcale e quindi vittima, o stuprano perché indotti dalla donna e quindi vittime; dietro io ci vedo una dinamica punitiva da squadrone fascista. Si stuprano le donne perché vanno punite. Non è solo una devianza sessuale, ma una precisa direzione punitiva - in cui, come sappiamo, tutto c'entra con il sesso tranne il sesso, che c'entra col potere. Le donne libere vanno punite perché delinquono rispetto alle regole patriarcali e come ogni delinquente vanno punite in proporzione al reato commesso. Mi lasci, muori; flirti, ti stupro. Non succede praticamente mai nei casi di "uso punitivo del patriarcato" che ti stupro anche muori, quello succede nella cronaca nera, dove c'è una componente di devianza psicologica non solo una stortura educativa.
Da un lato mi sembra necessario approfondire l'aspetto punitivo (culturale, non di devianza) della violenza di genere, ma dall'altro ho paura che si vada a gettare benzina sul fuoco - come quando dopo il primo sasso dal cavalcavia ce ne sono altri 3 o 4 per emulazione del servizio visto al tg.
La narrazione sulle donne, del resto, è fatta tutta di camminate in salita.
Credo sia il miglior riassunto che abbia mai letto