Il lungo cammino di Gino Cecchettin
Questa settimana: torniamo a parlare di uomini e femminismo.
Quando è arrivata la notizia del ritrovamento del corpo di Giulia Cecchettin, le emozioni dominanti in me, oltre lo strazio per una fine che ormai sembrava certa, erano la stanchezza e la sfiducia. Ero convinta - e in parte lo sono tuttora - che passata la prima ondata di indignazione non si sarebbe fatto granché per affrontare il problema con la prevenzione, piuttosto che con la repressione, che è come dire: venite già ammazzate.
Poi c’è stata la manifestazione del 25 novembre. C’è stata la furia lucida di Elena Cecchettin, una raffica di parole precise dette nel contesto più difficile in assoluto. C’è stato il funerale di Giulia, le chiavi agitate in aria, il discorso pacato, costruttivo e colmo d’amore di suo padre. Domenica sera, quello stesso padre era da Fabio Fazio a parlare di cosa fare ora, di futuro, di azioni. E Fazio, che da sempre sembra fingere che le femministe italiane non esistano, lo ascoltava con rispetto: cose inaudite, cose sorprendenti, commentava a quasi ogni frase (pacata, sensata) di Gino Cecchettin. Non proprio, Fazio, ho pensato io: sarà che sembrano avere valore solo quando a dirle è qualcuno che ti somiglia, un uomo come te, brizzolato come te, con dei figli come te.
Non avevo calcolato tutto questo. Non la sorella femminista capace di mettere i conservatori all’angolo e di indirizzare il dibattito, piuttosto che inseguirli sul loro terreno, né il padre che rifiuta di farsi schiacciare dal dolore e lo tramuta in energia propulsiva, generativa, e fa piani, annuncia una volontà precisa. Questo mentre il Ministero dell’Istruzione fallisce a più riprese e su più fronti nell’obiettivo (dichiarato, mai davvero perseguito) di avviare un progetto di educazione sessuale e affettiva nelle scuole, quello della Giustizia non ci prova nemmeno a mettere in piedi un programma di formazione delle forze dell’ordine, e quella delle Pari Opportunità dà la colpa a… aspe. A chi ha dato la colpa, Roccella? Ah sì: al gender, che sarebbe “il nuovo patriarcato”1. Qualcuno le dica che servono fondi per i Centri Antiviolenza, se per cortesia la smette di dire balordaggini e si attiva non fa un soldo di danno: e già che c’è faccia pure una telefonata al governatore della Regione Lazio, che sta cercando di cacciare il più grosso CAV di Roma dalla sua sede proprio quando è più evidente che di CAV - purtroppo - ne servono di più, e non di meno.
C’è un lungo cammino da fare
Torniamo a Gino Cecchettin, che fino a poche settimane fa era solo un ingegnere informatico e un padre vedovo che di patriarcato non aveva praticamente mai sentito parlare, e che anche ora fatica a darne una definizione precisa. Non sono qui a vivisezionare il suo intervento da Fazio, perché sarebbe assurdo: uno, perché non contiene errori, e due, perché Gino Cecchettin sta facendo quello che può con quello che ha, che è la base da cui partiamo tuttǝ. Fatto è meglio che perfetto, e lui di tempo non ne ha. Se si fosse fermato a studiare per diventare un femminista formato, l’energia personale e sociale che lo sostiene si sarebbe dissipata. Lui vive nel qui e ora, e nel qui e ora va ovunque a dire che ad armare la mano del ragazzo che ha ucciso sua figlia non è stato il caso o la follia, ma un sistema sociale e culturale oppressivo. E ha ragione. È tutto vero. Le femministe lo spiegano da cinquant’anni. È ora che gli uomini entrino in partita, e lui lo sta facendo così come sta.
Lo ripeto per chi faticasse a comprenderlo: il lavoro di decostruzione delle relazioni necessario a prevenire i femminicidi e la violenza maschile in generale l’hanno fatto e lo stanno facendo i femminismi. Nessun’altra corrente filosofica, di pensiero e di pratica politica è mai riuscita a tenere insieme il pubblico e il privato, la società e l’individuo, la prassi e la relazione. I femminismi ci indicano la via per costruire una società più accogliente, più felice e più giusta: la scelta è fra seguirla, o continuare lungo il tracciato delle logiche patriarcali. Non esistono vie alternative o scorciatoie, e di sicuro non le troviamo nel femminismo annacquato di chi pensa che la struttura del mondo vada bene così e che tutto si possa risolvere chiedendo agli uomini di opprimerci un po’ meno.
Quello degli uomini nei femminismi è un cammino che si preannuncia lungo: non tanto sul fronte della formazione e della produzione di pensiero, dato che la base è già bella pronta da qualche decennio, quanto su quella della partecipazione. Ogni uomo, ogni ragazzo deve farsi carico di incarnare un nuovo modo di essere uomo, di essere ragazzo, e portarlo nel mondo, diffonderlo in modo che altri uomini e ragazzi trovino quel modo più attraente e liberatorio di quello tradizionale. Ogni uomo - e Gino Cecchettin sta cominciando, l’ha raccontato anche lui da Fazio quando ha detto di aver esaminato in sé l’utilizzo dell’espressione “da uomo a uomo” - deve farsi carico degli altri uomini, della loro educazione, della costruzione di una maschilità più duttile, morbida, ampia. Le resistenze saranno enormi: portare le donne nei femminismi è stato ed è tuttora difficile, nonostante i vantaggi immediati e visibili che questo comporta. Convincere gli uomini a fare altrettanto non è così semplice: gli uomini non si sentono minacciati dal patriarcato. La maggior parte ci vive dentro senza attriti.
Gli uomini che decideranno di intraprendere seriamente questo percorso troveranno in molte di noi delle alleate: critiche, a volte, e senza sconti, ma sempre nello spirito della crescita collettiva. “Non esistono maschi femministi” è una posizione che - se mai è stata valida - ha fatto il suo tempo, e che tratta i femminismi come un territorio da difendere, piuttosto che come una pratica da diffondere. Abbiamo lavorato da sole per cinquant’anni, è ora di avere compagnia: chi dice di voler appoggiare Gino Cecchettin nel suo percorso dovrebbe riconoscere questa apertura e farne tesoro, ascoltando chi su questo tema ha già accumulato una competenza sufficiente a dare le spiegazioni necessarie.
Un appunto su cui tornare
Quando parliamo di violenza maschile finiamo spesso per sovrapporla alla rabbia, e nel ragionamento questa sovrapposizione finisce per individuare una sostanziale impossibilità di eradicare la violenza dalla società. È una forma di rassegnazione che rasenta l’assoluzione, per cui mi segno qui una cosa su cui tornare magari in futuro: la rabbia è un’emozione, la violenza è un’azione che a volte (non sempre, anzi, per fortuna con relativa rarità) segue la rabbia. La rabbia è l’esplosione di energia accumulata quando qualcuno o qualcosa ci impedisce di raggiungere quello che desideriamo: la barriera, l’ostacolo alla realizzazione di quel desiderio crea un accumulo che poi si libera e viene sfogato o riassorbito, a seconda dell’indole e dell’educazione ricevuta.
Uomini e donne sono socializzati a rispondere in maniere molto diverse alla rabbia, che è un’emozione naturale. La rabbia maschile è autorizzata, talvolta persino incoraggiata: risolvere un conflitto a cazzotti è cosa comune fra maschi, molto più rara fra le femmine, e in questo secondo caso è fortemente scoraggiata. La rabbia delle donne, in generale, è trattata come disdicevole e sanzionata anche nelle sue manifestazioni più blande: il lancio di una secchiata di vernice sulla statua di Indro Montanelli ai giardini di Porta Venezia fu condannato con fermezza e fatto oggetto di innumerevoli editoriali indignati, anche se a prendersi la secchiata era stata una statua, un simbolo, e non una persona. Le donne, secondo la società, dovrebbero confinare la loro rabbia a specifiche situazioni in cui è a rischio la loro vita o la loro dignità: cioè proprio i momenti in cui reagire con rabbia aumenta le probabilità che il tutto finisca in tragedia. Insomma, quella rabbia ce la dobbiamo tenere. Mandarla giù.
La sovrapposizione di violenza e rabbia è impropria, perché la violenza è molto spesso impiegata non come sfogo per un momento di rabbia (cosa che già di per sé dovrebbe essere impensabile), ma come mezzo per raggiungere un fine. Chi droga e stupra una ragazza non lo fa per rabbia, ma perché ritiene che quella violenza sia il modo per ottenere quello che vuole, che non è solo la violazione del corpo e dell’integrità di una donna, ma anche il senso di realizzazione identitaria maschile della dominanza. La violenza diventa parte del piacere; prendere una donna con la forza, specialmente quando non può difendersi (quindi: non può mostrare rabbia) contiene in sé il divertimento. Sbaglia chi pensa che il consenso sia indispensabile al piacere degli uomini: il potere è, purtroppo, un afrodisiaco molto più efficace.
Dobbiamo dissociare violenza e rabbia, o quantomeno cominciare a trattarle in modo separato. Tutti gli esseri umani provano rabbia, ma solo una parte è socializzata a riconoscerla e gestirla, mentre nell’altra la rabbia viene fomentata e giustificata nelle sue espressioni più nocive. La violenza, fisica o verbale, non è un’emozione, è un’azione: è il risultato di una scelta, più o meno automatica a seconda del grado di consapevolezza e di autocontrollo dell’individuo. Ma sempre di scelta si tratta.
Ci risentiamo martedì prossimo.
Giulia
Ah, la cara vecchia transfobia che non passa mai di moda.
Ripensare il proprio ruolo di maschio è oggettivamente difficile. Non tanto per le parti più evidenti, ma per quelle "invisibili". Tutti quei "dato per scontato" di cui nemmeno ti accorgi. La dimensione del potere.
Forse sto banalizzando, ma la donna ha conquistato i pantaloni perché erano simbolicamente un posto in cui andare (siamo adatte al potere, siamo capaci del potere). "Voglio i pantaloni" per capirci.
Ma l'uomo ha un posto dove andare? Se c'è non lo vedo.
L'uomo deve scendere dal piedistallo, e l'unico motivo che ha per farlo è la consapevolezza che sia la cosa giusta da fare.
Ma per scendere da quel piedistallo devi essere mentalmente in un posto che ti da sicurezza e tranquillità.
Io vedo moltissimi uomini che invece quella serenità non ce l'hanno. Non hanno un codice individuale con cui sostituire il codice di genere. Penso a una persona a me cara che non posso aiutare nella riflessione perché gli sono troppo vicino, e mi angoscia.
Penso anche alle donne che conosco che non riconoscerebbero gli uomini senza alcuni di quei tratti che avvicinano alla mascolinità, né riconoscerebbero le donne senza il tratto complementare.
Ricordo un giorno in biblioteca, due donne con una bambina e il gioco: "cosa farà da grande? La principessa". Io mi sono azzardato a suggerire e perché non l'ingegnere? Troppo, anche solo l'ipotesi è stata rigettata. Ma è una maledetta trappola mentale perché se cresciamo principesse, cercheranno principi.
Mi sento un po' confuso, ma sento anche che semplicemente cercare di essere brave persone non basta più. Forse non è mai bastato.
In merito alla violenza: vi sfido a trovare un video porno (etero) che non contenga violenza sulla donna. Ed il porno è attualmente disponibile pane quotidiano di ogni maschio.